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Amministrazione straordinaria per le grandi imprese in crisi

LUCIO GHIA

Innanzi alla X commissione della Camera dei Deputati sono in corso le audizioni di esperti per raccogliere le opinioni sul progetto di legge Abrignani, atto della Camera n. 865 e sul disegno di legge delega Rordorf (art. 15), atto della Camera 3671-ter, in relazione alla normativa sulle amministrazioni straordinarie. Nel corso della mia audizione dell’11 novembre scorso, ho potuto sottolineare che l’iniziativa legislativa rappresentata dai due progetti esaminati congiuntamente dalla commissione, è quanto mai tempestiva così come è urgente l’approvazione della legge che seguirà alla conclusione dei lavori parlamentari.
Infatti, la situazione delle procedure di amministrazione straordinaria tutt’ora aperte è estremamente penalizzante sia sotto il profilo dei risultati in termini di occupazione, soddisfazione dei creditori, costi di gestione, di immagine per il Paese. L’analisi dei dati resi pubblici dal Ministero dello Sviluppo economico (e aggiornati al 30 settembre 2016) con riferimento alle procedure aperte di A.S. ai sensi del decreto legislativo n. 347 del 2003 lascia emergere che delle 22 amministrazioni straordinarie ancora aperte, più della metà sono state ammesse alla procedura antecedentemente al 2010; il tempo medio per la cessazione dell’esercizio dell’impresa è pari a 4 anni, mentre la durata della procedura liquidatoria avviata successivamente alla cessazione dell’esercizio dell’impresa, ex art. 73, terzo comma, del decreto legislativo n. 270 del 1999, è in media pari a 7 anni.
Il dato assume contorni ancor meno incoraggianti se si passa all’esame delle procedure di amministrazione straordinaria avviate ai sensi del decreto legislativo n. 270 del 1999, dove il campione di riferimento comprende 115 procedure avviate sin dal 2000 (anche in questo caso i dati sono stati estratti dal portale del ministero dello Sviluppo economico e sono aggiornati al 30 settembre 2016). Quindi la fase di esecuzione del piano del commissario fino alla cessazione dell’esercizio dell’impresa è mediamente di tre anni. La fase di liquidazione vera e propria invece successiva alla cessazione dell’esercizio dell’impresa, per oltre il 40 per cento delle procedure, dura da quasi un decennio e per il 60 per cento da oltre un quinquennio.
Rimarcata la gravità del quadro che emerge da questi dati, ho esaminato i due progetti di legge in particolare sotto il profilo dell’esperienza che continuo ad effettuare, «pro-bono», dal 2001, quale delegato del Ministero degli Affari esteri italiano presso le Nazioni Uniti, all’Uncitral - Commissione permanente per il Diritto dello studio del commercio internazionale, sul tema dell’insolvenza.
L’Uncitral - Working Group V - si è occupata a lungo, nel corso della redazione della Guida legislativa sull’insolvenza (2004-2014), dei vari problemi emersi in molte giurisdizioni, indicando come superare differenze o assenze normative, in quest’ultimo biennio, con la predisposizione di una Legge Modello in corso di approvazione che si ispira alle «best practices» riscontrate nelle varie normative di settore, inclusa quella italiana. Le linee guida proposte dall’Uncitral hanno lo scopo di rendere competitiva una buona legge concorsuale rispetto alle leggi dei Paesi concorrenti di pari rango economico e produttivo. Specie oggi, infatti, le grandi imprese avvertono sotto il profilo normativo particolari necessità. Esse operano su mercati globali, ma sulla base di norme nazionali, spesso tra di loro molto diverse. Si potrebbe dire che il «business è globale» mentre le norme sono locali.
È questa dicotomia che l’Uncitral e i vari delegati nazionali cercano di attenuare se non di eliminare. Oggi tutto, persone e attività, vengono misurate in termini di «rating», di efficienza, di affidabilità e di risultati; lo sono anche le leggi, i sistemi normativi nazionali che vengono monitorati costantemente e in tempo reale. Per rendere competitivo il nostro sistema normativo, specie considerando l’Italia parte del «club» dei Paesi più industrializzati, bisogna fare i conti con le regole e gli indirizzi che a livello sovranazionale disegnano le «buone» leggi. Esistono, infatti, le direttrici legislative che promanano dagli uffici studi della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e delle Nazioni Unite, esse individuano il percorso e stabiliscono i «paletti» che le norme dei vari Paesi membri per essere considerate efficienti devono seguire. Nell’ultimo lustro, per quanto attiene all’indicatore «enforcing contract» (esecuzione dei contratti) nella classifica del Doing Business (World Bank) l’Italia ha guadagnato 46 posizioni, ma è sempre al 111esimo posto.
Questa classifica non attribuisce astratte medaglie, ma rappresenta la capacità di attrarre finanziamenti nel nostro Paese da parte di banche, finanziarie e fondi internazionali, entità delle quali l’impresa in crisi, specie se di grandi dimensioni, specie se soggetta all’amministrazione straordinaria, ha particolarmente bisogno. Infatti, per «rimettere in carreggiata» l’impresa in crisi, per farle recuperare il cosiddetto «on going», è necessario finanziarla possibilmente a basso costo.
Ebbene, il «nostro» ipotetico investitore oggi avrà 110 buoni ragioni per non investire in Italia soprattutto per l’incapacità del nostro impianto giuridico di rispondere alle domande che la finanza pone: «Se le cose vanno male quanto recupererò dell’investimento fatto, quanto tempo impiegherò e con quali costi?» Tutte domande queste che per tornare al tema che stiamo affrontando non trovano risposte certe. Siamo lontani dalla «accountability» che presiede all’allocazione della finanza internazionale.
Fatta questa premessa, mi sono soffermato sull’impianto contenuto nel testo elaborato dalla Commissione Rordorf, poiché inserito nel corpo organico di una nuova legge concorsuale che dovrebbe sostituire integralmente la legge del 1942. L’art. 15 del testo Rordorf risponde alla scelta dell’Uncitral di un’unica procedura di amministrazione straordinaria per le «grandi imprese», anche in relazione ai «gruppi di imprese», le quali in ragione della loro notevole dimensione presentino importanti rilievi di carattere economico e sociale. In realtà l’Uncitral privilegia le procedure giudiziarie concorsuali, ma ammette anche quelle amministrative, con l’intervento e il coordinamento del giudice. Anche il profilo relativo ai presupposti oggettivi di ammissibilità (numero dei dipendenti, ammontare dei debiti, fatturato etc.) all’amministrazione straordinaria, che devono esistere congiuntamente, si inserisce nei principi dell’Uncitral, e appare peraltro coerente con la scelta già operata dal legislatore italiano con la riforma del diritto fallimentare, introducendo parametri quantitativi o «soglie di ammissibilità» alle procedure concorsuali.
Certamente il numero dei dipendenti così come anche l’importo del volume d’affari degli ultimi esercizi e la gravità del debito devono evidenziare la «straordinarietà» della situazione di crisi o d’insolvenza. Riemerge, a riguardo, l’opportunità di anticipare lo stato di insolvenza alla fase di «crisi grave» ma non ancora irreversibile, come definita dalla guida legislativa dell’Uncitral, comprendendovi anche la nozione d’insolvenza «prospettica».
Previsioni queste non trascurabili visti lo scenario macro-economico, caratterizzato da tensioni internazionali, e i cronici ritardi nei pagamenti domestici. Accettabile mi sembra l’iniziativa della procedura di amministrazione straordinaria che viene dall’art. 15 riconosciuta anche ai creditori, il cui numero e ammontare dei crediti però dovrebbero essere effettivamente rappresentativi della gravità della crisi dell’impresa.
Mentre tra le «dolenti note» ho segnalato l’inserimento (che lascia gli investitori esteri quantomeno perplessi) al Pubblico Ministero tra i protagonisti della procedura. È infatti, questa, una scelta sintomatica del permanere di un approccio criminalizzante verso la crisi d’insolvenza dell’impresa che non è in linea con la salvaguardia del suo valore quale sintesi di occupazione e produzione. La presenza di un «guardiano speciale» nelle vicende concorsuali costituisce infatti, dopo giustizia e fisco, un grave ostacolo alla concessione di finanziamenti esteri in Italia. I fatti di rilevanza penale potranno e dovranno sempre essere perseguiti, ma non rendendo più problematico il salvataggio dell’impresa malata. Non a caso l’Italia, pur essendo il secondo Paese manifatturiero europeo dopo la Germania, attira finanziamenti dall’estero in misura pari al 25 per cento di quanto la Germania riceve e pari al 50 per cento rispetto alla Francia. Gli investimenti esteri - è noto - sono necessari perché le nostre banche non riescono (grazie anche agli accantonamenti imposti da Basilea 2 e Basilea 3 per i finanziamenti a clienti dal rating basso) a soddisfare le necessità finanziarie delle imprese in crisi, mentre in Italia non abbiamo quella pluralità di protagonisti del risanamento finanziario dell’impresa quali i fondi specializzati i quali, negli Stati Uniti, assorbono gran parte di questo fabbisogno.
Un ulteriore profilo segnalato è rappresentato dalle lettere F) e G) dell’art. 15 del progetto Rordorf, perché il percorso tra Tribunale e Ministero e la rispettiva ripartizione di competenze e funzioni, con i tempi di realizzazione conseguenti, evidenzia una criticità che caratterizza sia il progetto di legge (Abrignani) che il disegno di legge delega (Rordorf).
La necessità di rispettare tempistiche ristrette aderenti alle esigenze dell’impresa potrebbe risultare più praticabile se si seguisse l’impostazione sistematica della guida dell’Uncitral sull’insolvenza. Infatti, una buona parte della guida è dedicata all’attività di carattere volontario, negoziale, stragiudiziale e conciliativo che si raccomanda venga svolta, su iniziativa del debitore e/o dei suoi creditori, sin dall’inizio della procedura ovvero ancor prima che la Corte prenda in esame la domanda di apertura della procedura ed il piano di riorganizzazione.
Una varietà di riferimenti anche di carattere strutturato, come il London Approach, gli uffici di mediazione specializzati nei casi di crisi d’impresa negli Stati Uniti, militano a favore delle soluzioni negoziali. Questa prima fase, che potrebbe essere aperta anche presso il ministero dello Sviluppo economico e al di fuori del Tribunale (progetto Abrignani), permetterebbe a tutti gli interessati di conoscere la gravità della crisi e le vie di risanamento proposte, di evidenziare le criticità del piano e discuterle tra le varie classi di creditori, e di superarle sulla base di verifiche preventive della concreta (e non presupposta) disponibilità al sacrificio degli stessi creditori, dei soci e degli stake holders anche pubblici.
I numerosi incontri di studio presso l’International Insolvency Institute tra esperti, quali il giudice James Peck delegato al caso epocale dell’insolvenza della Lehman Brothers, o come il giudice  Arthur Gonzalez che ha seguito il caso Fiat Chrysler, o l’esperto giapponese Shinjiro Takagi, co-presidente Nomura Securities, hanno evidenziato l’utilità delle attività di mediazione sui contrasti debitore e creditori e tra gruppi di creditori in merito alle condizioni loro riservate dal piano.
L’indipendenza e l’autorevolezza del giudice o dell’esperto incaricato della mediazione riescono in genere a riequilibrare le aspettative, gli interessi ed i diritti in contestazione, prevalentemente sulla base dell’obiettivo confronto tra le possibili alternative rappresentate dal prevedibile risultato della liquidazione dell’impresa rispetto alle previsioni di soddisfazione del piano.
In ambedue gli elaborati in discussione non ho rinvenuto - malgrado nella relazione al progetto Rordorf, (a pag. 9) si sottolinei la «prevalenza di strumenti negoziali di risoluzione della crisi d’impresa e di ristrutturazione rispetto a quelli disgregatori» - un chiaro e supportivo riferimento alla necessità del preventivo percorso negoziale. Ambedue gli impianti normativi fanno calare improvvisamente e dall’alto sui diritti e gli interessi in gioco -molteplici e diversificati per la straordinaria importanza anche sociale dell’impresa in crisi - la dichiarazione d’insolvenza, la nomina del commissario, la nomina del comitato di sorveglianza o dei creditori, alimentando così un clima di contrapposizione se non di ostilità, il che costituisce la premessa di contenziosi infiniti.
Aderendo a questa impostazione, mi riservo di continuare ad esaminare nel prossimo numero di Specchio Economico se la nuova legge sull’amministrazione straordinaria, con le soluzioni offerte e le modifiche proposte, potrà farci avanzare nelle classifiche dei Paesi più virtuosi e finanziariamente attraenti.   
             

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