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Populismo e sovranismo: una traccia di riflessione dopo il voto in Olanda

GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

I populismi hanno una lunga storia anche se uno degli elementi comuni alle diverse esperienze è senza dubbio l’appellarsi al popolo quale fonte primaria ed esclusiva della sovranità, al di là di ogni forma di rappresentanza. Anche se poi il «popolo», evocato non di rado, diventa una astrazione, utilizzata per contestare i gruppi dirigenti e dare forma politica ad un malessere più o meno esteso ma senza approfondirne le ragioni.
La ventata populista che attraversa l’Europa, ma non solo, e che viene identificata anche con il termine «sovranismo» emerge con evidenza da molteplici delusioni: gli effetti della globalizzazione, la lunghissima recessione che ha accentuato le diseguaglianze, il declino dei ceti medi, il predominio incontrollato ed incontrollabile della finanza sull’economia reale, l’imposizione di regole da parte di un’euroburocrazia avvertita come lontana dalle esigenze dei popoli europei, la crisi della socialdemocrazia e della sinistra incapace di elaborare nuove idee e proposte e ansiosa di legittimarsi ad ogni costo rinnegando spesso i suoi principi ideali.
Il populismo contesta le classi dirigenti e tutto quello che in qualche modo fa parte del loro mondo, dai media ai corpi intermedi, tentando di sostituire ad esse un concetto diverso di comunità (nazionale) che corre lungo l’asse fra un leader carismatico e quel popolo che ad esso si affida e consegna le ragioni della sua protesta e delle sue paure. In questo senso il populismo raccoglie in sé due pulsioni antitetiche: una vena democraticistica (vedi l’uso di internet e dei social), una tendenza autoritaria e intollerante.
La spinta verso il populismo trova una delle sue ragioni di fondo nel distacco fra politica e cittadini. A tal proposito in Europa la sudditanza di gran parte della cultura di sinistra e riformista nei confronti del neoliberismo e dello strapotere della finanza ha creato un ulteriore vuoto nelle attese dei ceti sociali più duramente colpiti dalla crisi e da politiche di rigore a senso unico. La concentrazione della ricchezza in poche mani indica il livello di frattura che si è determinato fra i pochi che hanno ed i molti che temono di perdere tutto. E la cui protesta investe direttamente le classi dirigenti.
Altro motivo che ha supportato l’emergere dei populismi va cercato nella frantumazione sociale che ha disperso interessi e bisogni sia dal punto di vista generazionale che da quello legato al reddito ed alla dequalificazione professionale derivante dall’evoluzione tecnologica. Ad esempio l’euro è diventato l’emblema di questo impoverimento di interi strati sociali invece che un punto di forza per la costruzione di una migliore unità europea. Certamente esercita una influenza di notevole impatto il clima di incertezza che attraversa tutte le società più sviluppate. La fine di modelli che erano in grado di offrire sicurezze sul futuro, la gestione del potere incentrato sulla cura dell’esistente, il declino di valori fondanti come la solidarietà, la famiglia, la promozione della persona.
Il populismo si propaga anche perchè le tendenze individualistiche hanno preso il sopravvento sulla centralità della persona e la sua dignità. Centralità della persona che ha senso se al tempo stesso ci sono forze in grado di accettare le sfide che vanno affrontate e che disegneranno il futuro di tutti, ma anche una cultura che sia in grado di riproporre ragioni di coesione, di collaborazione, di dialogo.
Si pone comunque come un interrogativo per ora insoluto su quali realtà sociali poter contare per impedire l’avanzata dei populismi. Intere generazioni, le più giovani, rischiano di fare i conti con la precarietà; buona parte di milioni di anziani rischiano di vedere ridursi protezione sociale e garanzie pensionistiche; una parte consistente dei territori rischiano di essere tagliati fuori dalla rivoluzione tecnologica in atto. Lo stesso concetto di classi dirigenti verrà sottoposto inevitabilmente ad una revisione dettata da coloro che più di altri terranno nelle proprie mani il potere della conoscenza e delle innovazioni tecnologiche.
È fondamentale allora dimostrare che l’isolamento, il nazionalismo, il razzismo risorgente non solo sono fenomeni antistorici, ma anche i fattori che possono perpetuare diseguaglianze, emarginazione, perdita di diritti. Mine vaganti che possono inchiodare intere generazioni ad una condizione di sudditanza nei confronti di leadership che fanno leva sul timore di perdere quello che si ha per affermare un dominio che svuota di valore la partecipazione democratica e impedisce la formazione di nuove classi dirigenti preparate e capaci di fare sintesi degli interessi più generali.
È errato di conseguenza considerare le difficoltà dei corpi intermedi come sintomo inequivocabile di declino e di futura marginalità nei processi economici e sociali. In realtà uno dei compiti più urgenti diviene quelli di assecondare il rinnovamento delle forze sociali, di evitare il loro chiudersi in una autoreferenzialità perdente, di combattere l’onda antisindacale che individua nelle forze sociali l’ultima sopravvivenza di una società e di una economia ormai consegnate alla storia.
Non è facile confrontarsi con un mondo che vede una continua scomposizione degli interessi in un solo luogo di lavoro o in un singolo territorio; non è agevole fare i conti con una realtà che manda in crisi forme organizzative tradizionali ed esperienze solidali ad esse collegate; non è impresa da poco coniugare insieme la difesa dei diritti degli attuali lavoratori con la affermazione delle attese delle generazioni che tentano di affacciarsi al mondo del lavoro per costruire il loro futuro.
Proprio per tali motivi però non è immaginabile che compiti di tale rilevanza possano essere esercitati in modo verticistico o populista. La mediazione sociale, l’organizzazione delle esigenze nella società del lavoro, la valorizzazione del lavoro hanno più che mai bisogno di organizzazioni che vivono nel sociale e nei luoghi di lavoro, che ne colgono i fermenti, che ne riescono a rappresentare le novità come i bisogni tradizionali. Non è vero dunque che manchino terreni di impegno e di conquista per le forze sindacali e dell’associazionismo: il valore del lavoro, le nuove frontiere del welfare, l’equità fiscale, il diritto ad una istruzione al passo con i tempi, l’opera tesa a ridurre le diseguaglianze sono altrettante sfide da affrontare.
In particolare le forze sindacali possono e devono essere in grado di dare risposte a questi grandi interrogativi. Lo dimostra la vitalità della contrattazione che sta affrontando senza timori i cambiamenti in atto e sta favorendo l’emergere di una nuova classe dirigente sulla quale puntare. Formazione, coesione, unità di intenti devono però essere gli strumenti più affidabili per affrontare queste tematiche di grande spessore e sui quali puntare con coraggio e lungimiranza.
 Infine, ma non ultima, si pone una questione di democrazia. Da sempre il riformismo ha coniugato il progresso sociale con i valori di libertà e democrazia. Oggi essi così come sono appaiono logorati e non in grado di determinare nuova fiducia. Restare fermi significa imboccare la via della regressione e di eventuali avventure autoritarie. Andare avanti significa confrontarsi in primo luogo con il futuro che si vuole costruire per l’Europa, con l’attualizzazione dei valori di una sinistra laica e riformista, con la rigenerazione delle organizzazioni che possono aprire una stagione nuova e non populista.
L’Europa ha tirato un sospiro di sollievo per la vittoria di Mark Rutte nelle elezioni in Olanda. I populisti islamofobi e antieuropei di Geert Wilders non sono riusciti a confermare le previsioni che li davano vincenti. Il voto in Olanda si caratterizza per l’avanzata dei Verdi e per il crollo dei Laburisti che scendono da 39 a 29 seggi. La diga europea ha tenuto. Ora si attende l’esito delle elezioni in Francia e in Germania. Rutte ha saputo presentarsi nelle ultime battute della campagna elettorale come un abile statista quando ha avuto una ferma ma misurata reazione alle invettive di Erdogan che aveva accusato l’Olanda di essere addirittura responsabile del massacro di Srebrenica. Efficace la definizione del voto olandese di Rutte: «il voto olandese è il quarto di finale di una partita contro il populismo, prima della semifinale in Francia e della finale in Germania».
È fondamentale che prima di quelle elezioni l’Europa esca dal letargo e si muova. Il piano di Juncker è vago. Non propone una scelta. L’antidoto all’antieuropeismo è quello di andare avanti sulla strada dell’integrazione europea, sociale ed economica. L’Italia ha un’occasione straordinaria. Il 2017 vede realizzarsi una congiunzione politica (astrale, direbbero gli scienziati) nella quale il nostro paese presiederà la celebrazione della ricorrenza del 60esimo anniversario dei Trattati per la costituzione dell’Europa unita; presiederà il vertice dei sette Paesi maggiormente industrializzati del mondo; sono italiani il presidente del Parlamento Europeo ed il capogruppo del Partito Socialista Europeo; è italiano il segretario generale della Confederazione Europea dei Sindacati; è italiana la rappresentante per gli affari internazionali dell’Europa. E, dulcis in fundo, l’Italia fa parte quest’anno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
È un’occasione che va colta. L’Italia non può perderla. L’Europa deve uscire dal pantano. È ora di riprendere il cammino sulla strada dell’integrazione economica, sociale e politica europea. È decisivo, per sconfiggere ogni forma di populismo e di sovranismo, mettere in soffitta la politica dell’austerità impostando un piano realistico di sviluppo che assicuri un futuro ed un ruolo vero all’Europa nell’epoca della globalizzazione.                              

Tags: Aprile 2017 Giorgio Benvenuto

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