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all’educazione del detenuto deve corrispondere l’educazione dei consociati fuori dal carcere

Johnny Cash suona nel Folsom, carcere californiano di massima sicurezza

L’educazione non formale


La musica in carcere
Musicoterapia in carcere significa tanto il fare musica quanto l’ascoltarla; nelle due versioni - attiva e passiva - è molto sfruttata. Tra i più noti casi si riporta «Rock in Rebibbia», esperimento televisivo consistente in una trasmissione di Mtv che ha coinvolto in un reality show i detenuti del Nuovo Complesso della prigione romana. Si tratta del racconto dei tre mesi nei quali i detenuti hanno seguito lezioni quotidiane di musica, scelto e provato pezzi, incontrato artisti italiani. La sala di registrazione è stata allestita all’interno di uno dei bracci del carcere per esservi lasciata a trasmissione ultimata a titolo di donazione.
Vi sono altri esempi di rock carcerario nella storia della musica: Johnny Cash, presso il Folsom, carcere californiano di massima sicurezza, il 13 gennaio del 1968 incide l’album «At Folsom Prison»; John Lennon dedica «Attic State» al carcere che poi imprigionerà il suo stesso assassino; Bob Dylan scrive «Hurricane», canzone di protesta in cui difende il pugile Robin Hurricane Carter, ingiustamente condannato per un triplice omicidio avvenuto in seguito a una sparatoria nel Lafayette Bar il 17 giugno 1966, nel New Jersey; il verdetto finale scagionò Carter, che uscì di prigione il 26 febbraio 1988; Bob Dylan non ha più suonato il pezzo in pubblico.
Da maggio 2008 due volontari dell’Associazione Arpamagica, docenti del corso di musicoterapia, sono intervenuti nel carcere femminile di Bollate. L’esperimento ha portato anche alla concreta compilazione di un cd con canzoni composte dalle detenute stesse. Similmente, la proposta «Musica in carcere» della Fondazione Orchestra Sinfonica e del Coro Sinfonico di Milano Giuseppe Verdi, in collaborazione con la Casa Circondariale Lorusso e Cotugno di Torino, si è articolata in cinque lezioni-concerto rivolte ai detenuti, durante le quali i musicisti hanno illustrato le sezioni strumentali dell’orchestra e il ruolo dei diversi strumenti.
Molti sono i casi di spettacoli musicali tenuti all’interno delle varie carceri italiane: in quello di Vasto gli artisti coinvolti nella manifestazione «Musiche in cortile», andata in scena a Palazzo d’Avalos, hanno portato musica partenopea e gitana; nel 2007 si sono aperte le porte del carcere di Bari, per un concerto che ha consentito di rivivere in chiave musicale il ‘700 napoletano e le Arie d’Opera. L’iniziativa è stata realizzata in collaborazione con l’Area Educatori della Casa Circondariale e la Fondazione lirico sinfonica Petruzzelli, e 59 dei 120 detenuti della II sezione della Casa Circondariale barese hanno assistito al concerto allestito nel corridoio dell’area detentiva.
Il carcere di Rebibbia ha una band ufficiale, i «Presi per caso», nata dall’intesa tra detenuti e area Educational, il cui primo frutto è stato la creazione di una sala prove. Sono stati allestiti all’interno del carcere concerti per le famiglie dei detenuti e accompagnati strumentalmente tutti gli artisti che per solidarietà transitano nel complesso carcerario; a Roma sono itineranti anche dei musical («Radiobugliolo», «Delinquenti» e «Recidivo Recital»), tutti sul tema della rieducazione. La formazione è in continuo mutamento per scarcerazioni e arresti dei componenti del gruppo. Dal punto di vista musicale, i «Presi per caso» attraversano due momenti diversi: il primo periodo, dal 1996 al 2001, è più duro a causa di un regime carcerario severo, musicalmente espresso da brani rock; il secondo è caratterizzato da una sostanziosa apertura da parte dell’amministrazione penitenziaria e del Tribunale di Sorveglianza attraverso la concessione di permessi, autorizzazioni e misure alternative: lo rispecchia la musica prodotta dalla band.   

Conclusioni
L’unico modo per far sì che gli interventi all’interno del carcere funzionino, sia dentro che fuori, consiste nel renderli permanenti, e nel rendere permanente la loro pregnanza. All’apprendimento deve seguire la pratica, non saltuaria, e ad essa deve corrispondere l’opportunità. Non va lontano dai fini che con una «pena rieducativa» si perseguono, nell’ambito di un ordinamento democratico, l’intervento programmato dall’Unione camerale lombarda nel gettare le basi, quantomeno teoriche, per l’assimilazione del nuovo cittadino alla dimensione civile. Il trait d’union messo a punto tra il carcere e le imprese consente di immaginare un luogo in cui gli ex detenuti possano convogliare e, con essi, le nuove capacità ed energie che l’ordinamento ha apprestato. Manca però la cultura organizzativa per consentire a tutti gli effetti il reinserimento di un «ex cittadino» nella città, e manca un corrispondente intervento educativo degli stessi consociati, i quali non sono pronti ad accettare ex detenuti nella vita comune per ragioni, oltre che di sicurezza, di preferenza della funzione punitiva della pena e di maggior identificazione con la concezione retributiva della stessa, in un sistema in cui le condanne stentano ad essere eseguite e la giustizia ad esser fatta per ragioni tutt’altro che educative.
Si capisce come, accanto all’educazione del detenuto, vada collocata l’educazione del cittadino, non soltanto del singolo ma anche dell’amministratore e del politico. Solo la corretta individuazione da parte di entrambi - ex detenuto e consociato - delle norme di convivenza necessarie all’eliminazione del pregiudizio (reciproco) può restituir loro il giusto grado di collaborazione e fiducia affinché i fini della pena non siano resi nulli dal reinserimento stesso dell’ex condannato e l’intento rieducativo dell’articolo 27 della Costituzione non sia vanificato dall’impossibilità di condurlo al di fuori dell’istituto, dov’esso è nato. Anche e non da ultima una nuova definizione del sistema giurisdizionale, che segni l’effettiva indipendenza dei giudici e l’applicazione certa del diritto e della norma punitiva persino in sede d’esecuzione, può contribuire ad attenuare le forze contrastanti delle due parti: come dire che la libertà dell’organo giudicante (morale, economica, giuridica) rende libero anche il giudicato.
La presenza dell’educazione in carcere è ormai acquisita, ma stenta a trovar forma un’attuazione di qualità e rilevante sul piano quantitativo. L’educazione partecipa del cambiamento della persona perché l’apprendimento cambia gestalticamente l’individuo: ogni conoscenza supplementare si aggiunge come addendo nella costituzione culturale del detenuto e lo trasforma, attribuendogli valori e conoscenza, ed egli - forte del cambiamento - è in grado di sollecitare ulteriori risorse per condurre il corso formativo che ha scelto. Anche la questione delle risorse, però, è finemente politica e strettamente collegata alla dimensione della recidiva: educare gli adulti in carcere implica il fornire loro strumenti per starne lontani, e la decisione di avviare e finanziare con denaro pubblico la formazione di un detenuto prova la volontà politica di dare un’altra chance alla persona privata di libertà. Sono state individuate sette categorie di risorse:
Accompagnamento e orientamento. Alcuni Istituti forniscono consiglieri di orientamento, formatori ed équipes educative il cui ruolo principale è accompagnare ed orientare la persona in funzione di una preparazione all’uscita, a partire dalla stimolazione del desiderio di apprendere sino alla scelta di un mestiere o di una formazione.
la scuola. I corsi proposti in ambito penitenziario possono tendere al conseguimento di un diploma ma anche allo svolgimento di corsi più basici, come quelli di alfabetizzazione o di apprendimento della lingua del Paese ospite.
La formazione professionale. Esistono numerosi corsi in ambiti diversi che rispondono alla necessità di imparare un mestiere e si compongono di una parte teorica e di una pratica nei laboratori di produzione interni al centro, o esterni quando la situazione penale lo permette. La costituzione di cooperative sociali risponde a commesse esterne e crea nel suo interno una modalità di funzionamento economico autonoma, dando atto della costruzione di un ponte tra interno ed esterno, tra la detenzione ed il ritorno alla libertà.
L’educazione non formale. Raggruppa tutte le attività puntuali, ma anche formazioni educative a lungo termine. Queste formazioni non si concludono con il conseguimento di un diploma ma trasmettono alle persone un certo numero di strumenti, nei termini di conoscenza, relazioni, socializzazione, e permettono ad ognuno, fra le altre cose, un’esplorazione dei propri limiti, dei propri conflitti e delle proprie capacità creative. Questo genere d’educazione permette di rispettare il ritmo personale di ogni individuo e di proporre un apprendimento adeguato ad ogni persona. Le risorse sviluppate e gestite riguardano in gran parte l’educazione formale, non escludono quella informale. Quest’ultima, che nella maggior parte dei casi non dà diritto ad un diploma, purtroppo fa fatica ad essere riconosciuta come parte fondamentale del processo d’educazione permanente degli adulti.
Aiuto all’impiego. I dispositivi d’aiuto all’impiego variano, ma sono relativamente sviluppati. A volte l’Agenzia nazionale per l’impiego interviene direttamente nei centri penitenziari. Alcuni Paesi hanno sviluppato sistemi d’impiego assistito o borse di lavoro che permettono una riduzione degli oneri per il datore; in Italia la legge Smuraglia è intervenuta, insieme ad altri strumenti giuridici, per definire meglio la posizione del detenuto e dell’ex detenuto lavoratore.
Alloggio. A volte esistono possibilità d’alloggio per le persone che riacquistano la libertà, e questa risorsa dipende fondamentalmente dalla volontà politica e dalle condizioni presenti nella regione geografica. In alcuni casi, le persone in uscita hanno accesso ad un alloggio a basso costo o gratuito per un periodo limitato; nella maggior parte dei casi, però, il numero d’alloggi disponibili è insufficiente. Spesso si verificano situazioni paradossali, come quella di un detenuto che ha trovato lavoro ma non alloggio: egli difficilmente riuscirà a sopportare il ritmo di lavoro senza l’accesso al fondamentale diritto alla casa.
Accompagnamento esterno. L’esistenza di un ponte tra interno ed esterno è d’importanza fondamentale nel percorso della persona privata di libertà; tale risorsa è una delle chiavi nella battaglia contro la recidiva. L’esistenza di associazioni, professionisti, strutture pubbliche che permettono al singolo di trovare consiglio, attenzione, ascolto in ogni momento, dovrebbe essere considerata una priorità.
L’uso delle risorse dipende da fattori molto diversi, legati alle scelte politiche ed economiche di uno Stato come di una Regione e degli enti delegati, ma anche agli aspetti culturali e geografici: in alcuni casi sarà data precedenza al lavoro, in altri all’alfabetizzazione, in altri ancora sarà accentuato l’aspetto repressivo. La visione politica di un ente sul senso attribuito alla pena determina l’organizzazione delle risorse, e la relazione fra politici ed operatori diventa determinante. Oggi risulta preminente la sicurezza, e questo rende prioritaria la repressione, solo secondari il lavoro e l’educazione.
Un problema non da poco è costituito dall’impossibilità di compiere una valutazione effettiva dell’efficacia degli interventi attuati all’interno degli istituti penitenziari. Essa dovrebbe effettuarsi su campioni molto grandi, non sufficienti a causa della limitatissima incidenza del lavoro o delle attività post-carcerarie. Non solo: sembra impossibile considerare il ruolo che l’educazione - soprattutto quella non formale - svolge internamente al detenuto. La difficoltà di compiere statistiche su dati interni rende complessa l’operazione di valutazione, ma non coinvolge il giudizio sulla meritevolezza dell’intervento.
La definizione di una stessa responsabilità sociale dell’impresa, come si è visto nel testo, sottende all’interesse che l’ordinamento comincia a manifestare per problematiche di tipo morale più complesse, legate alla contabilizzazione dei benefici o danni per l’intera società: la nuova materialità attribuita al fatto morale dell’innocenza o della rieducazione consente, così, di convertire il beneficio psicologico in beneficio effettivo, e giustifica l’intervento sociale all’interno degli istituti penitenziari.
È innegabile così lo scopo sociale che assume la valutazione, per la sua funzione nell’individuare i fattori che favoriscono od ostacolano i processi legati all’educazione e alla sicurezza nella società e costruire strumenti che aiutino ad individuare le azioni più congruenti ed efficaci per il raggiungimento degli obiettivi. In particolare, un metodo di valutazione che pone al centro la complessità «che caratterizza i progetti educativo-formativi di tipo artistico, nel caso specifico del contesto detentivo, e persegue l’intento di contribuire all’innovazione di progetti di riabilitazione delle persone temporaneamente detenute, ha come modelli teorici di riferimento quello sistemico e di empowerment; assume la dimensione ecologica ed ambientale nelle sue valenze relazionali e di interconnessione dell’azione individuale nei contesti sociale, professionale ed organizzativo».
Ed inoltre «guarda alle capacità personali, ai confini professionali e di ruolo in una prospettiva dinamica; riconosce la dimensione temporale come aspetto imprescindibile del processo di cambiamento e di quello di valutazione; ritiene fondamentale per la sua riuscita una dinamica conoscitiva consapevole di evolversi attraverso lo sviluppo di conoscenze parziali e temporanee (monitoraggio); assume la persona come unità indivisibile (mente-corpo) all’interno del modello sistemico-relazionale e bioenergetico».
In questa prospettiva processuale, dinamica e sistemica, «gli indicatori di valutazione acquistano efficacia non tanto perché producono dati per misurare e quantificare, ma in quanto strumenti utili per il loro valore informativo e descrittivo in grado di dare indicazioni che facilitino l’osservazione e l’auto-osservazione». La metodologia di valutazione più idonea per descrivere i processi di cambiamento di persone detenute che partecipano ad attività teatrali in carcere, è di tipo «fortemente qualitativo-sistemico; partendo dalla considerazione che i servizi rivolti alla persona fondano la professionalità degli operatori sul rapporto umano (considerato strumento principe per la riuscita del lavoro sociale, educativo e formativo), se ne deduce che tecniche e metodologie siano imprescindibili dalla relazione e comunicazione reale tra le persone coinvolte nel processo osservato (ed inserite in un certo contesto)».
Una metodologia di valutazione prevalentemente tecnico-quantitativa, invece, rischia di sopravvalutare gli strumenti di rilevazione considerandoli produttori di una rappresentazione «neutra ed oggettiva» della realtà; una metodologia qualitativo-sistemica se ne differenzia, in quanto riconosce come costitutive del processo che si osserva «le dimensioni soggettivo-professionali nella rappresentazione della realtà, la dimensione temporale (la linea del tempo) del processo osservato, la dimensione della «mediazione sociale delle osservazioni tra gli attori coinvolti» (intersoggettività e interprofessionalità). Valutare processi di cambiamento delle persone richiede l’assunzione di uno sguardo multiprospettico, capace di riconoscere il valore conoscitivo aggiunto che si produce grazie a relazioni comunicative e cooperative tra tutti gli attori coinvolti nel processo di valutazione» .
Resta ferma, ormai improcrastinabile, la necessità di procedere a una riforma del sistema Giustizia, che renda certa l’applicazione della pena anche per i reati contro il patrimonio e che in forza del principio rieducativo che regge l’articolo 27 della Costituzione lasci tutti indiscriminatamente «godere» di una condanna priva di valvole di fuga sic et simpliciter in sede di esecuzione, in cui il soggetto - dall’alta carica dello Stato al reo meno protetto - possa imparare i valori di una convivenza fondata sul rispetto, che lo richiami con dignità al vivere civile e lo reimmetta nel circuito sociale attraverso l’educazione più sana, o gliene insegni il senso più pregnante.
In aiuto a tale concezione giungerebbe la riqualificazione dello psicologo operante negli istituti penitenziari, da intendersi non solo come esperto ex articolo 80 dell’Ordinamento penitenziario o mero consulente esterno, ma da considerarsi nella sua dimensione iniziale più ampia e professionale. Oltre al problema meramente definitorio, va risolto anche quello, legato al primo, della remunerazione, perché solo dando rilievo al professionista anche attraverso il giusto riconoscimento economico si può dare dignità al lavoro e insegnarlo formalmente (ed informalmente) allo stesso detenuto. La frustrazione degli psicologi e degli altri «esperti» si riflette sull’intero sistema e non consente la crescita della società, repressa da burocrazia, mancata applicazione delle leggi, inconsistenza del sinallagma lavorativo, discriminazione.
Pertanto, oltre all’articolo 27 della Costituzione, vanno resi attivi gli articoli 1 («L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro»); 2 (inviolabilità dei diritti dell’uomo e adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale); 3 (nella sua accezione formale dell’eguaglianza e sostanziale consistente nella rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese); 4 (che garantisce il diritto al lavoro) e 35 («La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni» e «cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori»). Ed inoltre tutto il Titolo III sui rapporti economici, gli articoli 9 (sulla promozione della cultura e della ricerca scientifica e tecnica), 34 (sull’istruzione), nonché il combinato disposto di tutte le norme costituzionali emanate da un animo democratico.
Solo nell’attuazione della Costituzione s’intravede uno spiraglio per la modifica vera e interiore degli atteggiamenti antisociali e il ristabilimento delle condizioni di equilibrio tra consociati, siano detenuti, ex detenuti, cittadini, amministratori od operatori penitenziari. La rivalutazione di ciascuno di tali soggetti conduce a quella, in seno all’ordinamento, dello stesso vivere civile e delle istanze democratiche di giustizia ed rieducazione, con netto beneficio sociale e individuale.

QUI il ruolo dello psicologo in carcere

QUI l’educazione formale in carcere come espressione della funzione rieducativa

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Tags: Ottobre 2014 Romina Ciuffa carceri funzione rieducativa della pena

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