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L’arte di scomparire: azione che si contrappone all’individualismo della società contemporanea

Maurizio De Tilla presidente dell’associazione nazionale avvocati italiani

La veritiera conoscenza dei fatti si pone di per sé come un efficace ostacolo al narcisismo, al delirio di onnipotenza collegato a comportamenti di vanità e di esercizio del potere. Già Socrate lo aveva spiegato ad Agatone, quando nel Simposio contestava l’idea che la conoscenza potesse essere trasmessa meccanicamente da un essere umano all’altro, come l’acqua che scorre attraverso un filo di lana da un recipiente pieno ad uno vuoto.
La conoscenza non ha radici automatiche, ma è, invece, apprensione e approfondimento della realtà. Fa male vedere alcuni individui ignari di qualsiasi infingimento e della susseguente desertificazione morale. Più che correre verso mete difficilmente raggiungibili, bisognerebbe viceversa riscoprire la saggezza della lumaca che ci insegna la necessaria lentezza e costruisce la delicata architettura del suo guscio aggiungendo uno dopo l’altra delle spire sempre più larghe, poi smette bruscamente e comincia a creare delle circonvoluzioni stavolta decrescenti.
La società vive, purtroppo, di  corse inutili, oltre che di eccessi senza limiti e contenimenti. Gli eccessi non riguardano solo lo stile di vita, ma si alimentano di apparenza e di spettacolarità. Di fronte a tutto ciò la discrezione e la sobrietà si pongono come una necessaria forma di resistenza. Spegnere i riflettori, abbassare il volume, godere dell’anonimato sono forti valori morali. La discrezione è un’arte, un atto volontario, una consapevole scelta di vita in un mondo che ci vorrebbe sempre connessi, protagonisti, inesorabilmente presenti, e in cui s’impone l’urgenza di una tregua, di staccare e sparire.
Nel saggio «L’arte di scomparire» Pierre Zaoui affronta la tematica del vivere con discrezione argomentando che le anime discrete sono quelle che fanno il mondo: senza di esse, più nulla può reggere. Dobbiamo augurarci che non venga mai il giorno in cui anime simili scompariranno, schiacciate definitivamente dall’omnivisibilità, che non venga mai il giorno in cui rimarranno soltanto riflettori e casse di risonanza, perché allora tutto crollerà.
Una posizione discreta, inosservata, trasparente apre a un’esperienza nuova: l’abbandono dei fantasmi di onnipotenza, dell’essere indispensabili, dell’essere responsabili di tutti e di ciascuno, il farsi improvvisamente discreti significa rinunciare per un momento a qualsiasi volontà di potenza. Non che la volontà di potenza sia negativa in sé, ma ne conosciamo troppo bene il volto oscuro e tirannico, e persino quello luminoso è talvolta un fardello pesante, per il suo bisogno di superarsi senza tregua, di spingere sempre le proprie forze fino al loro limite estremo.
Da qui la gioia così rasserenante di poterla per un attimo scaricare sugli altri o sulle cose, di lasciarli apparire, di non far loro più ombra, di togliersi dal loro sole. Più precisamente, entrare nella discrezione non è l’esperienza di un mondo senza volontà di potenza - sogno angelico e un po’ vuoto -, ma l’esperienza della sua depersonalizzazione: non è più la propria volontà di potenza che importa, e nemmeno quella dell’uno o dell’altro, ma la volontà di potenza, quella che circola tra gli esseri viventi, li lega e fa loro creare a ogni istante gesti, frasi, opere che non dimentichiamo o che dimentichiamo, il che a volte è persino meglio.
«Nella lotta tra te e il mondo vedi di secondare il mondo.» Quando Kafka annota questa frase nei suoi Diari, l’8 dicembre 1917, sembra voler dire almeno due cose. In primo luogo, forse, un’incapacità a stare al mondo in modo innocente che lo condanna a doversi battere senza tregua per trovare la giusta distanza dagli esseri e dalle cose che stanno fuori: non troppo vicino per non esserne divorato (ragione per cui bisogna combatterli), né troppo lontano per non sentirsi troppo abbandonato e solo (ragione per cui bisogna assecondarli).
Ma dietro a una tale postura disperata, o esistenzialista ante litteram, dice anche tutt’altra cosa, praticamente il suo contrario: che in una lotta simile, il peggio non è che il mondo ci violenti o ci spezzi, quanto piuttosto che si arrivi per davvero a sottomettere il mondo a se stessi, che resti solo un sé egoistico totalmente autocentrato, ovvero un im-mondo in senso proprio, privo di mondo, e che un sé simile si senta trionfante o miserabile. Ecco perché è sempre necessario «secondare il mondo», ovvero smettere di voler esistere a tutti i costi a sue spese, ma soprattutto aiutarlo a essere, ad apparire, a vivere.
Come se il giorno in cui non ci sarà più nessuno per pensare e prendere in considerazione le cose e gli esseri, essi smetteranno di esistere. A condizione di cogliere in questo «come se» tutta la modestia e la sottigliezza kafkiana. Perché chiedere di assecondare il mondo è esattamente il contrario di credere che il mondo non ruoterebbe senza di noi; è godere del fatto che il mondo effettivamente ruoti senza di noi, nonostante possa un giorno non ruotare più, non dovesse esserci più nessuno capace di godere della sua autonomia - triplo scarto decisivo tra una credenza e un godimento, tra un condizionale e un indicativo, tra un sé pieno di se stesso e un sé impersonale, il sé di chiunque.
L’esperienza della discrezione è poi del tutto diversa da quella dell’ammirazione e della fascinazione, poiché, più che un trasferimento della propria volontà su quella altrui, è una sospensione della nostra spontanea attribuzione della volontà a figure individuali. Non sono più le «anime di fuoco», le «anime senza riposo», per riprendere espressioni stendhaliane, ad avere importanza, ma realtà prepersonali e preindividuali: gesti, sorrisi, relazioni taciute, silenzi che scivolano sotto le parole. Rievocando i Greci, si può fare riferimento ai tempi prima di Platone in cui gli antichi inventarono il culto fatuo e teatrale delle apparenze, privo di profondità, privo di secondo piano, senza retromondo, senza altra giustificazione che se stesso. Questo mondo delle apparenze si è ritratto in un gioco di immagini di sé privo di bellezza e della profondità infinita.
Anche gli eroi antichi e classici lasciavano sullo sfondo la vita ordinaria. Viceversa gli eroi moderni incarnano ora i fantasmi della omnipotenza di chi sogna solo di apparire, ora la fuga paranoica di chi non riesce più a sopportare di essere visto in un mondo che non conosce più ombra, né nascondiglio, né territorio non sorvegliato. Ma attenzione, la discrezione deve essere vera e sincera e non può rientrare nell’arte della maschera, della dissimulazione, dell’astuzia. Ha un aspetto positivo solo quando è semplice gioia di non essere visto e di non vedere ciò che non ci viene mostrato.   

 

Nel saggio «L’arte di scomparire» Pierre Zaoui affronta la tematica del vivere con discrezione argomentando che le anime discrete sono quelle che fanno il mondo: senza di esse, più nulla può reggere. Dobbiamo augurarci che non venga mai il giorno in cui anime simili scompariranno, schiacciate definitivamente dall’omnivisibilità, che non venga mai il giorno in cui rimarranno soltanto riflettori e casse di risonanza, perché allora tutto crollerà. Spegnere i riflettori, abbassare il volume, godere dell’anonimato sono gesti politici prima che morali. La discrezione è un’arte, un atto volontario, una consapevole scelta di vita in un mondo che ci vorrebbe sempre connessi, protagonisti, inesorabilmente presenti, e in cui s’impone l’urgenza di una tregua, di staccare e sparire

Tags: Febbraio 2017 Maurizio de Tilla

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