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Analfabeti 2.0 versus Industria 4.0, FUTURO A RISCHIO PER UN PAESE CHE GUARDA AL PASSATO

Maria Emanuela Piemontese

«Per andare dove dobbiamo andare, dov’è che dobbiamo andare?»: la sintesi di questo articolo è tutta qui, nella famosa domanda di Totò appena arrivato a Milano. Solo che, in questo caso, al posto di Totò e Peppino c’è l’Italia, e al posto del ghisa milanese c’è il mondo che sarà: culturalmente, economicamente e tecnologicamente. Un pack da cui l’iceberg Italia si sta staccando inesorabilmente, una crepa sempre più vistosa ricucita letteralmente a mano da una piccola moltitudine di «eccellenze», giovani già formati o in divenire per essere in linea con quello che per noi non sarà mai. Giovani che lasciati soli stanno lentamente cedendo la presa e che potendo scegliere approdano là dove ci sono scenari più adatti a sfruttare le loro potenzialità.
Eccellenze, una minoranza nella minoranza alfabetizzata di questo Paese dove, per dirla con le parole di Tullio De Mauro, recentemente scomparso e già fondatore e direttore del dipartimento di Studi filologici linguistici e letterari nella facoltà di Scienze umanistiche dell’università «La Sapienza» di Roma, «il 71 per cento delle persone non ha le competenze minime indispensabili per orientarsi nelle informazioni e nella vita di una società contemporanea». Un allarme lanciato da più di dieci anni e sempre respinto al grido di «Tutti sappiamo leggere! Tutti sappiamo scrivere! Gli analfabeti non esistono più!». Poi l’allarme dei professori universitari - molti studenti scrivono male, fanno errori appena tollerabili in terza elementare - conquista le prime pagine dei giornali, scatena il panico e qualcuno comincia a farsi la domanda scomoda: cosa significa, nel XXI secolo, essere analfabeta?

«Il concetto di alfabetizzazione varia al variare della società», spiega Maria Emanuela Piemontese, già docente di Didattica delle Lingue moderne del Dipartimento di Scienze documentarie, linguistico-filologiche e geografiche de «La Sapienza», da sempre a fianco di Tullio De Mauro. «Nell’Italia unita del 1861 la popolazione era analfabeta totale per il 78 per cento e dialettofona quasi il 98 per cento, eppure bastava saper tracciare sulla carta anche solo la propria firma per non essere considerato del tutto analfabeta. Inoltre per le necessità quotidiane bastava parlare uno dei tanti dialetti italiani; la bassa interazione personale e professionale tra le persone e gruppi sociali, non metteva in evidenza le carenze alfabetiche della popolazione. Nella società complessa dei nostri tempi l’alfabetizzazione non si misura più solo sulla capacità di base di leggere e scrivere; essere adeguatamente alfabetizzati oggi significa saper leggere capendo quello che si legge, saper scrivere facendosi capire, saper far di conto eccetera. Significa, cioè, saper interagire con la società di oggi con efficacia, in ogni situazione, riuscendo a fronteggiare le moltissime e mutevoli richieste della società. Dati statistici e oggettivi alla mano, questo sapere indispensabile per vivere pienamente da cittadini tuttora non va oltre il terzo della popolazione italiana: per la stragrande maggioranza delle persone - nella fascia compresa tra i 15 e i 65 - interagire efficacemente e produttivamente nelle diverse situazioni sociali costituisce un problema».

I dati oggettivi li fornisce l’indagine all’interno del Programme for the International Assessment for Adult Competencies (Ocse-Piaac) al quale hanno aderito 24 Paesi di tutto il mondo (Isfol per l’Italia). La ricerca, pubblicata nel 2014, ha prima individuato le competenze chiave: alfabetizzazione di base o funzionale, alfabetizzazione numerica e matematico-scientifica, capacità  di risoluzione dei problemi e abilità  di base per la comprensione della lettura; poi ha eseguito dei test su un campione rappresentativo di 5.000 persone tra i 16 e i 65 anni. Il campione è stato diviso in sei livelli (da 0 a 5) dove il livello 1 è «al limite dell’analfabetismo» e il livello 4 «piena padronanza del campo di competenza». La ricerca ha evidenziato che il 70,2 per cento degli italiani è sotto il livello 3, livello «minimo indispensabile per un positivo inserimento nelle dinamiche sociali, economiche e occupazionali».
Un divario cognitivo «non solo linguistico ma culturale, sociale, politico» fino a ieri sostanzialmente sottovalutato perché confinato nelle chiacchiere da «pausa caffè», ma ora difficile da ignorare quando invade le bacheche dei social network, vera cartina di tornasole della padronanza del campo di competenza di ciascuno di noi. Testi, immagini e video in bilico tra l’aforisma di Oscar Wilde - «A volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e togliere ogni dubbio» - e quello di Silvio Berlusconi - «Il pubblico italiano medio ha l’evoluzione di un bambino di seconda media che non sta nemmeno seduto nei primi banchi».
La condivisione e il commento compulsivo sui social network di notizie «verosimili», quando non false, ovvero l’esternazione di ideologie o metodologie comportamentali che nella vita di tutti i giorni sono rifiutate con sdegno, non rivelano peraltro nulla di nuovo. Il fenomeno era già emerso alla fine degli anni 80 grazie all’iniziativa di Radio Radicale divenuta poi famosa come «Radio parolaccia». All’accusa di aver «innescato il più osceno e sconvolgente turpiloquio radiofonico», lo storico leader del Partito Radicale Marco Pannella rispose denunciando come non ci fosse «un sociologo che si prenda la briga di studiarle, quelle voci, e nemmeno un linguista» e ancora «l’anonimia di chi non riesce ad articolare più di quaranta, massimo cinquanta parole». Oggi per la verità siamo a 140 caratteri. Un divario cognitivo che ovviamente non si ferma sui social ma diventa una seria ipoteca sul futuro economico del nostro Paese, perché se i due terzi della popolazione italiana non sanno elaborare gli input che la società mette loro a disposizione, quale futuro potranno avere in un mondo del lavoro sempre più complesso e mutevole?

«La riflessione numero uno sul fronte dell’educazione –spiega in una delle sue pillole video Marco Montemagno, il cui recente libro «Codice Montemagno» è in vetta alle classifiche di settore– è che chi oggi sta ricevendo una educazione formale deve studiare non per i lavori che esistono, ma per i lavori che «non» esistono. Questo comporterà da un lato l’avere una formazione formale che ti dia una base, dall’altra una educazione informale permanente che si dovrà portare avanti per sempre». Montemagno arriva a prefigurare università con «subscription» a vita, dove il lavoratore «eterno studente» possa «refresharsi» e rimanere sempre in linea con le mutazioni degli scenari professionali: «Un’educazione che non potrà essere standard ma iper-personalizzata, perché la tecnologia oggi lo permette».
Un discorso molto «cool» per il livello cognitivo 4 (in Italia i livelli 5 sono statisticamente irrilevanti), ma una Via Crucis per chi ha le competenze minime indispensabili del livello 3 e una vera e propria incognita per chi perde il posto di lavoro e possiede un livello cognitivo inferiore, cioè il 70 per cento della popolazione italiana. Questo perché la formazione è strettamente legata alla capacità di apprendere e lo strumento principe per l’apprendimento rimane ancora la lettura. In Italia però (rapporto Istat del gennaio 2016) si legge poco, molto poco: i lettori forti (almeno un libro al mese) sono solo il 13,7 per cento della popolazione, i lettori deboli (almeno tre libri l’anno) il 45,5 per cento; il restante 40,8 per cento legge meno di tre libri l’anno.

Troppo poco anche solo per mantenere le nostre conoscenze che, senza stimoli adeguati, non rimangono costanti: «Nelle discussioni sui livelli di alfabetizzazione degli adulti –prosegue la professoressa Piemontese– De Mauro ricordava sempre della regola del ‘meno cinque’. Semplificando, chi ha studiato anche bene, per esempio, la matematica a livelli liceali ma nell’arco della sua vita non ha più avuto occasione di praticare quelle nozioni, subisce una regressione di cinque anni in quelle conoscenze. Torna quindi alle conoscenze matematiche di base, quelle di terza media. In sostanza le nostre conoscenze su argomenti mai più praticati regrediscono al livello di scuola media se abbiamo frequentato le scuole superiori, al livello di terza elementare se, nello studio, non siamo andati oltre la terza media. In conclusione le nostre competenze e le conoscenze specifiche si mantengono vive, si sviluppano e rinforzano se le pratichiamo quotidianamente, altrimenti arretrano nell’arco della nostra intera esistenza».
Per rispondere a Totò, oggi dovremmo andare in un mondo dove se nasci tondo è quasi certo che morirai quadrato. Un mondo dove per accedere al lavoro, come conclude Montemagno, «la conoscenza farà la differenza». Asimov diceva: «Se è vero che la conoscenza può creare dei problemi, non è con l’ignoranza che li puoi risolvere».           

Tags: Marzo 2017 scuola cultura libri social università

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