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Vincere o perdere una causa è come fare letteratura: perché il colpevole é sempre l’avvocato?

Ironia sulle anomalie nella giustizia.

COS'È, IN DEFINITIVA, LA GIUSTIZIA?

Gli avvocati occupano immeritatamente un posto privilegiato nel mondo dei personaggi odiosi. Di solito, la figura dell’avvocato si presta a battute pesanti certamente ingiustificate e la diffidenza nei confronti degli avvocati è molto antica.
Nella seconda parte dell’Enrico VI di Shakespeare, scoppia una piccola rivolta e Dick il Macellaio, seguace del ribelle Jack Cade che vuole essere re, incita i suoi compagni con un grido divenuto famoso: «Per prima cosa, uccidiamo tutti gli avvocati!». Con queste parole, Dick si fa eco di un pregiudizio popolare fortemente radicato nei secoli: gli avvocati sono dei truffatori che rubano alle povere parti in causa. Una nuova società (in questo caso, quella che Jack Cade intende governare) deve cominciare a definirsi eliminando quelli che sono visti come i suoi sfruttatori, personaggi che invece di aiutarli rallentano i procedimenti legali e incassano tassi usurari.
Nel XIX secolo, Dickens immortalò questo pregiudizio nel romanzo «Casa desolata». Qui si descrivono le manovre senza fine dello studio legale Jarndyce & Jarndyce di Londra che finisce col rovinare i propri clienti. Una delle varie trame di questo romanzo di Dickens parla di un’importante eredità che ha atteso nei tribunali per diverse generazioni, finché nell’anno in cui il romanzo si svolge l’intera eredità si rivela consumata dalle spese legali. Qui Dickens cerca di criticare la Court of Chancery d’Inghilterra, le cui attività considerava così nefaste che uno dei personaggi raccomanda a un convenuto in giudizio: «Subisci qualsiasi torto ma non venire qui». Per Dickens, i tribunali sono l’ultimo posto a cui si debba fare appello se si desidera ottenere giustizia.
Così Alberto Manguel nell’articolo «Per il Tribunale degli scrittori il colpevole è sempre l’avvocato» pubblicato su Repubblica. Va sottolineato che la letteratura citata da Manguel è solo minoritaria rispetto a quella esistente. L’altra parte raffigura l’avvocato come il tutore dei diritti dei deboli. Numerosi avvocati sono stati insigniti del Premio Nobel per la Pace. La Cosa che rattrista di più è che non si tiene conto di questa maggioritaria letteratura e che un giudice di valore, qual è Davigo, sposa solo una parte della letteratura, ovviamente quella negativa.
Così Piero Calamandrei ironizza sul processo. Nell’amministrazione della giustizia c’è sempre una sacra rappresentazione: ha il suo cerimoniale (che come quello sacro, si chiama «rito»), i suoi paramenti, le sue formule esoteriche; ha un andamento di dramma, i cui «atti» debbono susseguirsi nell’ordine prestabilito dinanzi al pubblico, intramezzati da qualche preparativo segreto dietro le quinte; ha il suo scenario e i suoi personaggi tradizionali, il pubblico ministero che è il tiranno, il giudice che è il padre nobile, il difensore che fa sempre la parte di primo attor giovine. I processi somigliano talmente alle commedie, che spesso si son viste nei teatri commedie costituite per intero, dal primo all’ultimo atto, dalla fedele riproduzione di un dibattimento giudiziario: il pubblico che va a assistere ai processi ha lo stesso animo svagato di chi va al teatro, e lo stesso animo avrebbe ugualmente se domani in piazza ci fosse il carnefice a torturare e a impiccare.
Ma forse in questa sacra rappresentazione c’è qualcosa di ancor più profondo, dal quale essa deriva un’irresistibile, per quanto lugubre, attrattiva: che, cioè, in questo cerimoniale giudiziario è simboleggiato un processo invisibile in cui tutti ci sentiamo coinvolti; chiusi in questa gabbia che è la vita, sotto un’imputazione che non ci è stata notificata, ma che forse è inutile tentar di conoscere, perché tanto sappiamo che, comunque l’istruttoria si svolga, la sentenza finale è già scritta, e solo è differita la pubblicazione. Il processo dell’esistenza, con le sue spire di incubo, come lo ha sentito Franz Kafka.
Questo è forse, in fondo, il misterioso istinto che porta gli artisti a guardare gli avvocati e i giudici: come se vedessero simboleggiato in loro l’incontro, che sta al centro di ogni coscienza, tra l’accusa implacabile e la disperata difesa, la spasimante invocazione di una giustizia che si ostina a rimanere in eterno sigillata nel suo silenzio, e questa attesa angosciosa di un verdetto che è poi sempre per tutti, inesorabilmente, di condanna a morte. Proprio questo interno significato sottinteso accresce all’esterno il ridicolo intorno a queste povere creature vestite da avvocati e da giudici, che in realtà sono anche loro, nonostante il travestimento, nient’altro che imputati già condannati in anticipo, e che tuttavia si illudono di poter sul serio amministrare giustizia ai propri simili (Piero Calamandrei - «Gli avvocati»).
Un altro spaccato significativo offre il tema della giustizia visto sotto diversi aspetti da Dürrenmatt e da Kafka. Uno degli ultimi romanzi di Dürrenmatt è «Giustizia», in cui racconta la seguente vicenda che si svolge a Zurigo. Il consulente cantonale Kohler entra in un ristorante frequentato da avvocati, giudici e capi della polizia e uccide a revolverate il professor Winter. Commesso l’omicidio, Kohler lascia il ristorante. Quella notte stessa viene arrestato in una sala da concerto e poi condannato a venti anni di reclusione. Kohler, un uomo molto colto e molto ricco, decide allora di affidare il riesame del suo caso a un giovane avvocato perché dimostri la sua innocenza davanti al Tribunale, nonostante i numerosi testimoni del suo crimine. L’avvocato dubita che una tale impresa sia possibile, ma alla fine accetta la sfida e riesce a dimostrare alla corte di Zurigo che il suo cliente non è colpevole. In questo romanzo, Dürrenmatt suggerisce che la nostra idea di giustizia è una finzione che riflette o racconta un archetipo inerente alla condizione umana.
A questa allucinante vicenda che delinea un apporto difensivo forense che esiste solo in letteratura si può aggiungere il pensiero di Kafka che sostiene che la tradizionale disonestà degli avvocati nella letteratura non è se non un’ulteriore prova dell’inefficacia delle nostre azioni, oneste o disoneste, ragionevoli o meno. Per Kafka, l’agire bene o male ha il suo castigo o la sua ricompensa segreta, perché non sappiamo che cosa significa nessuno dei nostri atti nella grande narrazione universale. Il racconto emblematico di Kafka, in cui si riassume la sua nozione della giustizia, si intitola «Davanti alla legge» e Kafka lo incluse nel «processo». Così si legge: «Davanti alla legge c’è un guardiano. Gli si presenta un uomo di campagna che lo prega di farlo entrare nella Legge. Ma il guardiano risponde che ora non gli può concedere di entrare. L’uomo riflette e poi chiede se almeno potrà entrare più tardi. Può darsi, risponde il guardiano, ma per ora no. Le Porte della Legge sono aperte come sempre e l’uomo si china per dare un’occhiata dentro. Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ridere: Se ti interessa tanto, prova pure a entrare nonostante la mia proibizione. Bada, però: io sono forte, e sono solo l’ultimo dei guardiani».
L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; dopotutto, la Legge dovrebbe essere accessibile a tutti e in qualsiasi momento, pensa. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni. Molte volte prova ad entrare e importuna il guardiano con le sue richieste. L’uomo, che per il viaggio si è provveduto di molte cose, dà fondo a tutto, anche a ciò che ha di più prezioso. Per tentare di corrompere il guardiano, questi accetta ogni cosa, ma osservando ogni volta: «Lo accetto soltanto perché tu non creda di aver omesso qualche tentativo».
Durante tutti quegli anni, l’uomo osserva senza posa il guardiano. Dimentica gli altri guardiani e solo il primo gli sembra l’unico ostacolo che gli impedisce di accedere alla Legge. Nei primi anni maledice ad alta voce la sua sorte senza curarsi di nulla, poi quando invecchia si limita a brontolare tra sé (...). Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente faccia più buio intorno a lui o se i suoi occhi lo ingannino. Ma in quella penombra scopre uno splendore che erompe inestinguibile dalle Porte della Legge. Ormai non gli rimane più tanto da vivere, prima di morire, riassume tutte le esperienze di quegli anni in una domanda che non ha mal rivolto al guardiano. (...) «Che cosa vuoi sapere ancora?», chiede il guardiano. L’uomo risponde: «Tutti cercano la Legge. Come mai, dunque, in tutti questi anni che ho trascorso qui, nessuno, a parte me, ha chiesto di entrare?». Il guardiano si rende conto che l’uomo sta per morire e per farsi intendere da quelle orecchie indebolite, grida: «Nessun altro poteva entrare qui, perché queste porte erano destinate soltanto a te. Ora vado a chiuderle» (Alberto Manguel).
Ma cos’è, in definitiva, la giustizia? Platone osserva che è dalla reale consapevolezza della natura umana che si può arrivare a comprendere cosa sia la giustizia e perché essa sia necessaria per una vita felice. La giustizia è prima di tutto l’ordine tra le parti dell’anima: non un ordine qualsiasi, ma un ordine in cui la parte migliore (quella del desiderio razionale, naturalmente) governi sulle altre, permettendo all’individuo di perseguire gli obiettivi e i fini che veramente gli stanno a cuore. La giustizia esprime dunque l’equilibrio che permette all’anima di funzionare bene: corrisponde di fatto a quello che la salute è per un corpo: per questo solo un’anima giusta potrà essere felice.
Ma il giusto non è affatto per natura: gli uomini discutono continuamente tra di loro e cambiano sempre il giusto, e quel giusto che mutino e quando lo mutino, allora ciascuna di queste forme di giusto ha potere sovrano, esistendo per arte e in base alle leggi ma non per qualche natura. Tutto questo è opera di uomini sapienti presso uomini giovani, di prosatori e di poeti, che affermano che la massima giustizia sia ciò in cui uno prevalga con la violenza [...] e per questo motivo sorgono rivolte di coloro che trascinano la vita verso la giusta vita conforme a natura, che in verità consiste nel vivere avendo il potere sugli altri e non essendo schiavi degli altri secondo la legge. (Platone)
L’assurdo è che vincere o perdere una causa è come fare letteratura. Bruno Cavallone è un avvocato civilista e professore universitario, appassionato di letteratura. Ha scritto un libro (La borsa di miss Flite) che ha riscosso notevole successo. L’autore ha dimostrato come i principi e le regole della tradizione giuridica alimentino i grandi classici, da Shakespeare a Dickens, da Kafka a Collodi. Nel volume Cavallone rilegge la reciproca pervasività del diritto nella vita letteraria che è la cifra affettuosa che guida il «tuono» generale delle considerazioni dell’autore. Il passaggio usato per aprire il volume è tratto dal processo - quello al Fante di Cuori di Alice - e suggerisce subito una serena empatia dell’autore con le fonti selezionate e, in definitiva, con la tecnicalità del processo, portando istintivamente il lettore a derubricare il volume dal genere (fortunatissimo) delle Mediazioni del giurista, e ciò sebbene Cavallone della tradizione giuridica sia un rappresentante insigne e il volume prenda spunto da un suo corso universitario.
Il libro è uno studio che riassume una vita di osservazione e di frequentazione fra due dimensioni della cultura - Diritto e letteratura - per più d’un verso interdipendenti: vuoi per l’ovvia connessione tra retorica forense e letteratura, vuoi per l’esigenza del diritto di non staccarsi dall’esperienza, di non ridursi a osservazione formalistica nella quale cesserebbe di essere se stesso. Nell’esigenza pratica si radica, infatti, una tradizione longeva e prolifica di ricerca da parte dei giuristi di narrative, poetiche o drammatiche.
Quello di Cavallone è un ragionamento sugli aspetti esistenziali e culturali del processo, anche quelli mascherati e occultati dalle strutture romanzesche e, proprio per questo, rivolto a una platea non solo specialistica. Come ormai di rado accade, lo sguardo estraneo all’angustia disciplinare, sempre più diffusa nell’accademia italiana, regala felici sorprese.      

Tags: libri Giugno 2017 Maurizio de Tilla avvocatura giustizia

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