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Aziende in crisi: il trattamento legale degli amministratori

Il libro edito da Thomson Reuters, «Insolvency and directors duties» offre anche quest’anno una panoramica del trattamento legale e giudiziario degli amministratori che si occupano di crisi dell’impresa in molti Paesi. Sull’argomento mi sono confrontato con circa cinquanta giovani professionisti che frequentano il qualificato Luiss Master B&C Law organizzato lo scorso mese di maggio dal brillante ed infaticabile avv. Domenico Benincasa, presso la Luiss - Guido Carli di Roma.
L’attenzione alla protezione legale degli amministratori che agiscono in buona fede e nell’interesse dell’impresa, nei vari Paesi viene nel testo descritta con particolare profondità e con approccio pragmatico e ci permette di analizzare e confrontare i sistemi normativi più disparati: Finlandia, Usa, Spagna, Italia, ma anche le Bermuda, l’India, la Cina, il Canada, l’Australia, ecc.
Conoscere per decidere è la regola aurea che applica e compendia questo libro, che pone in risalto come il sistema normativo e giudiziario di matrice anglosassone applicato in molti Paesi che aderiscono a quella larga area culturale, si riveli più favorevole ed aperto nel salvaguardare i diritti e gli interessi degli amministratori in genere, e in particolare di coloro che gestiscono «imprese in crisi». I legislatori e i giudici italiani dovrebbero tenere presenti queste linee di tendenza che hanno realizzato nei fatti la scelta negli ultimi decenni da parte di società multinazionali e di gruppi internazionali d’imprese, dei Paesi di quell’area geografica, quale sede delle loro società e degli uffici centrali, proprio per godere dei benefici assicurati da quelle legislazioni e da quelle giurisdizioni.
Se si pensa ai «bonus» dell’alta dirigenza, dei consiglieri d’amministrazione di tali società che ogni anno vengono distribuiti e spesi nella city londinese, o a Dublino, si può immaginare quale pioggia di milioni di sterline ogni anno cade su amministratori, direttori generali ed altri componenti: le governance di quelle imprese si trasformano in investimenti, acquisti di beni e servizi, che creano benessere diffuso ed occupazione. Ecco un cenno della ricchezza che può essere concentrata in quelle aree, invece che in altre come l’Italia che appaiono più orientate a una generica «criminalizzazione» della ricchezza.
Sarebbe ora di rendersi conto che il «p.m. dietro l’angolo» delle imprese specie se in crisi costa enormemente al Paese in termini complessivi, e generali, perché il sistema normativo così come le risposte giudiziarie, che si susseguono in tema di responsabilità degli amministratori e dei sindaci, non appaiono «competitive» rispetto alle alternative che altri Paesi offrono.
Dopo la Brexit, Milano si candida a diventare il nuovo polo di attrazione delle grandi realtà finanziarie internazionali; andrebbe eliminato almeno uno degli ostacoli maggiori che si frappone al realizzarsi di questa pur legittima, per i progressi organizzativi ed i servizi che offre questa città, che è rappresentato dal timore diffuso della «pesantezza della costante attenzione penale» aggravato dalla multiformità delle sanzioni con le quali gli amministratori devono fare i conti: tra sanzioni delle diverse autorità competenti: la Consob, per gli amministratori di società quotate, la Banca d’Italia, per gli amministratori di imprese bancarie e finanziarie; e ancora la Corte dei Conti nel caso di rapporti dell’impresa con enti pubblici, per non parlare delle azioni civili di risarcimento danni da parte di dipendenti, creditori e soci.
Di fronte a questo quadro, senza dubbio scoraggiante per qualsiasi amministratore, sorge la domanda: non si può fare nulla per migliorarlo? Perché negli altri Paesi con i quali i nostri imprenditori competono, il rischio degli amministratori è più contenuto, valutabile e prevedibile? La parola magica c’è ed è «procedimentalizzazione». Ecco di che si tratta: la giurisprudenza in tema di comportamento incensurabile, consolidata e rispettosa del «precedente giudiziario» ha codificato i percorsi virtuosi che, se puntualmente compiuti dagli amministratori di imprese in crisi, li pongono al riparo da condanne penali e patrimoniali.
Ma a sua volta, codesta giurisprudenza è guidata da indirizzi normativi di matrice sovranazionale, come i principi guida che anche su codesto tema promanano dagli uffici studi dalla Banca Mondiale e/o dal Fondo Monetario internazionale, ovvero dall’Uncitral, la commissione permanente delle Nazioni Unite per il commercio internazionale che sulla base dell’analisi delle «best practices» dei Paesi che costituiscono la platea di diversi «working group», ovvero dei comportamenti virtuosi degli amministratori esemplari, con grande pragmatismo e dovizia di esempi, tracciano in sequenza le caratteristiche dell’agire correttamente.
Ovvero non vengono enunciati solo principi astratti come i «duties of care and of loyalty», ovvero gli obblighi di correttezza e di buona fede, o ancora di fedeltà all’impresa il che significa sostanzialmente evitare conflitti d’interesse, ma vengono indicati quasi manualisticamente e in sequenza temporale, cosa va fatto e cosa non va fatto, sulla base indispensabile e preventiva, della concreta ed approfondita conoscenza dell’impresa e della sua situazione critica. Ecco ad esempio alcune preziose indicazioni tratte dalla IV appendice della guida legislativa sull’insolvenza edita dall’Uncitral che si occupa specificatamente della responsabilità degli amministratori di imprese in crisi.
Essi dovranno dotarsi di specifiche analisi effettuate da esperti autonomi ed indipendenti sulla origine della crisi e sulla situazione dell’impresa nell’attualità e non accontentarsi delle rappresentazioni e dei «rapporti» di dirigenti e dipendenti; dovranno accogliere nel consiglio di amministrazione, amministratori indipendenti, ovvero non collegati ad alcuno dei soci; dovranno convocare l’assemblea dei soci frequentemente per informarli periodicamente dei risultati economici e produttivi della gestione e delle previsioni nel breve periodo, del piano di riorganizzazione e del suo rispetto; dovranno rendere edotti di questi risultati i dipendenti, i creditori finanziari ed i fornitori; dovranno evitare di porre in essere azioni che possano essere soggette a revocatoria in caso di successivo fallimento; dovranno conservare a «futura memoria» le relazioni dei Consigli di amministrazione e delle riunioni più importanti con i dirigenti della società e potrei continuare.
Come si vede la linea di demarcazione tra questa realtà e quella italiana è basata sulla riduzione se non eliminazione, di valutazioni discrezionali, peraltro effettuate «ex post»; dell’operato degli amministratori. Purtroppo in assenza di questi binari obbligati il giudice nostrano, spesso «creativo», finisce per eliminare le certezze comportamentali, delle quali, invece, vi è bisogno, perché la sua discrezionalità valutativa è libera di esprimersi senza particolari limiti. Infatti, i precedenti vincolanti per i giudizi di merito, sono costituiti solo dalle sentenze della Corte di Cassazione a sezioni unite che, com’è noto nell’esercizio della loro funzione nomofilattica, ovvero interpretativa della corretta applicazione delle norme da parte dei giudici, indicano i principi ai quali i giudici devono attenersi.
Mentre l’interpretazione del fatto, ovvero del comportamento che ha provocato quel danno, ed ancora se da quel comportamento è derivato il danno ascritto all’amministratore secondo il «nesso causale», (quel comportamento è stato causa sufficiente per provocare il danno?), resta affidato al giudice di merito con il solo vincolo della motivazione che se è logica, resta insindacabile anche da parte della Cassazione. Il quadro nel quale ci muoviamo andrebbe semplificato affinché possa trovare piena applicazione la «regola iuris» d’oltreoceano della «judiciary business law», ovvero della presunzione di buona fede e di correttezza che assiste l’operato dell’amministratore per la quale le sue scelte imprenditoriali sono insindacabili, a meno che la controparte non provi l’assenza di buona fede o di correttezza, ad esempio l’esistenza di un conflitto d’interessi dell’amministratore nel compiere quel determinato atto.
È pur vero di contro, che dal 2015 ad oggi la nostra giurisprudenza ha fatto passi da gigante abbandonando il principio della responsabilità patrimoniale dell’amministratore, che nelle cause civili di risarcimento danni, iniziate dal curatore in caso di fallimento dell’impresa, conduceva ad una quantificazione dei danni, in misura pari all’ammontare dell’intero passivo del fallimento, dedotto l’attivo. Oggi l’amministratore risponde del danno causato con il proprio specifico comportamento. Ma nel frattempo sono trascorsi molti anni, molte risorse personali ed economiche si sono evaporate nell’attesa della decisione di queste cause. Molte professionalità sono state scoraggiate dall’affrontare la sfida del salvataggio di imprese in crisi ed il nostro Paese è sempre al 111 posto nella classifica del Doing Business (Banca Mondiale) per l’indicatore «enforcement contracts», che riguarda l’esecuzione dei contratti, in una parola l’efficienza ed efficacia della nostra giustizia.
I gap che dobbiamo superare sono molteplici e dalle radici profonde. Il legislatore dovrebbe adeguare i tempi della «doppia» normativa di matrice ottocentesca, per cui alla normazione generale seguono, dopo anni, i decreti di attuazione. L’esperienza sovranazionale prevede la concentrazione in un’unica edizione di leggi e regolamenti alternativi. L’enunciato dei principi e la via per realizzarli costituiscono un «unicum», e l’impatto, in termini di efficacia, giuridica e sociale, è vincente.
Certamente la nostra foresta legislativa è intricata e bisognerebbe aprire la strada della semplificazione, della chiarezza e della prevedibilità dell’esito dei contenziosi, a colpi di machete ma, intanto, facciamo ricorso al buon senso perché è giunto il momento di farvi ricorso. Lamentiamo da decenni la lentezza della giustizia e l’insostenibile peso dell’arretrato giudiziario, eppure nelle nostre università si continua ad investire sul diritto del processo innanzi al giudice ordinario, mentre non si dedicano le energie necessarie a formare i nuovi conciliatori, mediatori, arbitri, i quali dovranno favorire e potenziare il ricorso alle adr (alternative dispute resolutions) ovvero le soluzioni negoziali alternative ai giudizi ordinari, diffuso in altri Paesi, tanto da assorbire l’80 per cento e più del contenzioso (Usa). Questo percorso innovativo costituirebbe senz’altro un buon inizio, visti i risultati registrati altrove.
Fino a che punto la nostra pretesa «diversità» dovrà prevalere sui nostri interessi? Abbiamo davvero bisogno di leggi, anche buone, che non possono essere immediatamente applicate? Di una giustizia negata, visti i tempi inumani delle sue risposte? Perché continuiamo a formare avvocati preparandoli a processi senza fine e con scarsa utilità socio/economica? È arrivato il tempo delle risposte.     
  

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