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la Rai ci sanziona

Romina Ciuffa

L'editoriale di Romina Ciuffa

 

La Rai nasce con un regio decreto (il n. 1067) nel 1923. Subito dopo la prima guerra mondiale, subito prima della seconda, e in periodo fascista, nel quale Benito Mussolini puliva l’Italia dal triennio rosso (gran confusione) e poi, prendendosi tutto il braccio oltre che la mano (in posizione alta e definita peraltro), animava una propaganda monopolistica per sottomettere le masse ad una promozione di valori predefiniti dalla dittatura. Fin qui «tutto bene». Non è pericoloso precipitare, è pericoloso atterrare. L’atterraggio avviene in questo modo: spostiamoci di tanti anni, e arriviamo al referendum popolare del 1995, che conduce all’abrogazione della legge che riservava esclusivamente alla mano pubblica il possesso delle azioni RAI. Tale privatizzazione non è stata mai avviata.
L’oggetto della fornitura, in effetti, è la produzione dei programmi di servizio pubblico, ossia pagati dal contribuente attraverso una forma di tassazione, definita «canone». Un’eccezione al nomen omen: parlare di «canone» non modifica l’evidenza che si tratti di una tassazione sulla proprietà o, per generalizzare, sul possesso di mura (prima, seconda casa, appartamenti collegati, stanze limitrofe, la nonna che vive all’altro piano etc.). Possedere, solo possedere una TV, è come avere della droga in casa: si è «sanzionati».
Perché, oggi, la definirei «sanzione», se è vero che quest’ultima viene applicata contro la volontà dell’utente, sia pure in funzione della violazione di una regola. In linguaggio dell’uomo di strada, una punizione. In questo caso non c’è violazione da parte dell’utente che possiede una TV, come fosse una busta di stupefacenti: nelle nostre case possiamo possedere qualunque cosa sia legale. Pertanto la «sanzione» è applicata sine causa: non v’è violazione di alcuna norma nel possedere una TV o una radio. Ma se prima la RAI aveva una funzione sociale di informazione, diritto costituzionalmente garantito, oggi non l’ha più per due ordini di motivazioni.
Innanzitutto, perché le frequenze sono state liberalizzate, ed a fronte di un mercato che è libero non può permanere un monopolista obbligatorio. Meglio detto: non perché posseggo un’automobile lo Stato ha il diritto di mandarmi multe a casa per il possesso. Lo può fare solo in ragione di una violazione. Nel caso della TV, mutatis mutandis, non perché se ne possegga una, o 100, ciò voglia dire che la RAI sia guardata o apprezzata. Sky non obbliga a pagare un canone, è la scelta del consumatore che, seguendo i propri gusti, opta per adottare un servizio a pagamento. Questa è libertà. Ogni cittadino libero ha il diritto di partecipare attivamente ai processi dove vengono prese le decisioni di interesse pubblico, televisione inclusa. Inoltre, nei telegiornali le notizie sono alterate dalla composizione del Governo, pertanto si sta pagando, con una nuova, ulteriore mazzetta, il corpo politico, che impiegherà tali fondi per trasmettere la propria propaganda scegliendo i contenuti. Non è, esattamente come un centinaio di anni fa, l’approccio mussoliniano?
Va bene, fingiamo di trovarci - e non ci troviamo - in uno Stato democratico, costituzionale, in cui tutti possiamo scegliere i nostri diritti con i soli limiti dell’Altro. La democrazia è un’utopia. Aristotele la collocava tra le forme degeneri dello Stato assieme a tirannide ed oligarchia del resto. La tirannide per il filosofo è una monarchia che ha per fine il vantaggio del monarca, l’oligarchia cura gli interessi degli abbienti; mentre la democrazia degenera quando cerca di ottenere il vantaggio dei nullatenenti rispetto alle altre classi. In nessuno di questi casi si insegue il bene comune ma quello particolare, e la democrazia finisce per diventare una tirannide quando l’arbitrio della moltitudine domina incontrastato e i più agiscono ignorando perfino la legge: i governi infatti non si definiscono buoni o cattivi in base alla forma della loro costituzione, ma in base alle qualità etiche e morali dei loro membri. Specifica: il miglior governo dovrebbe essere formato dalla classe media, cioè da cittadini forniti di modesta fortuna. E sostiene: la miglior forma di governo non darà la cittadinanza ai meccanici. Anche Platone aveva parlato di utopia della Repubblica. Per quest’altro, democrazia, oligarchia e tirannide non possono essere riguardate come modello politico in grado di garantire la giustizia. Ma tornando ad Aristotele, egli dichiara: la scienza politica non può fare gli uomini, ma deve prenderli come li fa la natura. In un certo senso anche con i propri gusti allora: gli altri, i Latini, dicevano de gustibus non disputandum est.
E qui si passa al secondo ordine di ragioni: i contenuti. Io con il mio stipendio pago lo stipendio di Bruno Vespa e Gigi Marzullo, tra gli altri, che ogni santa sera sono presenti in un palinsesto ripetitivo, con «Porta a Porta» e «Sottovoce», nonché gli stipendi dei soliti, soliti, soliti noti. Per assistere a trasmissioni di basso livello culturale, dove si gioca e ci si diverte secondo un arbitrio di quoziente intellettivo pari a meno qualcosa, dove si vincono soldi mentre non si trova lavoro. Per ascoltare dibattiti di personaggi votati a nessuna causa, apprendere parolacce, distruggere l’italiano, sentire urla, grida, insulti. L’Italia della RAI è l’Italia di coloro che vogliono far passare gli italiani da ignoranti. Serie televisive con attori incompetenti, ingestibili, inguardabili. Chiacchiere.
Tutte queste chiacchiere sono oggi luce, perché si pagano in bolletta. Paghiamo le parolacce, le grida isteriche, il narcisismo, esattamente come quando, entrati in casa, pigiamo l’interruttore della luce. Paragoniamo la «Prova del cuoco» a un bene essenziale quale la fornitura elettrica. Ascoltiamo Paola Perego ed i suoi ospiti registrare uno stereotipo sulle donne dell’est, e senza accorgercene ci cibiamo di questo e di altri pregiudizi o giudizi precompilati. Non abbiamo la possibilità di oscurarli perché ci vengono propinati con obbligatorietà. Dovremmo essere messi nella condizione di scegliere tra guardare e non guardare, pagare e non pagare. Avere una TV in casa non vuol dire affatto seguire la RAI, più probabilmente dare sfogo ad uno zapping selvaggio da cui uscir fuori frustrati, insoddisfatti, salvo accontentarsi dell’istrionismo pubblico. Non che gli altri canali siano migliori, ma non ne paghiamo un contributo. Sono canali privati che vanno avanti da sé. Netflix, il digitale, Sky: a questi gli utenti medi si appoggiano per trovare una distrazione che si avvicini ai propri interessi. Non possiamo paragonare, così come facciamo, Bruno Vespa a Dio, che muove tutto, che decide di cosa renderci edotti ogni santa sera che RAI ha creato. I contenuti garantiscono cultura; quando si tratta di ridondare, di impiegare il caso del giorno per fare audience, di pagare una parcella, allora Aristotele si rivolta nella tomba, obtorto collo. La RAI dovrebbe essere una scelta per il contribuente. Non perché si ha un libro in casa ciò significa che si è alfabetizzati: un bambino di due anni non lo leggerà. Così mi sento io quando velocemente passo dalla Rai a TopCrime: un bambino che cerca il gioco adatto alle sue abilità. Nessuno, solo perché si ha un libro in casa, pagherà la sua università. E così nessuno, solo perché si ha una TV in casa, pagherà il suo canone. Facendosi uccidere subliminalmente. Che la RAI divenga un’opzione, e che il meccanico trovi lavoro: questa è democrazia, non tirannide od oligarchia. Lo dicono i filosofi, che Sanremo non lo guardano. Loro pensano, «come li fa la natura».

Tags: Aprile 2017