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FOCUS LAVORO - Dall’Italia alla Francia, voucher e cesu: perché lì funziona, qui no?

TIZIANO TREU

La decisione del Governo attuata con il recente decreto abrogativo dei voucher del 17 marzo 2017 e la relativa motivazione sono comprensibili; ma non saranno esenti da polemiche, anche per l’uso a dir poco arrischiato della decretazione d’urgenza. In realtà segnalano uno stato di preoccupante e persistente tensione sociale sui temi del lavoro, compreso quello dei voucher, il cui rischio è stato eccessivamente enfatizzato e poteva essere affrontato con modifiche legislative diverse. Tanto più che la tracciabilità dei voucher ne stava già riducendo i picchi di utilizzo; e che, come rileva l’Inps, i percettori di voucher come unica fonte di reddito sono solo il 12 per cento del totale. Ora si tratterà di riprendere l’argomento con soluzioni non affrettate per regolare questi lavori accessori, riducendo i rischi che essi si svolgano in nero

I dati recenti sull’occupazione segnalano un miglioramento, sia pure ancora insufficiente, soprattutto per i giovani. In due anni, da marzo 2015 a oggi, gli occupati sono cresciuti di 967.000 (+627 nel 2015; +340 nel 2016). Sono aumentati anche i lavoratori a tempo indeterminato per effetto degli incentivi introdotti a dal gennaio 2015, anche se in misura calante. La sentenza della Corte Costituzionale del 27 gennaio 2017 n. 26 che ha dichiarato inammissibile il referendum sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ha evitato un confronto referendario che sarebbe stato sicuramente conflittuale.
I due quesiti dichiarati ammissibili dalla Corte, riguardanti la disciplina dei voucher e la responsabilità solidale in materia di appalti, sono apparsi di impatto sociale meno grave del quesito sull’art. 18, ma non sono da sottovalutare. In particolare quello sui voucher, che infatti ha riaperto un aspro dibattito per la riforma o per il superamento dell’istituto, come dirò subito. Il quesito sui voucher, al di là del merito specifico della disciplina dell’istituto, tocca il nervo scoperto della precarietà. Ed è aggravato dalla diffusione degli abusi cui si è prestato questo strumento; anche se i dati più recenti indicano una flessione nella crescita dei buoni lavori (nel gennaio 2017 sono aumentati solo del 3,9 per cento rispetto allo stesso mese del 2016).
 Per introdurre modifiche correttive nella disciplina dell’istituto sono state avanzate diverse proposte, anche di origine parlamentare. L’obiettivo comune a molte di queste modifiche è stato di riportare i voucher all’idea originaria del decreto n. 276 del 2003, secondo il quale essi devono essere limitati a lavori effettivamente accessori al lavoro normale. I limiti previsti dal decreto per raggiungere l’obiettivo riguardavano sia i soggetti che potevano usare i voucher - studenti, pensionati, disoccupati, cioè soggetti fuori dal mercato del lavoro attivo - sia le attività (giardinaggio, insegnamento privato, cura delle persone, ecc.). Tali limiti indicavano però solo la presunzione che il lavoro fosse accessorio; una presunzione non assoluta, perché anche i pensionati ad esempio possono fare concorrenza indebita ai lavoratori attivi, usando i voucher a costi ridotti, in grande quantità. E così le attività previste nel decreto.
Per questo motivo si era proposto da varie parti di stabilire anche limiti quantitativi all’uso dei voucher, quali che siano i soggetti e le attività interessate. Per essere efficaci tali limiti dovrebbero riguardare sia il reddito percepito dal singolo lavoratore, come si prevede in alcune proposte di legge, sia soprattutto la quantità di impiego da parte dei datori di lavoro, ad esempio non più di una certa percentuale di lavoratori e di ore di lavoro sul totale. Soprattutto questo secondo ordine di limiti è decisivo per evitare che i voucher siano utilizzati per una quantità di prestazioni che giustificherebbero un rapporto di lavoro regolare, anche a termine o part time.
In particolare, le proposte della Commissione Lavoro della Camera erano, a mio avviso, utili a riformare i voucher, mantenendone gli aspetti utili di strumento semplice per lavori accessori. Questa ipotesi di modifica, come quelle, invero meno elaborate, volte a correggere la norma sugli appalti oggetto del referendum, sono state superate del decreto del Governo del 17 marzo 2017 di abrogare entrambe le normative, quella sui voucher, come quella sugli appalti, accettando così in toto la richiesta dei quesiti referendari. Tale decisione del Governo è stata evidentemente motivata dalla volontà di evitare il confronto referendario sui due quesiti ammessi. La scelta abrogativa è stata netta per non lasciare adito a dubbi, i quali invece avrebbero potuto sussistere in presenza di singole modifiche anche sostanziali della normativa in questione.
La decisione e la relativa motivazione sono comprensibili; ma non saranno esenti da polemiche, anche per l’uso a dir poco arrischiato della decretazione d’urgenza. In realtà segnalano uno stato di preoccupante e persistente tensione sociale sui temi del lavoro, compreso quello dei voucher, il cui rischio è stato eccessivamente enfatizzato e poteva essere affrontato con modifiche legislative come quelle accennate. Tanto più che la tracciabilità dei voucher ne stava già riducendo i picchi di utilizzo; e che, come rileva l’Inps, i percettori di voucher come unica fonte di reddito sono solo il 12 per cento del totale.
Ora si tratterà di riprendere l’argomento - come preannuncia il Governo - con soluzioni non affrettate per rispondere all’esigenza che resta effettiva di trovare strumenti semplici per regolare questi lavori accessori, riducendo i rischi che essi si svolgano «in nero». Una ipotesi è di rifarsi all’istituto francese dei Cesu, che riguarda essenzialmente i servizi di cura forniti alle persone. Nel caso francese peraltro il ricorso ai voucher è fortemente sostenuto da misure di defiscalizzazione a favore delle famiglie che sono alquanto costose: in quel Paese si stimano sette miliardi di euro. In Italia il decreto legislativo a firma G. Santini e altri (AS n. 1535) che riprende questa formula comporta una somma minore, ma comunque quasi 4 miliardi a regime.
Un’altra alternativa possibile è rivedere la normativa del lavoro intermittente, che è pur sempre un lavoro contrattualizzato regolare, ampliando l’ambito dei soggetti che vi possono ricorrere e le possibili quantità di utilizzo; e inoltre semplificandone l’uso, pur con una rigorosa tracciabilità del loro impiego.    


Approfondimento - IL CESU FRANCESE

Il «chèque emploi service universel», controllo servizio per l'impiego universale, comunemente conosciuto con l'acronimo CESU, è un mezzo di pagamento e dichiarazione utilizzato in lavori di servizi per la persona in Francia. La sua attuazione è una delle misure chiave della legge n. 2005-841 del 26 luglio 2005 sullo sviluppo dei servizi alla persona (Piano Borloo o piano della coesione sociale). Il CESU è in vigore dal 1° gennaio 20061. Esso può essere utilizzato per dichiarare la presenza di un dipendente in casa o pagare un intermediario (come un’associazione o una società di servizi) da chi si avvalga di un lavoratore a domicilio. I suoi vantaggi per il datore di lavoro sono la semplicità, la sicurezza d'uso, l’ampia possibilità di cofinanziamento e i benefici fiscali ad esso connessi.
è disponibile in due forme: prefinanziato e dichiarativo. Il Cesu pre-finanziato è speciale titolo di pagamento ad ammontare predefinito (ad esempio un buono pasto) che individua il nome del destinatario ed è riservato al pagamento degli stipendi o dei servizi alla persona o relativi alla cura dei figli. Fornisce l'accesso ai servizi a costi inferiori. È finanziato in tutto o in parte dalle società, i comitati o datori di lavoro pubblici per il loro personale. Può anche essere pagato dalle autorità locali, le organizzazioni sociali, i fondi pensione, gli organismi di azione sociale o di prevenzione, etc. a favore di destinatari che si dedicano ai servizi alla persona o alla custodia dei bambini. 
Il Cesu dichiarativo permette al datore di lavoro di dichiarare il dipendente che lavora in casa. Copre coloro che hanno lavoratori domestici, a tempo pieno o part-time, per aiuto in famiglia e nelle attività abituali (tutoraggio, assistenza per persone anziane o disabili, ecc). Dopo la dichiarazione, il Centro nazionale Cesu stabilisce la busta paga e l’indirizzo del lavoratore per conto del datore di lavoro. La dichiarazione del numero di ore lavorate e dello stipendio netto del dipendente deve essere fatta una volta al mese, al più tardi 15 giorni dopo la fine del mese in cui viene impiegato il lavoratore. { possibile dichiarare solamente l’interezza delle ore lavorate, ma possono essere aggiunte ore di servizio per consentire la definizione degli importi dell’imposta. (Romina Ciuffa)

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