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Com’è bella l’Italia che lavora e produce

Lucio Ghia

Come è bella l’Italia vista dal 48esimo piano del grattacielo in Columbus Circle in occasione della «Italy Meets the Usa». L’Italia che lavora, produce e non si lamenta, contribuendo a creare il surplus commerciale, registrato nel 2016, di 51,6 miliardi di euro. Lo scorso 14 febbraio 2017 ha avuto luogo a New York al Time Warner Center, in Columbus Circle, la manifestazione annuale che monitora le iniziative imprenditoriali di imprese italiane negli Usa e di imprese statunitensi in Italia.
I lavori del Summit organizzati da Ernest Yang, network mondiale di servizi professionali, insieme all’Italian Business and Investment Initiative e all’American Chamber of Commerce in Italy sono stati aperti da Fernando Napolitano che con il consueto «piglio» efficientista ha sottolineato i pregi ed i difetti del sistema italiano nel fare impresa.
Anche l’ambasciatore italiano a Washington, Armando Varricchio, nella sua introduzione ha messo in luce tra l’altro come la cifra delle nostre iniziative in Usa evidenzi i progressi della presenza imprenditoriale italiana. In particolare l’ambasciatore Varricchio ha sottolineato che nonostante la volatilità, l’incertezza, la complessità e l’ambiguità, la cosiddetta «V.U.C.A.», (acronimo di Volatility, Uncertainty, Complexity and Ambiguity) coniato ai tempi della Guerra fredda tra i blocchi Usa e Russia, caratteristiche che contraddistinguono il contesto operativo attuale, in questa sorta di metaforico quadrilatero delle Bermude, le imprese italiane non si perdono.
La loro tenuta, collaudata sul difficile terreno domestico ricco di lacci e lacciuoli, è contrassegnata da qualità e tecnologia, anche negli Usa apprezzate e valorizzate. Questa particolare esperienza dell’imprenditore italiano consente di cogliere opportunità non immaginabili per altri operatori stranieri e di affrontare le attuali preoccupazioni di una deriva protezionistica conseguente alle scelte di governo annunziate dal presidente Trump, con attenzione, ma con ottimismo.
I due moderatori e animatori dei diversi «panel» Betty Liu, giornalista di punta della Bloomberg Media Journalist e Pierre Fox della Bloomberg Media Journalist, non a caso tra i maggiori «ancor» e opinionisti negli Usa, hanno insistito molto affinché i 34 interventi che si sono succeduti nella mattinata e nel pomeriggio permettessero di fornire  non solo progetti e auspici, ma cifre in termini di incremento di fatturato, di investimenti e di occupazione. La realtà dei numeri costituisce, in questo caso, una buona fotografia dell’Italia.
Infatti, come è stato sottolineato nel secondo intervento d’apertura, dell’amministratore delegato di EY Italia, Donato Iacovone, i dati Istat dei primi 10 mesi del 2016 sottolineano un trend positivo. L’Italia ha, infatti, esportato negli Usa merce per 30,09 miliardi di euro, un dato in crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, ma vista la «simpatia» con la quale il mercato Usa guarda ai prodotti italiani e il potenziale che le nostre imprese potrebbero ancora esprimere, si deve e si può fare di più.
È stato anche notato con soddisfazione che l’export italiano rappresenta il terzo mercato negli Stati Uniti, dopo la Germania e la Francia. I dati Ice confermano, inoltre, che fuori dall’Unione Europea, il maggior numero di imprese italiane è concentrato proprio negli Stati Uniti. Sono infatti presenti investimenti italiani in ben 2.419 aziende statunitensi; l’8 per cento del totale, ed i ricavi ammontano a 48 miliardi circa, praticamente il 9 per cento del giro d’affari delle partecipate estere italiane.
Nei primi undici mesi del 2016 il totale delle esportazioni ha raggiunto infatti i 380 miliardi di euro pari al 25 per cento del Pil, collocando così l’Italia al secondo posto della classifica europea, dopo la Germania; Paese nel quale le esportazioni raggiungono il 39 per cento del Pil. Considerando a riguardo che siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa, proprio dopo la Germania, senz’altro possiamo e dobbiamo fare meglio.
Il Summit ha avuto come temi di fondo: le opportunità del particolare momento storico, l’eccellenza, l’innovazione e l’internazionalizzazione; mentre il filo rosso degli interventi ha collegato: telecomunicazioni, energia, farmaceutica, assicurazioni per i rischi assunti all’estero, cibo, manifattura, brevetti e distribuzione.
Il trend dell’internazionalizzazione delle imprese italiane verso gli Stati Uniti è stato confermato dai vari manager presenti in questa speciale vetrina. In particolare Alessandro Decio, amministratore delegato della Sace, ha annunciato che, alla luce dei positivi risultati conseguiti, tra breve verrà aperto un ufficio negli Stati Uniti proprio per accompagnare meglio e da vicino «on the ground» le imprese italiane che operano in questo Paese.
Anche Rodrigo Cipriani Foresio, direttore responsabile Italia, Spagna e Grecia di Alibaba, ha sottolineato che la fiducia nell’Italia del suo enorme gruppo, ha motivato infatti, la decisione di aprire come primo «serbatoio» di attività in Europa, proprio a Milano. Mentre Riccardo Ruggiero, amministratore delegato della Tiscali ha illustrato come il settore delle telecomunicazioni abbia intenzione di investire anche negli Stati Uniti.
Per l’area dell’energia, meglio per l’Enel, ben presente negli Stati Uniti specie nel campo delle energie rinnovabili, è intervenuto Francesco Venturini, amministratore delegato di Enel Green Power, che si è soffermato sull’apertura di un centro di ricerca e sviluppo nel Nevada e sull’acquisto di una azienda di software nello stato di Washington. Investimenti questi che traguardano ad impianti solari, termovoltaici e geotermici di ultima generazione, ai quali è affidata la crescita di questo importante gruppo, anche in un mercato dall’enorme potenziale come quello degli Usa.
Andrea Pontremoli, amministratore delegato e direttore generale della Dallara Automobili, per quanto attiene al «manufactoring» in particolare delle autovetture da corsa, ha dato un saggio, con le cifre dello sviluppo della sua impresa, di come le buone notizie relative ad alcune iniziative positive ed importanti che vengano realizzate in Italia e che si affermano all’estero, non venga data adeguata notizia al pubblico italiano, specie nel contesto abituale di notizie negative. Betty Liu, l’abile moderatrice del summit, di fronte a rappresentazioni e testimonianze così significative, non ha potuto non notare che oggi affidarsi ad un manager italiano significa spesso e volentieri avere una marcia in più, in effetti per essere manager di successo in Italia bisogna essere davvero bravi.
Domenico Arcuri, amministratore delegato di Invitalia, ha parlato a riguardo di un certo «masochismo nostrano»: non si parla delle cose che vanno bene, ma solo di quelle che vanno male perché a noi piace fustigarci da soli e sembrare più brutti e cattivi di quanto in realtà siamo.
Per il settore farmaceutico, Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria e Ugo Di Francesco, amministratore delegato di Chiesi Farmaceutici, hanno dimostrato come molti farmaci, affermati per le applicazioni specialistiche e per l’efficacia terapeutica, siano italiani. Nel settore alimentare la testimonianza di Nicola Farinetti, amministratore delegato di Eataly, «leader del mangiare italiano», nell’illustrare la sua esperienza statunitense e i risultati raggiunti nelle sue iniziative, ha osservato che in realtà noi italiani dovremmo favorire queste «joint venture» con gli americani perché se noi siamo più creativi e spesso unici, mentre gli americani sanno sempre «fare sistema», mentre noi di fronte al «fare sistema» mostriamo i nostri limiti individualistici.
Ora la domanda sorge spontanea, a prescindere dall’evocato italico masochismo che effettivamente merita una riflessione, perché dobbiamo continuare a farci del male? Perché in Italia siamo condannati e da chi, a essere vittime di un contesto che tende a scoraggiare i migliori e a premiare i peggiori e i pessimisti? Certamente abbiamo i soliti problemi dei quali su queste colonne si è più volte parlato, oramai dovremmo essere tutti concordi nella necessità di dover affrontare con decisione le principali aree critiche che scoraggiano gli investimenti in Italia: burocrazia; decisioni giudiziarie più prevedibili e veloci; minore complessità e maggiore certezza degli oneri fiscali; maggiore rigore nell’applicazione del principio della presunzione di correttezza e di legittimità propria della «business judgement rule» di matrice anglosassone, nei confronti dei managers e della governance dell’impresa.
I tentativi fatti per rendere favorevole la legislazione propria del mercato del lavoro e i tentativi effettuati per snellire il processo civile, costituiscono un buon inizio e alleggeriscono le «palle al piede» che scoraggiano gli investimenti, specie esteri, nelle imprese italiane. Infatti, non possiamo sottacere il trascinarsi di una giustizia lenta e inefficacie nel settore civile che punisce le nostre imprese rispetto alle risposte che le loro concorrenti estere ricevono nei rispettivi Paesi. Senz’altro la possibilità di avere i permessi necessari per poter esercitare l’attività di impresa in pochi giorni, i costi bassi di accesso alla produzione, l’esistenza di sistemi che riducano scioperi e contenziosi, che comunque non si trascinano per decenni, ebbene tutto ciò è destinato a fare la differenza rispetto al contesto nel quale viviamo, dominato invece da divisioni, da contrasti permanenti, spesso colorato da vero odio sociale.
Di fronte a questo quadro non possiamo stupirci che il nostro Pil diminuisca, che la crescita tanto annunciata non si realizzi se non con risultati modesti, anche rispetto alle realtà dei Paesi concorrenti, mentre le spese pubbliche in percentuale rispetto al Pil. Il futuro di questo Paese si presenta, perciò, con numerose e preoccupanti ombre, malgrado il bel panorama visto dal 48esimo piano dal grattacielo del Columbus Circle. La realtà con cui dobbiamo fare i conti è quella di non accontentarci di avere un enorme potenziale che quando viene liberato dai pesi che lo frenano, presenta le realizzazioni ed i risultati che il Summit di New York, tenutosi con continuità annuale per la sesta volta indipendentemente dai Governi che si sono succeduti nello stesso periodo, ha mostrato alle imprese e alla Finanza Usa.
Certamente le testimonianze di ciò che va bene sono preziose, ma certo «non basta solo che nella classe vi siano studenti meritevoli che si impegnano, quando tutti gli altri dormono», per citare Scaccabarozzi. Per attrarre nuovi capitali in Italia dagli Usa, che pure negli ultimi 6 anni hanno investito nel nostro Paese complessivamente 3 miliardi di dollari, dovremmo allinearci con le richieste che gli investitori esteri ci rivolgono: comprensibilità e certezza delle regole, prevedibilità della loro applicazione, velocità delle decisioni giudiziarie. Il tutto in un clima sociale e politico più coeso e meno litigioso. È innegabile, infatti, che le liti impoveriscono e costano di più ai Paesi poveri. E noi non siamo più «ricchi di famiglia».  Nella situazione generale del Paese dovremmo concentrarci sul fare presto e bene il nostro dovere di essere parte attiva di un mondo interconnesso e competitivo e non su come litigare permanentemente.                 
   

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