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Vincenzo guggino: pubblicita' specchio della societa'? SI, MA NON sempre FEDELE

Vincenzo Guggino, Segretario Generale  dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria

Laureato in Scienze Politiche nell’Università «Cesare Alfieri» di Firenze, dopo aver conseguito oltreché un master del Formez riservato a docenti di management, e di averne frequentato un secondo in Business Administration nell’Istituto Superiore per imprenditori e dirigenti di azienda, Vincenzo Guggino si è specializzato in pubblicità conseguendo un diploma in materia nell’International Advertising Association. Non meraviglia quindi il suo campo di lavoro che l’ha portato a  svolgere, attualmente, il ruolo di Segretario Generale dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Numerose comunque le sue esperienze e attività. Docente in vari master di Comunicazione, è membro senior dell’executive del Comitato dell’European Advertising Standards Alliance e della Commissione Marketing della Camera di Commercio Internazionale. È consigliere del Direttivo e del Consiglio di amministrazione della Fondazione Pubblicità Progresso, della Commissione Usi in materia di pubblicità, della Camera di Commercio di Milano. Partecipa al Comitato di redazione del periodico «Il Diritto Industriale» nel quale cura la sezione specializzata in autodisciplina pubblicitaria. È autore di numerose pubblicazioni in tema di diritto pubblicitario. In questa intervista fa il punto sull’attività dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria nella tutela della correttezza della pubblicità e nel rispetto, nella comunicazione commerciale, delle norme del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale.
Domanda. Può illustrare in che cosa consiste e quali obiettivi ha la vostra attività?
Risposta. L’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria è un’organizzazione non profit che ha il potere di bloccare le campagne pubblicitarie ingannevoli, offensive, false, volgari o tali da incoraggiare comportamenti violenti, impedendone l’ulteriore pubblicazione e la diffusione tramite i mass media. A tutela dei consumatori e delle imprese, opera dal 1966 al fine di rendere la pubblicità sempre più «onesta, veritiera e corretta», come stabilisce il primo articolo del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale. Fanno parte dell’Istituto le associazioni e gli enti che operano nel settore della comunicazione, precisamente le aziende che investono in pubblicità, le agenzie che la creano e i mezzi che la diffondono, e che rappresentano tutti insieme quasi l’investimento totale compiuto nel settore. Sono infatti presenti le imprese che investono in comunicazione.
D. Come è organizzata questa associazione?
R. È dotata di un Consiglio direttivo che stabilisce le direttive generali dell’attività e aggiorna le norme del Codice di autodisciplina. Per svolgere quest’ultima funzione si avvale di una Commissione di studio, mentre all’esame delle segnalazioni del pubblico provvede il Comitato di Controllo. Infine c’è il Giurì che agisce in veste di organo giudicante, indipendente dal mondo della comunicazione commerciale, così come il Comitato di Controllo. La sanzione autodisciplinare è la cessazione immediata del messaggio.
D. La pubblicità riveste un ruolo dominante nella società attuale: costruisce immagini, diffonde messaggi, influenza idee. Non c’è il rischio che questo tipo di comunicazione comporti anche qualche forma di discriminazione?
R. Si fa sempre riferimento agli articoli 9 e 10 del Codice dell’autodisciplina, che vietano la violenza, l’indecenza, l’offesa alle convinzioni morali, civili e religiose. Si tratta di alcuni principi generali da riversare nella concretezza e nella realtà. Va tenuto presente che queste norme si applicano per evitare una comunicazione commerciale lesiva della dignità della persona.
D. Quali sono i casi più tipici e ricorrenti di pubblicità «sessista»?
R. Abbiamo isolato cinque categorie tratte dalla giurisprudenza autodisciplinare: il nudo e il sesso come tematica; l’uso dei particolari anatomici; la donna oggetto; gli stereotipi di genere e i doppi sensi. In merito al primo, non esiste un argomento tabù e in via assoluta non lo sono né il nudo né la sessualità, ma lo diventano nel momento in cui propongono modelli di degradazione, specialmente quando non c’è una giustificazione narrativa in relazione al prodotto. La seconda categoria riguarda l’uso dei particolari anatomici nei quali il corpo viene isolato e anatomizzato, come un macellaio farebbe con parti sezionate del corpo di un animale. La terza categoria fa riferimento alla donna come oggetto, quindi ad una sorta di mercificazione del corpo femminile, per esempio un corpo marchiato; di per sé non sarebbe un problema, se in qualche modo l’immagine è giustificata dal contesto narrativo. Per esempio, l’abbigliamento intimo giustifica la nudità, mentre noi ci occupiamo della «patologia», cioè entriamo in campo quando c’è qualcosa di già malato e di morboso.
D. La vostra attività, in particolare i vostri interventi non hanno anche uno scopo preventivo?
R. Certamente, in quanto possiamo anche emettere pareri prima che una pubblicità venga diffusa, indicando la strada da seguire e dando qualche consiglio. Il giudizio preventivo può essere richiesto da chiunque. Per quanto riguarda la pubblicità sessista la si riscontra maggiormente in relazione ad inserzionisti  locali, che sono meno controllabili perché l’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria opera su circa l’80 per cento del volume pubblicitario nazionale, mentre costoro usano molto spesso affissioni locali non appartenenti ad alcun circuito, pertanto non possiamo intervenire. L’Istituto, infatti, copre tutti i mezzi di comunicazione, come stampa, tv, radio e i grandi circuiti nazionali delle affissioni, ma non sempre i piccoli operatori; sul piano quantitativo conta poco, anche se è sufficiente una sola affissione, vista magari non da tantissime persone, a mettere in cattiva luce tutto il comparto pubblicitario.
D. Per questo motivo avete siglato un protocollo di intesa con l’Anci, che rappresenta gli oltre 8 mila Comuni italiani?
R. I Comuni hanno rapporti con gli inserzionisti e con i proprietari degli impianti, ma in generale non hanno norme riguardanti i contenuti divulgati. Il Comune di Milano ha emanato una delibera relativa però agli impianti di sua proprietà, quindi operante solo su una parte poco significativa perché principalmente utilizzata per comunicazioni alla cittadinanza e meno per le affissioni commerciali. La maggior parte degli impianti per le affissioni è di proprietà dei privati con i quali però i Comuni stabiliscono solo una relazione contrattuale. Il protocollo dell’Anci invita i Comuni a far sì che tra gli obblighi contrattuali figuri il rispetto del Codice di autodisciplina: e questo ci consentirebbe di intervenire.
D. Esistono anche i Comitati per la tutela della comunicazione pubblicitaria; quale utilità hanno la loro attività e i loro interventi?
R. In tutti i Paesi europei esiste una autoregolazione all’interno di una cornice di principi condivisi, sulla base dei quali poi le autodiscipline intervengono nei casi concreti. Ciò è abbastanza ragionevole, perché le autodiscipline non costano nulla al contribuente, sono veloci e sono efficaci in quanto bloccano il messaggio. L’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria non censura: questa è una materia nella quale potrebbe sentirsi molto il peso di un giudizio morale. Invece il nostro è un giudizio tecnico, volto a conservare il rapporto di fiducia tra il consumatore e il messaggio: noi cerchiamo di salvaguardare la correttezza della relazione tra il messaggio e il destinatario.
D. Le vostre decisioni non provengono quindi da un organo pubblico, dello Stato?
R. No, lo IAP è un’istituzione privata ma che opera nell’interesse pubblico, come riconosciuto dall’Unione Europea. Sono state avanzate alcune proposte di legge dirette all’istituzione di commissioni ministeriali, ma la nostra opinione è che l’instaurazione di un procedimento burocratico perché per decidere sulla correttezza della pubblicità comporterebbe iter lenti e farraginosi. Possono però attuarsi sinergie con il settore pubblico, cioè con organismi statali, come con le associazioni di tutela. Ad esempio, prima dell’accordo con l’Associazione dei Comuni, alcuni di questi erano intenzionati a creare delle commissioni, ma poi, hanno compreso la possibilità di creare sinergie con lo IAP in modo assolutamente gratuito.
D. Le sanzioni inflitte ai trasgressori delle norme del Codice di autodisciplina pubblicitaria si sono rivelate efficaci e sufficienti? E basta una sola segnalazione per bloccare una campagna?
R. Trattandosi del blocco dell’annuncio pubblicitario, le sanzioni sono abbastanza pesanti perché la campagna pubblicitaria in atto viene bloccata, non può più essere diffusa; ed inoltre viene vanificato l’investimento finanziario compiuto per crearla. Inoltre chiunque può assumere l’iniziativa. Nel nostro sito si trova il modulo e a tutti forniamo una risposta in tempi brevi.
D. Nell’epoca della diffusione dei social network, potete agire su questo tipo di trasmissione in caso di immagini offensive o volgari?
R. Torniamo sempre al principio della giurisdizione: è possibile se l’azienda è in qualche maniera collegata a noi, altrimenti è difficile; chiunque incontrerebbe difficoltà. Inoltre si usa l’espediente di ubicare le aziende all’estero e la giurisdizione nazionale non può fare quasi nulla.
D. Oltre al protocollo con l’Anci, ne avevate già siglato un altro con il Dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri. In virtù di essi siete interessati a farvi conoscere e a comunicare di più il vostro operato?
R. Sicuramente, perché gran parte del nostro lavoro scaturisce dalle segnalazioni del pubblico. Un modo, ovviamente, per farci conoscere e divulgare la nostra attività consiste nel ricorso ad un canale privilegiato per far emergere eventuali segnalazioni. Da quando abbiamo lanciato un nuovo sito e realizzato una recente campagna pubblicitaria, le segnalazioni delle violazioni del Codice sono aumentate.
D. Lei è stato vicepresidente dell’Easa, l’European advertising standard alliance. Quali sono le differenze principali tra le vostre norme e quelle vigenti nel resto d’Europa?
R. Siamo in buona posizione, nel senso che l’Italia è molto considerata: è stata creata prima tra le autodiscipline ed è tra le più serie e autorevoli. Abbiamo cominciato nel 1966, però il Codice della Camera di commercio internazionale è del 1937. Uno dei più antichi Codici è quello dell’Inghilterra, dove da sempre esiste questo spirito di autodisciplina, che in un certo senso costituisce anche una visione del diritto. Le nostre regole più o meno coincidono, anche se poi emergono sensibilità diverse su temi diversi, come ad esempio sul tema dell’alcol che da noi non è così avvertito perché non costituisce un’emergenza sociale come nel Nord Europa.
D. E le differenze sulla pubblicità basata sulla donna?
R. Sull’uso dell’immagine della donna l’Italia è un po’ indietro. Con gli altri Paesi d’Europa c’è una differenza soprattutto nei rapporti con lo Stato. Guardo sempre con molta ammirazione, ad esempio, i colleghi spagnoli che hanno accordi con molte Amministrazioni: lo Stato con loro ha collaborato mentre noi abbiamo dovuto un po’ faticare. Ma adesso con l’Antitrust abbiamo un rapporto molto proficuo anche sul piano dello scambio d’informazioni. Non sono però rapporti formalizzati e questo costituisce un po’ un handicap. Nel 1992, quando l’Antitrust cominciò ad occuparsi di pubblicità ingannevole, in teoria l’autodisciplina poteva anche scomparire, ma invece da quell’anno l’Istituto cominciò a lavorare di più.
D. Perché da molti decenni si continua a fare sempre lo stesso tipo di pubblicità?
R. La pubblicità esprime in gran parte il grado di evoluzione sociale di un Paese: un’azienda evoluta usa una comunicazione evoluta. Molte delle pubblicità che vengono bloccate sono diffuse da centri di revisione di auto, da venditori di pneumatici, ossia da un mondo storicamente maschile, che ha sempre usato questi stereotipi di genere. Un prodotto di massa che si rivolge invece alle donne, per esempio alle casalinghe, mai userà una comunicazione differente, magari usando altri stereotipi.
D. Come mai ora si assiste a pubblicità che un tempo non avrebbero suscitato polemiche, oppure non sarebbero state ritenute offensive, oppure lo sarebbero state ma non avrebbero suscitato proteste?
R. C’è molta più attenzione sociale per tutto ciò che possa avere lontanamente un sentore di sessismo, con la differenza però che oggi si possono segnalare i casi tramite posta elettronica, quindi in pochi minuti arrivano centinaia di e-mail. Questo è un fatto nuovo nel senso che cambia anche la percezione, quindi c’è maggiore attenzione sociale. Ed anche le aziende si evolvono e pongono più attenzione nell’usare un certo tipo di linguaggio e di immagini. Va inoltre notato che non si può risolvere tutto a colpi di decreti, di leggi e di norme: deve esservi un cambiamento culturale, anche perché se la pubblicità fotografa la società, deve essere la società per prima a dare una migliore immagine di sé.       

Tags: Aprile 2014

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