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emmanuele f.m. emanuele: beni culturali, consentire il mecenatismo «puro»

Emmanuele Francesco Maria Emanuele, presidente della Fondazione Roma  e della Fondazione Roma-Mediterraneo

Emmanuele Francesco Maria Emanuele vive e lavora a Roma. Professore in alcune delle più prestigiose università italiane ed europee, è anche avvocato cassazionista, economista, banchiere, esperto di materie finanziarie, tributarie e assicurative; editorialista, saggista, autore di pubblicazioni scientifiche in materia di finanza e di diritto; presidente e amministratore di imprese nazionali e internazionali nei campi delle costruzioni, chimico, meccanico, bancario e finanziario. In campo artistico e culturale è stato insignito del dottorato Honoris Causa in Belle Arti dalla St. John’s University di Roma e della laurea Honoris Causa in Humane Letters dall’American University of Rome. Ha rivestito nell’ultimo periodo le cariche di presidente della Azienda Speciale Palaexpo e di consigliere di amministrazione della Fondazione Biennale di Venezia; è attualmente presidente della Fondazione Roma e della Fondazione Roma-Mediterraneo.
 Domanda. L’articolo 9 della Costituzione promuove la valorizzazione del patrimonio artistico e storico. Con esso si è voluto dettare un criterio per fruire dell’immenso patrimonio di beni culturali come volano per l’economia?
Risposta. Io ritengo che si è voluto dettare questo criterio perché si ipotizzava correttamente che la cultura, risorsa principe del nostro Paese, avrebbe costituito l’elemento fondante dello sviluppo dell’economia nazionale. Ma i fatti hanno dimostrato che questo desiderio dei Costituenti non ha trovato concreta attuazione, la cultura ha finito per diventare, tristemente, la Cenerentola dell’economia nazionale e ad essa, tranne in qualche limitatissimo caso, non è stata mai rivolta la dovuta attenzione dalla classe politica. Basterebbe guardare le recenti campagne elettorali, nelle quali non si è mai parlato del problema della cultura.
D. Come potrebbe contribuire una vera politica culturale a far uscire l’Italia dalla crisi economica?
R. La politica culturale, che è la base e l’essenza dello spirito di un Paese e di una Nazione, contribuirebbe in maniera assoluta all’evoluzione economica se si comprendesse che l’importo da destinare a questa attività dovrebbe essere ben diverso da quella modesta cifra dello 0,1 per cento del prodotto interno ad essa destinata. Una politica non può dipanarsi senza la sufficiente capacità di risorse che consenta di attuare i progetti; questa è la vera e assoluta incomprensione dell’elemento fondante della cultura come motore dello sviluppo. Da tempo io parlo di smettere di parlare di prodotto interno lordo, per parlare di prodotto interno culturale, perché registro come nel nostro Paese l’imprenditoria pubblica sia tramontata drammaticamente a causa delle privatizzazioni, molto spesso prive di contenuto e affidate a capitalisti senza capitali. L’impresa privata fatica per le difficoltà di carattere sindacale e fiscale, l’agricoltura è in una crisi irreversibile, la ricerca scientifica e l’università non hanno più possibilità di offrire sbocchi a coloro che ad esse si dedicano. La cultura potrebbe fornire la concreta risposta ai grandi problemi, insieme alla valorizzazione del territorio, visto che quello italiano è esteso ma è popolato preminentemente da bellezze culturali, oltre che paesaggistiche.
D. Ha parlato spesso di un «cambiamento del metodo di gestione nella cultura italiana». Quali sono le sue proposte?
R. Il metodo della gestione parte dal presupposto che bisogna cambiare l’impostazione che la legge Bottai introdusse nel nostro Paese parlando di conservazione del bene culturale, per arrivare alla concezione moderna di valorizzazione del bene culturale. Noi dobbiamo finalmente comprendere che conservare il nostro patrimonio è essenziale, bisogna farlo bene - e bene è stato fatto -, ma bisogna passare a una fase successiva: quella di far sì che questo patrimonio ben conservato possa produrre capacità di attrazione economica nel mondo che ci circonda e che - lo si riconosca o no -, vede nell’Italia il luogo emblematico della cultura del mondo stesso. Nessun Paese del mondo ha le bellezze artistiche di cui noi disponiamo, nessun Paese in Europa ha la quantità di quadri, opere d’arte, cattedrali e chiese che contengono capolavori irripetibili. Conseguentemente la visione soltanto conservatrice, non fruitrice, non valorizzatrice, è soltanto destinata a preservare una categoria di persone che io rispetto, che sono conservatori delle opere d’arte - come i sovrintendenti -, ma che non hanno la visione manageriale e gestionale dell’impresa culturale, che non è diversa da un’impresa di altro tipo. Non c’è nessuna differenza. Ostinarsi a pensare che l’impresa culturale violi la sacralità dell’arte costituisce un’assoluta, incomprensibile, ottusa difesa di situazioni che non hanno più motivo di esistere.
D. Come confrontarci con le grandi città straniere? Il turismo è lo stesso del passato o è cambiato? Come far fermare ma anche tornare i turisti?
R. Facendo esattamente le azioni che molto modestamente ho creduto di fare io nel breve periodo della mia carica di presidente delle Scuderie del Quirinale, nel Palazzo delle Esposizioni, con grandi mostre come quella sul Caravaggio, che ha registrato 570 mila visitatori e ha generato un indotto di ciò che l’afflusso turistico determina, quindi della gastronomia, dell’accoglienza alberghiera. Si è parlato di qualcosa come 10-12 milioni di euro aggiuntivi, nel periodo della mostra. Ciò significa avere comprensione del potenziale del settore.
D. L’Italia dovrebbe puntare tutto su questo?
R. Non abbiamo alternativa, l’unica è quella di attivare la fruizione culturale di tutto quel mondo che viaggia e che cresce sempre più. Basta osservare i flussi turistici di cinesi, indiani, giapponesi, di quei mondi lontani che fino a ieri non avevano rapporti con noi. Un’indagine realizzata da «Italiadecide», della quale faccio parte, ha dimostrato che questi flussi si fermano, nella migliore delle ipotesi, a Firenze, mentre tutto il resto d’Italia, ricco di capolavori d’arte, viene trascurato.
D. Come presidente della Fondazione Roma-Mediterraneo, quali sono i progetti più significativi da essa avviati per rafforzare i valori e le tradizioni che uniscono i Paesi del Mediterraneo?
R. Le iniziative sono molteplici. Abbiamo contribuito alla ristrutturazione della chiesa di Sant’Agostino d’Ippona ad Algeri, abbiamo avviato una partecipazione stabile con Tunisi per il grande festival della cultura musicale, alla quale abbiamo portato il contributo della musica italiana in aggiunta a quella dei grandi musicisti internazionali; abbiamo avviato un rapporto molto proficuo con le strutture culturali con attenzione alle loro culture e tradizioni. Per quanto riguarda le iniziative nella nostra area mediterranea, abbiamo realizzato la mostra «Partono i Bastimenti» sull’emigrazione italiana nel mondo, organizzato un’importante iniziativa culturale, soprattutto musicale, «Le voci del silenzio», ad opera di una grande orchestra nella quale hanno suonato personaggi di diverse etnie, e contribuito anche un’artista straordinaria che disegna con la sabbia. Con l’Orchestra di Piazza Vittorio il 28 giugno scorso abbiamo dato un meraviglioso concerto alla Fiumara d’Arte, un posto magico vicino Palermo, poco conosciuto ma ricco di stupende opere d’arte monumentali, create in un’area che va dai Monti  Nebrodi al mare.
D. In che modo la Fondazione Roma - che ha dato vita alla Fondazione Roma-Mediterraneo - è operativa nel campo della sanità, dell’istruzione, della cultura e del volontariato?
R. La Fondazione Roma opera nel settore della sanità attraverso una propria struttura, l’hospice per i malati terminali, che assistiamo gratuitamente nella sede di Via Alessandro Poerio a Roma. Sempre in campo sanitario interveniamo con l’assistenza ai malati di SLA; per i malati di Alzheimer stiamo costruendo un villaggio nel quartiere Bufalotta a Roma, mentre a Latina vorremmo realizzare un progetto rivoluzionario nel campo della ricerca scientifica, precisamente delle patologie onco-ematologiche, nelle quali apportiamo un apparecchio per la prima volta prodotto in Europa.
D. In che cosa consiste?
R. Consente di studiare le patologie onco-ematologiche del sangue, e quelle neurovegetative, quali i principi della demenza senile. È il primo apparecchio in Europa, che abbiamo acquistato per 13 milioni di euro e donato alla città di Latina. Un apparecchio simile è stato acquistato dal Giappone. Nel campo dell’istruzione operiamo con un master per la formazione del personale che deve gestire spazi espositivi; nella cultura siamo intervenuti con grandi mostre che continueremo ad organizzare; sono in programma nel prossimo autunno, negli spazi espositivi del Museo Fondazione Roma, una grande mostra di Rochwell Kent ed una di Gustav Klimt. E siamo presenti soprattutto nell’aiuto ai meno fortunati con lo «Sportello della solidarietà». Mi è sembrato opportuno integrare questa offerta di solidarietà ai meno fortunati in questo nostro Paese, che appare in ritirata nel welfare e in crisi irreversibile, con l’attenzione al Meridione di cui tanto si parla ma per cui poco si fa. Abbiamo creato sedi della Fondazione Roma-Mediterraneo a Napoli, Palermo, Catania, Valencia e Cordoba. Cerchiamo di svolgere questa vocazione culturale e filantropica nel Mediterraneo e nel nostro Sud.
D. In che la vostra strategia è diversa da quella di altre fondazioni?
R. Noi rispettiamo la legge «Amato-Ciampi» secondo la quale le fondazioni dovevano dismettere la partecipazione bancaria, realizzare un patrimonio, investirlo nel modo migliore e destinare le risorse ai bisogni di cui ho parlato. Altri continuano a fare i banchieri, attività a mio parere neppure positiva perché le banche non rendono e le fondazioni non beneficiano dei loro dividendi, e soprattutto si è costretti a compiere inutili aumenti di capitale per mantenere le posizioni. Siamo diversi da sempre, per mia volontà e dal 2003, in particolare, soprattutto nella risposta al bisogno. Non pensiamo di dare tutto a tutti, principio sbagliato perché è di derivazione politica, ma realizziamo iniziative per dare risposte ai veri problemi della collettività senza farci influenzare dalla politica locale in nessuna circostanza.
D. Che pensa della politica?
R. In un Paese come il nostro, nel quale non si tiene conto dell’articolo 118 della Costituzione che prevede la sussidiarietà orizzontale e verticale, il cittadino, la società civile, gli uomini liberi non condizionati dalla politica e desiderosi di contribuire a cambiare la situazione generale, devono avere dignità ed essere aiutati a farlo. A parte il decreto legge, che ha introdotto il mecenatismo, emanato lo scorso maggio dall’attuale Governo e in particolare dal ministro per i Beni e le Attività culturali e il Turismo Dario Franceschini - a cui dobbiamo gratitudine - , decreto all’esame del Parlamento per la ratifica, nulla di più è stato fatto. Non svolgiamo attività economica; siamo un’organizzazione no profit, non dobbiamo guadagnare nulla, vogliamo solo aiutare, cosa che viene impedita dalla mancanza di una norma attuativa dell’articolo 118 della Costituzione, che introduca un meccanismo sanzionatorio per chi impedisce al privato sociale di fare ciò che lo Stato non fa. Occorre una legge in base alla quale, come in altri Paesi, il mecenate sia rispettato, onorato, aiutato ad aiutare. Da noi paradossalmente il mecenate viene invece visto con sospetto, osteggiato, respinto quando non demonizzato.
D. Che cosa prevede in proposito la Costituzione?
R. L’articolo 118 dice espressamente che, quando lo Stato non è in grado di fare una cosa, può farla il privato. Questa è la sussidiarietà, che recepisce lo spirito dei padri dell’antica civiltà italiana, delle confraternite, di tutte le attività svolte a sussidio di uno Stato che allora non interveniva. Mentre in Italia, dove questo mondo è nato per volontà della Chiesa, ma anche del movimento liberale e dei movimenti sociali e socialisti, non si realizza. In Inghilterra il cittadino adotta un quartiere, installa panchine per gli anziani, cura il verde. Da noi se un cittadino propone interventi a favore della collettività, come pulire i muri della città, riparare il manto stradale, installare una fontana, tutto gli viene impedito; secondo il Comune, la Provincia, la Regione, non ha il titolo per farlo, rischia di essere denunciato. L’esigenza del Paese è la libertà di iniziativa senza un ritorno economico, diretta ad aiutare gli altri; è la presenza di mecenati puri che realizzino azioni concrete. C’è a Roma un museo chiuso da 4 anni, vorremmo prenderlo in gestione, aprirlo, farvi lavorare i giovani, consentirne la fruizione.
D. Di quale museo si tratta?
R. L’Isiao, il museo dell’Africa italiana, ma si stanno chiudendo intorno a Roma anche biblioteche e gallerie d’arte, che lo Stato preclude al privato di gestire, ignoro per quale motivo. Qualcuno suppone: «Perché vedono in noi quello che dovrebbero fare loro ma non fanno». Forse risentiamo di un eccesso di autoritarismo storico, nato prima del Fascismo con il Governo Crispi, che era uno statalista. Una storia di statalismo centralizzato caratterizza ancora la società, non c’è quell’apertura che esiste nei Paesi anglosassoni, nei quali il cittadino può contribuire alle grandi iniziative.   

Tags: Luglio Agosto 2014

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