piero mastroberardino: i vini di una famiglia secolare valorizzano l’irpinia e l’italia
Le prime tracce della presenza in Irpinia risalgono al catasto borbonico, a metà del Settecento, epoca in cui la famiglia Mastroberardino elesse il villaggio di Atripalda, nella provincia di Avellino in Campania, a quartier generale, ove sono tuttora situate le antiche cantine; e di lì ebbe origine una discendenza che legò indissolubilmente le proprie sorti al culto del vino: gli esponenti della famiglia che si sono succeduti alla guida dell’azienda si sono identificati nella lealtà verso il territorio, le origini, l’ambiente naturale e sociale a tutela di un’identità culturale, svolgendo un ruolo pionieristico nella difesa e valorizzazione del culto degli autoctoni, della viticoltura nativa, del Fiano, del Greco, dell’Aglianico. L’etichetta del «Taurasi Riserva Centotrenta» raffigura i volti dei tre esponenti che hanno contrassegnato, con il proprio contributo professionale e umano, la storia di questi 130 anni: Angelo Mastroberardino (1850-1914), fondatore dell’era moderna dell’azienda, che nel 1878 curò l’iscrizione dell’azienda nel Registro delle imprese e avviò le attività di esportazione costituendo una società di spedizioni a Roma; Michele Mastroberardino (1886-1945), pioniere che, con caparbietà e coraggio, portò il vino Mastroberardino nel mondo, artefice di continui viaggi di promozione oltreoceano agli inizi del Novecento; Antonio Mastroberardino, Cavaliere del Lavoro, identificato come l’archeologo della vite e del vino, che ha svolto un ruolo determinante a partire dal 1950 per la salvaguardia delle varietà autoctone, negli anni più bui e difficili della ricostituzione del patrimonio viticolo nazionale, apportando un contributo scientifico fondamentale per lo sviluppo della comunità e dell’economia viticola ed enologica dell’Irpinia e dell’Italia.
Piero Mastroberardino, attuale presidente, ha raccolto l’antica eredità di famiglia per proseguire il cammino. Con una componente artistica a 360 gradi, dalla pittura alla scrittura, al video: esce oggi infatti un cortometraggio.
Domanda. Ha scelto di descrivere il vino e i suoi valori attraverso un cortometraggio, affidandone la regia a Nicolangelo Gelormini. Come ha concepito l’incontro tra video e vino?
Risposta. Essendo personalmente impegnato anche nell’ambito della produzione artistica, sia nella scrittura che nella pittura, incontro tanti artisti di vari campi ed estrazioni, tra i quali Nicolangelo Gelormini, giovane regista di grandissime qualità. Abbiamo parlato del modo di sentire la vigna, per me un concetto molto radicato in quanto sono 200 anni che la mia famiglia fa questo lavoro sempre nello stesso territorio, con gli stessi vitigni antichissimi, e quindi con costanza e impegno culturale nella viticoltura. Era da tempo che sentivo l’esigenza di produrre un video aziendale, che non è il cortometraggio realizzato da Gelormini ma un video di carattere informativo, per aggiornare anche il Registro di comunicazione: il nostro è un settore molto tradizionale e la comunicazione è ripetitiva e usa schemi consolidati. Volevo che emergessero messaggi riconducibili al mio modo di sentire la vigna.
D. Cos’è la vigna per lei?
R. È un’opera d’arte, che di per sé è scultura. Basta osservare il disegno dei tralci che è sempre diverso e molto complesso nella sua rappresentazione. Disegnare una vigna non è come disegnare altre cose, richiede un coinvolgimento molto forte. Essa esprime una grandissima sofferenza nelle vicende che si succedono nell’annata agraria, e nella nostra montagna la vigna soffre proprio per dare le eccellenti qualità espressive dei vini, come succede all’artista. È in questo succedersi delle stagioni, tra neve, gelo, calura dei giorni d’estate e nottate fresche, che la vigna si esprime artisticamente, si rappresenta ai nostri occhi. Da questa riflessione è nata l’idea di costruire un video in cui raccontare questo modo di sentire inquadrandolo in una logica informativa, quindi rappresentando anche il territorio e la filosofia di produzione della nostra famiglia attraverso il ciclo della vite che rigenera se stessa. Il «corto» di Gelormini riconduce il vino a una visione olistica tra le sue parti aeree ed interrate, rappresentando in trenta secondi gli estremi dell’esistenza di un essere biologicamente attivo, così potente nella sua espressività.
D. Che circuito avrà il cortometraggio?
R. Innanzitutto voglio offrirlo a tutto il nostro pubblico, da qui l’idea di inserire in tutto il nostro materiale e nelle etichette delle nostre bottiglie, distribuite in 60 Paesi nel mondo, un QR-Code per consentire a chiunque di poterlo guardare dallo smartphone. Lo diffonderemo quindi nei circuiti culturali perché, a mio modo di vedere, il mondo del vino deve essere meno autoreferenziale, uscire dal proprio recinto e fare uno sforzo di autoanalisi per comprendere che le modalità di comunicazione devono andare oltre. Spesso si parla di vino e cultura, si dice che il vino è simbolo culturale, ma ci si ferma a queste dichiarazioni di principio; il mio sforzo è rompere questa resistenza che inaridisce il messaggio del vino nel nostro tempo. Se è vero, come io ritengo vivendo da dieci generazioni in una famiglia del vino, che gli uomini del vino possiedono una particolare sensibilità culturale, a loro spetta dimostrarlo in concreto, esprimendosi.
D. Quindi questo video non solo può avvantaggiare voi, ma anche tutto il mondo viticolo?
R. Sì, è un messaggio più generale, in cui il mondo del vino si apre ai suoi veri segnali culturali senza parlare solo di «naturalità» del prodotto o salubrità del territorio, aspetti da indagare in una chiave più artistica, mettendoci dentro l’uomo. Il vino è natura e società insieme, è una commistione inscindibile di elementi oggettivi dell’ambiente che vanno interpretati da parte dell’uomo.
D. In questo corto sono riconoscibili la sua campagna, i suoi territori, l’Irpinia?
R. L’Irpinia si vede e non si vede. Si vede nella grande varietà di espressione climatica, ma l’immagine di fondo di una vigna potrebbe essere localizzata in qualunque parte del mondo. A me fa piacere che sia così, perché il messaggio travalica un territorio, ha un’aura di universalità.
D. In che modo l’Irpinia impiega la comunicazione?
R. Sarebbe necessario rinnovarla giorno per giorno, perché il problema principale di queste piccole zone di produzione è che esse non hanno grandi risorse per fare attività di comunicazione, per cui ovviamente sono presenti nei canali più selezionati degli appassionati, ma non possono mai essere riconosciute da un pubblico di massa. Ciò tutto sommato a me non dispiace perché preferisco mantenere questa dimensione familiare legata al vino e lasciare al centro la sensibilità dell’individuo, senza snaturarla in una logica di comunicazione più massificata.
D. L’Irpinia però è nei vostri vini. In che modo si distingue?
R. L’Irpinia è una terra straordinaria, una terra di montagna, quindi di riservatezza, di chiusura, di climi freddi e di grande introspezione, per me un territorio di grande ispirazione anche per la mia attività artistica. È una terra completamente diversa rispetto a quello che s’immagina considerando la sua ubicazione geografica: si pensa all’Irpinia come vicina al mare, con le temperature della costa e il turismo balneare, mentre è una terra di silenzi, colline, paesaggi e verde intenso, boschi di alto fusto, montagne alte. A 30 minuti dalla mia abitazione c’è una stazione sciistica. C’è una differenza anche caratteriale rispetto alle persone che popolano la fascia costiera. L’Irpinia è una terra di scarsa densità di popolazione, fatta di piccoli villaggi in cui la qualità della vita è sicuramente più alta, ed è oggi percepita dai residenti della costa come meta per i trasferimenti in ottica residenziale. Storicamente è uno dei pochi territori della nostra viticoltura riuscito a conservare intatto il proprio patrimonio di vitigni, risalenti all’epoca greca e latina, per cui abbiamo due millenni di continuità produttiva di varietà che risalgono all’origine delle viti aminee, provenienti dalla Magna Grecia, prima della fondazione di Roma, con una presenza di viticoltura di produzione autoctona di origine latina. Con questo spettro varietale interessante ed antico, e con le ricerche compiute negli anni dalla mia famiglia, la più antica che esiste in questo territorio dal punto di vista produttivo, oggi possiamo produrre vini che sono grandi classici, vini moderni provenienti da una viticoltura antica. Questo, secondo me, è l’elemento distintivo del territorio irpino interpretato da una famiglia, pioniera nella storia del vino italiano proprio perché fin dalla seconda metà del 1800 si è organizzata per esportare i propri vini nel mondo.
D. Qual è la storia di famiglia?
R. Nel 1878 il mio bisnonno cominciò l’attività di esportazione registrando la società di famiglia all’albo degli esportatori nella Camera di commercio di Avellino, e con questa azienda esportò prima in Europa, poi nel Nord America e in America latina. Ho tanti bauli pieni di documenti che ripercorrono giorno per giorno la storia di questi imprenditori pionieri che si scrivevano tutti i giorni, e quindi ho una ricostruzione minuziosa della loro esistenza momento per momento, oltre ai bilanci aziendali e agli inventari, la testimonianza di come vivevano e di come vivessero poi in maniera non così diversa dalla mia: io trascorro tanti mesi all’anno in giro per il mondo per fare seminari di promozione dei nostri vini, e la stessa cosa facevano i miei antenati.
D. In che modo il mondo dei vini è cambiato e si è evoluto?
R. Il mondo del vino cambia costantemente pur nella sua coerenza di fondo; cambiano le impostazioni stilistiche dei prodotti perché cambiano le occasioni di consumo rispetto al vino d’anteguerra, e tali occasioni incidono sull’impostazione tecnico-stilistica; per esempio, quando negli anni 80 c’è stato l’avvento della dieta mediterranea, i vini bianchi si sono tendenzialmente alleggeriti e sono divenuti più fruttati. Il mondo del vino è cambiato molto, perché un secolo fa era appannaggio della vecchia Europa, poi nel corso degli ultimi 30-40 anni c’è stata una forte evoluzione dei vini del nuovo mondo, più vicino al vino come prodotto che non al nostro modo di sentire il vino in maniera viscerale, in una nuova logica di mercato che ha fatto sì che ci fossero investimenti rilevanti anche nella comunicazione orientata su canali più massificati. Hollywood ha cominciato a parlare di varietà e non di territorio, esercitando una pressione rispetto alla logica della vecchia Europa che invece tendeva a privilegiare le regioni e le origini dei vini.
D. Come fate innovazione?
R. Sul tema del confronto tra vecchio e nuovo mondo si innesta il confronto sull’innovazione. Abbiamo fatto un grande lavoro nel corso degli ultimi 50 anni dal punto di vista sia dello studio della viticoltura, sia del rinnovamento degli impianti viticoli e delle scelte tecniche in vigna finalizzate a ottenere maggiore qualità - riducendo la produttività per ottenere una maggiore concentrazione di caratteri -, sia dei territori più vocati all’interno di un’area di produzione, sia delle selezioni clonali. Tutte queste cose la mia famiglia ha fatto in Irpinia come altre famiglie hanno fatto in altri territori d’Italia, e il processo d’innovazione non si arresta mai, ogni anno si mettono in campo nuove iniziative e le molteplici attività di esplorazione sono il risultato di un fermento d’idee che si traduce in un fermento di opportunità di sviluppo dei piccoli territori rurali, i quali oggi si aprono anche al turismo.
D. In che modo aiutate il turismo?
R. Abbiamo fatto un consistente investimento nell’accoglienza realizzando un resort che si chiama «Radici Resort», ossatura di un programma che guarda lontano. La nostra attività non ha gittata breve ma una lunga storia dietro le spalle che si proietta in un futuro lontano, scartando i sistemi «mordi e fuggi».
D. In questa storia familiare, qual è stato il suo apporto specifico all’azienda?
R. Innanzitutto sono nato qui. Mi sono dedicato in parallelo alla cura dell’attività di famiglia e alla carriera universitaria, ed oggi sono un professore ordinario di materie economico-aziendali, con una forte inclinazione per i profili organizzativi e strategici. Ho impostato il Gruppo come una piccola holding di famiglia riorganizzandola e aprendo i nostri vertici anche ai non famigliari per dare un’impronta più manageriale pur essendo un’impresa di piccole dimensioni. Collaudare modelli organizzativi più evoluti all’interno dell’azienda ha dato maggiori prospettive di crescita e valorizzazione delle professionalità nell’organico, perché i nostri manager capiscono che non c’è un limite alla crescita professionale, ma che possono arrivare ai vertici decisionali e sedere al tavolo con la famiglia per prendere le decisioni aziendali più importanti, un’esperienza utile in un contesto imprenditoriale come quello italiano che è fatto di piccole e medie imprese di carattere familiare: se questo modello familiare vuole vincere nel tempo deve essere aperto alla crescita della cultura d’impresa.
D. Qual è la struttura familiare della vostra azienda?
R. È una società per azioni integralmente di proprietà della mia famiglia.
D. Si avverte la crisi nel settore?
R. Si avverte nel dinamismo dei consumi perché è chiaro che il vino non è né pane né acqua. La nostra clientela principale in Italia è la ristorazione, attraverso essa abbiamo sperimentato le conseguenze dei cambiamenti al livello dei consumi; ma nella sostanza il nostro lavoro ha risentito poco della crisi rispetto ad altri settori, il mondo del vino ha saputo selezionare e si è avvalso della capacità d’internazionalizzazione perché nella bilancia commerciale italiana nell’agroalimentare la voce «vino» è la prima nell’export. Ritengo che non si debba mai abbandonare il mercato domestico, la storia della mia famiglia me l’ha insegnato. È chiaro che la crisi economica s’innesta su un cambiamento più radicale dei consumi di vino, se si pensa che 30-40 anni fa in Italia avevamo un livello di consumo pro capite annuo che si aggirava intorno ai 100 litri, invece oggi siamo a meno di 40. Ecco com’è cambiata la struttura dei consumi dei nostri prodotti nel Paese. Ma nel frattempo il consumo cresce negli Stati Uniti a ritmo sostenuto, e in altre aree del mondo come l’Estremo Oriente.
D. Quali sono i Paesi in cui esportate maggiormente?
R. Usa, Germania, Giappone, Russia, Canada, Svezia, Norvegia, Regno Unito sono i Paesi più importanti, ma in questo momento ne copriamo una sessantina.
D. Quale è la posizione dei vostri vini in base al prezzo?
R. Stiamo parlando di Dogc e di prodotti di alta collina, con costi di produzione superiori alla media nazionale: è un posizionamento medio-alto, il nostro target principale è la ristorazione. Siamo molto attenti a mantenere quotazioni moderate, ma restano sempre dei vini «alti», pur non arrivando ad essere vini di lusso. Poi abbiamo le grandi annate della riserva, nostre bandiere di famiglia, come il Radici Taurasi Riserva.
D. State vinificando anche le uve provenienti dall’area archeologica di Pompei. Di cosa tratta il progetto della Villa dei Misteri?
R. Rispetto ai problemi di Pompei, pur essendo molto ambizioso esso non può essere risolutivo, ma è un grande progetto per quanto riguarda il vino nell’antichità, che nasce sulla base di un’idea di mio padre rivalutata all’inizio degli anni 90 dalla Soprintendenza archeologica di Pompei la quale, avendo problemi rilevanti di gestione degli spazi destinati al verde, aveva bisogno di un partner affidabile, storico, competente, accreditato, certificato. Nel 1996 ci affidò il recupero delle antiche tecniche di viticoltura a Pompei. In circa un ettaro all’interno degli scavi di Pompei, è stato possibile impiantare vigneti seguendo scrupolosamente le tecniche di allevamento degli antichi romani prima che il Vesuvio, con l’eruzione del 79 dopo Cristo, seppellisse la città. Da queste vigne nasce un vino, Villa dei Misteri, la cui prima annata, 2001, è stata collocata all’asta e distribuita tra appassionati nel mondo per sostenere il recupero della Villa dei Misteri, tra i più suggestivi siti di Pompei.
D. Iniziative future?
R. Dal punto di vista della sperimentazione produttiva noi non ci fermiamo mai per cui abbiamo tante iniziative in corso. Ve ne è una molto significativa, quella delle «muffe nobili», che sono due vini, un bianco e un rosso, prodotti lasciando sulle piante le uve fino al mese di dicembre e cioè fino all’attacco della muffa Botrytis che disidrata il grappolo e sviluppa dei caratteri di grande dolcezza. Poi abbiamo fatto sperimentazioni sui nostri bianchi in superaffinamento, quindi con invecchiamento più lungo. Quest’anno abbiamo il lancio di un prodotto nuovo, un Aglianico vinificato in bianco, che è un bianco derivante da uve rosse che mio padre aveva cominciato a sperimentare già nella prima metà degli anni 80 e che aveva vinificato per 4 anni, abbandonato negli anni 80, per la crescita tumultuosa dei nostri bianchi maggiori come il Fiano e il Greco. Con mio padre avevamo iniziato e rilanciato l’idea di recente, poi lui è mancato nel 2014, ed ora è in uscita la vendemmia 2013, prima esperienza che si rifà alla sua sperimentazione degli anni 80.
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