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carmelo barbagallo: la uil propone un nuovo modello contrattuale basato sul pil

Carmelo Barbagallo, Segretario generale della Uil

Il 2015? È l’anno dei contratti. O, meglio ancora, dei contratti di nuovo tipo. Ma si spera che sia anche l’anno degli investimenti rilevanti e concreti per risollevare le sorti delle famiglie italiane. Dovrà essere così. Non solo perché i contratti, e innanzitutto quelli del pubblico impiego, e non solo, sono fermi da due stagioni contrattuali, ma anche perché, senza un recupero di potere d’acquisto da parte dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, in un Paese in cui l’80 per cento delle imprese lavora per il mercato interno non può esservi né ripresa né occupazione. Le famiglie sono ferme e spesso, a tenerle in piedi, sono gli anziani, i pensionati. Ma alla fascia più debole di essi non è stato esteso neppure il bonus di 80 euro, come avevamo richiesto». Carmelo Barbagallo, una vita di impegno sindacale e oggi segretario generale della Uil, è convinto che l’Italia possa risollevarsi da questa grave, profonda e prolungata crisi. Anzi, il suo sindacato è disposto a scommettere sulla ripresa e su un prodotto interno lordo positivo, condizioni essenziali per la realizzazione del nuovo modello contrattuale che ha in testa. Ma l’ottimismo, egli spiega, non può bastare se mancano investimenti che siano in grado di restituire fiducia e capacità di spesa e di consumo a famiglie e lavoratori. Non risparmia stoccate al Governo, che attraverso il Jobs Act, con la cancellazione dell’articolo 18, «ha reso tutti i lavoratori niente altro che lavoratori di serie C». E anche per questo confida, a beneficio di una causa che è quella della salvezza del Paese, su di una ritrovata compattezza di tutto il fronte sindacale per dare una spinta costruttiva ed efficace alle regole del lavoro. Un fronte comune che, spiega, non deve servire a «protestare per partito preso, perché non serve a niente. Occorre, invece, mettere in campo idee e proposte. E noi le nostre ce le abbiamo». 
Domanda. Ridare vitalità, forza, propulsione all’economia e all’occupazione è il vero impegno di questo anno. La Uil intende dare il proprio apporto innanzitutto attraverso la proposta di un nuovo modello contrattuale. Di che cosa si tratta? 
Risposta. Si tratta di un’idea che prende le mosse da un cambio del punto di vista finora privilegiato. Fino all’ultimo contratto, l’indice di riferimento per determinare gli incrementi retributivi era l’inflazione europea depurata dal costo dell’energia petrolifera. Adesso quell’accordo è scaduto, ed anche se Draghi annuncia che vuole portare l’Europa al 2 per cento di inflazione media, non sappiamo se la nostra deflazione ancora continuerà. Abbiamo allora pensato di scommettere sulla crescita. Poiché oggi tutti sono ottimisti, insomma, anche noi vogliamo fare gli ottimisti. Nel senso che pensiamo di prendere come riferimento l’aumento del prodotto interno lordo annuale. Poiché studi e previsioni della Confindustria dicevano che quest’anno tale prodotto può crescere dell’1 per cento e l’anno prossimo del 2,5 per cento, vogliamo prendere questi dati come parametri per redistribuire la ricchezza che si crea attraverso i contratti nazionali di lavoro. 
D. Quindi il baricentro dei contratti collettivi di lavoro si sposta dall’inflazione al prodotto interno? E la Uil decide di scommettere sulla crescita? 
R. Vogliamo senz’altro scommettere sul segno più. E proponiamo un modello contrattuale che ha il contratto nazionale come cornice, dove non c’è contrattazione di secondo livello e i soldi vanno tutti sul contratto nazionale. Dove invece c’è contrattazione di secondo livello, si articola la crescita economica fra il livello nazionale e quello decentrato, territoriale o aziendale. E là si decidono gli orari di lavoro e le altre condizioni. Nello stesso tempo, proponiamo un allungamento della durata del contratto da tre a quattro anni. Nell’intermezzo dei quattro anni si realizza la contrattazione di secondo livello, evitando così l’accavallamento che si verificava prima, con il contratto a tre anni. Si tratta, oltretutto, dell’unica proposta sul tappeto. L’abbiamo offerta come elemento di riflessione alla Cgil, alla Cisl e alle nostre controparti. Solleciteremo una discussione per capire che cosa ne pensano. 
D. Definita la proposta del nuovo assetto contrattuale, è immaginabile che pensiate, come sindacato, di utilizzarla in una rinnovata stagione di contrattazione. Ritiene che vi siano le premesse e le condizioni?
 R. Ritengo che vi siano tutte le premesse e le condizioni perché il 2015 sia un anno di contrattazione, che parta dal pubblico impiego e si estenda a tutti i settori del privato, per i quali bisogna preparare le piattaforme. Un anno in cui si possa recuperare potere d’acquisto per i lavoratori e che porti soldi in più ai pensionati, che sono i primi ammortizzatori sociali del nostro Paese, perché in una famiglia - e sono tante - dove c’è un giovane in cassa integrazione, un esodato, un disoccupato, è la pensione della madre, della nonna, del padre o del nonno che ha permesso e permette di andare avanti. Ridare potere d’acquisto a questi soggetti significa, dunque, rilanciare i consumi, la domanda interna e, per questa via, dare impulso all’economia del Paese. Che è un Paese pieno di risorse e che può e deve farcela. E, a questo proposito, noto solo che, per esempio, le nostre imprese che esportano vanno benissimo. 
D. La sua iniziativa richiede quella che una volta si chiamava unità di azione. Ma negli ultimi tempi non è parso di vedere un fronte comune tra i tre sindacati. Che prospettive vede per il prossimo futuro e che tipo di risposta si aspetta alla proposta Uil? 
R. Penso che non si vada da nessuna parte protestando soltanto, né essendo passivamente acquiescenti alle posizioni altrui. Occorre invece formulare proposte per costruire e segnare un passo in avanti. Abbiamo una piattaforma unitaria sulla previdenza, volta a modificare profondamente la riforma Fornero e a risolvere definitivamente il dramma degli esodati. E su questo tema avremo tra breve un incontro con il ministro del Lavoro. Su tutte le nostre iniziative intendiamo confrontarci sempre con Cgil e Cisl. Sono del parere che bisogna farlo, come si dice in termini sportivi, fino alla «zona Cesarini», anzi fino allo spogliatoio. Ricercare l’unità possibile, avendo però sempre chiari gli obiettivi.
D. La Cgil, però, è alle prese anche con complicate vicende interne legate al caso Landini. Che cosa pensa della nuova «creatura» del leader della Fiom? È compatibile con il suo ruolo di sindacalista?
R. Le vicende tra Cgil e Fiom le lascio ai diretti interessati. Io dico solo che al suo posto sarei molto preoccupato, perché finora tutti coloro che da sindacalisti o ex sindacalisti si sono messi a ricercare un ruolo nella politica sono scomparsi dalla scena poco dopo.
D. Almeno tra lei e la Camusso c’è, però, una comune valutazione, negativa, sul Jobs Act. Perché non ritiene che il contratto a tutele crescenti possa produrre significativi miglioramenti sull’occupazione? 
R. Intanto va detto che il Jobs Act, più che dare, ha tolto. Ha tolto tutele, ha tolto l’articolo 18, ha annunciato di voler avvantaggiare i giovani perché non ci fossero più lavoratori di serie A e altri di serie B, salvo trasformare l’intera categoria dei lavoratori in una grande serie C. È difficile migliorare questa situazione, ma noi vedremo che cosa è possibile fare sul piano della contrattazione. Non vorrei, insomma, apparire troppo lapidario, ma l’unico dato che mi pare crescente è l’aver tolto tutele ai lavoratori. Anche qui preciso che noi ci auguriamo assolutamente una ripresa economica - sulla quale, come dicevo prima, intendiamo scommettere - e dunque anche una ripresa occupazionale. Solo che continuiamo ad insistere su un punto: l’occupazione non si crea per decreto e in assenza di investimenti privati e pubblici. Per decreto si può disciplinare la facilità di licenziare. Ciononostante chiediamo al Governo di prendere qualche lezione dal presidente Usa Barack Obama, il quale sta investendo mille miliardi di dollari l’anno in infrastrutture, innovazione, ricerca, cultura, tutto ciò che serve per la ripresa produttiva, mentre qui ancora siamo in attesa. L’unico che sta tentando di fare qualcosa è Mario Draghi, che sta investendo 1.100 miliardi, destinati, però, alle banche, che non vorrei ne facessero un uso improprio, mentre la destinazione giusta sarebbe quella di prestiti alle imprese e alle famiglie. 
D. Tito Boeri, neopresidente dell’Inps, ha comunque comunicato un primo dato significativo: 76 mila  imprese tra il primo e il 20 febbraio hanno richiesto il codice per l’assunzione di nuovi dipendenti. 
R. Ero presente quando Boeri ha parlato di questi dati, e ricordo che ha parlato di numeri da considerare con il beneficio d’inventario, proprio perché si trattava di numeri tutti da verificare e da confermare, anche assumendo come base l’anno precedente. Voglio anche far presente che l’anno scorso sono stati stipulati circa 130 mila contratti a tempo indeterminato al mese. Circa un milione e mezzo, su otto milioni di contratti complessivi che si rinnovano ogni anno. Venendo al dato che ha menzionato, è assolutamente da verificare quante, su quelle 76 mila imprese che probabilmente hanno richiesto il codice semplicemente per portarsi avanti con il lavoro, assumeranno davvero. Solo il tempo potrà dirlo.
 D. Solo dal 7 marzo è entrato in vigore il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act. Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti si aspetta che frutterà circa 200 mila assunzioni in più a tempo indeterminato. O no? 
R. Che dire? Certamente si spera che le cose vadano così. Significa che avremo intanto cancellato qualche partita Iva fasulla e qualche Co.co.pro che non serve. Ma intanto ci sono i voucher, che sono ancora più pericolosi per i giovani. Perché si tratta di bonus ad ore, il peggio della precarietà. Tanti giovani laureati e diplomati erano impiegati ad esempio nei McDonald’s in questo modo. E dopo quindici anni di contrattazione, i sindacati italiani, a partire dalla nostra Uiltucs, hanno ottenuto per queste figure il contratto a tempo indeterminato, con un minimo di 24 ore settimanali. Adesso si rischia di ritornare al contratto a ore. Stesso discorso per i call center. Lo sfruttamento insomma continua, e purtroppo rischia di essere legalizzato dai decreti del Jobs Act. 
D. Lei si è formato, dal punto di vista sindacale, alla Fiat di Termini Imerese. Da questo punto di vista, è un «collega» di categoria di Landini. 
R. Landini ha sempre dato l’impressione di voler formare un partito, un movimento politico, una sinistra aggregata o qualcos’altro che non saprei definire. Non ha mai fatto il sindacalista. Non ha mai voluto firmare gli accordi con la Fiat. Ora, se non vi fossimo stati noi, cioè la Uilm e la Fim Cisl, a firmare quegli accordi, la Fiat in Italia non ci sarebbe più. Quando si lamentano anche degli accordi fatti a Melfi o a Pomigliano d’Arco, io so solo come è finita con la «gestione» Fiom la Fiat di Termini Imerese. Mi fa specie questo atteggiamento, proprio perché sono uno che ha lavorato in fabbrica, che contestava i tempi, lo sfruttamento. Ma questo si può fare finché la fabbrica è aperta e dentro ci sono i lavoratori. Se non c’è la fabbrica e non ci sono i lavoratori, di quale sfruttamento parliamo? 
D. Lei si è anche distinto per alcune battaglie civili in difesa della legalità. Un impegno che viene da lontano e che si è consolidato in seguito all’assassinio di Domenico Geraci, il sindacalista della Uil ucciso dalla mafia nel 1998.
R. È una causa, quella della legalità, alla quale resto fedele con convinzione. Penso che la recente manifestazione promossa da Don Ciotti a Bologna abbia trattato un tema assolutamente caldo e attuale per l’Italia, tanto che a mio avviso il Governo avrebbe fatto bene a varare un decreto a tutele crescenti contro la corruzione, altro che il Jobs Act. Il Paese sta andando alla deriva: la corruzione ci costa 60 miliardi l’anno, da aggiungere a 130 miliardi di evasione fiscale. Altro che risolvere i problemi del debito pubblico nel tempo di crisi che attraversiamo. Stretto tra l’illegalità e il degrado morale e civile, il Sud in particolare versa in uno stato di abbandono, purtroppo non certo da oggi. Nel lontano 1982, divenuto segretario della Uil di Palermo, scrissi agli imprenditori, ai presidenti delle associazioni industriali del Nord Italia, invitandoli a venire da noi a verificare gli investimenti possibili. Ma l’unica risposta che ricevetti fu che questo non era possibile in luoghi dove a comandare erano l’illegalità, la burocrazia, la mancanza di infrastrutture, la scarsa capacità imprenditoriale. Oggi che cosa è cambiato? Il Governo ha derubricato il Mezzogiorno dalla propria agenda. Non solo. Della decontribuzione di cui si parlerà e che non è cominciata, rispetto alle nuove assunzioni a tempo indeterminato, dei 6 miliardi che dovranno, si spera, essere erogati agli imprenditori, 3 miliardi e 600 milioni sono stati tolti al Mezzogiorno, dove viene speso meno del 50 per cento delle risorse europee. Sarebbe opportuno un commissariamento ad acta delle Regioni che non spendono le risorse. È criminale avere a che fare con la criminalità, come è criminale non spendere le risorse che l’Europa ci assegna.    

Tags: Aprile 2015 lavoro sindacato Uil Carmelo Barbagallo

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