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Policlinico Umberto I, Pasquale Berloco: trapianto di organi e risorse in Italia, «si salvi chi può»

Pasquale Berloco, direttore Uoc di Chirurgia generale e trapianti d’organo del dipartimento di  Chirurgia generale e specialistica «Paride Stefanini» dell’Umberto I, al Policlinico di Roma

Il 2 dicembre 1967, a Città del Capo, muore la signora Myrtle Ann Darvall in un incidente automobilistico. La figlia Denise di 25 anni, nella stessa macchina, è destinata a seguirla a breve. Al Groote Schuur Hospital è ricoverato anche un droghiere ebreo di 54 anni, Louis Washkansky, che soffre di diabete e di un incurabile male cardiaco. Dopo aver parlato con il padre di Denise, il 3 dicembre il professore sudamericano Christiaan Barnard, assistito dal fratello Marius ed altre trenta persone, effettua il primo trapianto di cuore nella storia della medicina: 9 ore in sala chirurgica per impiantare il cuore della defunta Denise nel corpo di Washkansky. Tutto bene. Ma dopo una settimana i globuli bianchi nel sangue diminuiscono, e il 15 dicembre la diagnosi è una polmonite doppia indotta dai farmaci immunosoppressivi; tra il 16 e il 20 dicembre le condizioni si fanno gravissime e la notte del 21 dicembre 1967 Washkansky muore, diciotto giorni dopo il trapianto.
È di pochi giorni dopo il secondo trapianto ufficiale di Barnard: il 2 gennaio 1968 il cuore di Clive Haupt viene immesso nel corpo del dentista Philip Blaiberg, che sopravviverà 19 mesi, e per aver trapiantato il cuore di un nero in un bianco Barnard riceve il premio di «uomo dell’anno» dall’Unione degli Stati africani. È lui a spalancare le porte della medicina sull’etica, e della morte sulla vita. Ma prima di quel 3 dicembre 1967, Barnard ha già effettuato, fallendo, trapianti di cuore su 51 cani, riuscendo con il cinquantaduesimo, e in tutta segretezza su scimpanzè ed orangutango. Nel 2001 è morto anche Barnard, e i giornali ne hanno subito dato una notizia: stroncato da attacco di cuore. Falso: il più coraggioso cardiochirurgo mai nato, il primo ad aver compiuto un trapianto di cuore sfidando i media e le paure del mondo intero e parlando non con uno ma con due cuori in mano, è morto di asma ma la vendetta dei media è stata la barzelletta al limite de «il colmo per un cardiochirurgo». Da Beaufort West, dove nasce nel 1922, a Città del Capo, all’America allievo di Owen H. Wangesteen, dove conosce Norman Shumway, ricercatore che condusse al futuro trapianto di cuore tra uomini, a Mosca con Vladimir Demikhov, e di nuovo in Sudafrica, dove diviene il chirurgo di punta del Groote Schuur Hospital e porta a termine la prima operazione a cuore aperto eseguita in Africa; suo braccio destro diventa il fratello più giovane, Marius, e riesce ad eseguire il primo trapianto di rene in Sud Africa, nel 1959.
Il concetto di trapianto nasce intorno al 1900, grazie ai lavori di ricerca del chirurgo bernese e premio Nobel Theodor Kocher, che eseguiva l’operazione al gozzo in maniera talmente impeccabile da asportare interamente la tiroide malata senza che i pazienti morissero, pur se poi li vedeva sviluppare una sindrome descritta come «cretinismo», della quale Kocher individuò il nesso e nel 1883 trapiantò per la prima volta tessuti tiroidei. Da allora ad oggi molte cose sono cambiate, al punto da assistersi addirittura ad un traffico illegale di organi dovuto alla loro scarsa disponibilità, che non consente all’offerta di incontrare la domanda. Da un lato è plausibile che si potrà porre un rimedio a tale carenza attraverso il corretto uso delle cellule staminali, creando cellule da organi e, conseguentemente, organi da cellule. Ma il rischio è quello di un fantascientifico Dottor Stranamore, e di un sistema medico in grado di allungare la vita e, insieme, di collassare dinanzi a questioni etiche.
Intanto, «si salvi chi può». E ne parla - della storia dei trapianti e degli scontri con la comunità extrascientifica - Pasquale Berloco, direttore delle UOC (unità operative complesse) di chirurgia generale e trapianti d’organo del dipartimento di chirurgia generale e specialistica «Paride Stefanini» dell’Umberto I, nel Policlinico di Roma. Un inciso: Paride Stefanini, morto nel 1981, è il primo ad aver effettuato insieme a Cortesini un trapianto in Italia il 30 aprile del 1966, con un rene prelevato da una signora abruzzese e impiantato in una ragazza di 17 anni. Successivamente, nel secondo xenotrapianto del mondo, un rene prelevato da uno scimpanzé era innestato in un essere umano.

Domanda. Come ha intrapreso e perché la sua scelta in questo settore?

Risposta. Quando iniziarono i miei studi nella facoltà di Medicina dell’Università di Roma, fui colpito dalla notizia del primo trapianto di cuore di Barnard nel dicembre del 1967, e mi venne il desiderio di conoscerlo e di informarmi su cosa fossero i trapianti. Allora, infatti, parlare di trapianti era una cosa strana e avveniristica.

D. Prima ve ne erano stati altri?

R. Di reni il primo nel 1952, di fegato nel 1961, di pancreas nel 1964, e nessuno aveva «voglia» di fare il trapianto di cuore data la delicatezza dell’intervento: togliere un cuore ancora battente a una persona in morte cerebrale e metterlo in un’altra persona costituiva, soprattutto dal punto di vista etico, una notizia destabilizzante. Gli americani erano già pronti a farlo, ma avevano paura dell’impatto mediatico e dei problemi che avrebbe sollevato. Fu proprio Barnard ad avere il coraggio di farlo per primo, quindi un personaggio molto particolare, interessante dal punto di vista medico, coraggioso. Ebbi l’occasione di conoscerlo in quanto, dopo il primo trapianto di cuore che fece, fu invitato a Roma dal professor Paride Stefanini che nel 1966 aveva eseguito il primo trapianto di rene in Italia, personaggio che, insieme al collega Raffaello Cortesini, più s’interessava in maniera particolare dei trapianti in Italia. Io ero ancora uno studente quando andai ad ascoltare la conferenza di Barnard, e il desiderio e l’impressione che avevo avuto da questa notizia mi spinsero poi dopo, per tutti gli anni degli studi in medicina, a interessarmi sempre più di trapianti, per cui venni a frequentare come studente l’istituto di Stefanini nella Seconda clinica chirurgica al Policlinico della Sapienza di Roma. A lui avevo chiesto di farmi fare l’internato, e mi indirizzò appunto da Cortesini. Frequentai il suo reparto, quindi mi laureai con lui nel 1973 con una tesi - a quell’epoca quasi fantascientifica - sul cuore artificiale, dopo la quale vinsi una borsa di studio alla Columbia University di New York, dove era presente un laboratorio sperimentale di chirurgia cardiaca che eseguiva i primi esperimenti sugli animali con cuore artificiale. Alla fine di quel periodo negli Stati Uniti mi iscrissi alla specializzazione di Chirurgia, interessandomi in modo particolare alle ricerche sperimentali sul cuore artificiale. Dal punto di vista clinico cominciai a interessarmi dei trapianti di rene sotto l’incarico del professor Cortesini; ciò accadeva dal ‘73 al ‘78 e anche questo in Italia era ancora ad un livello primordiale. Specializzatomi, vinsi una borsa di studio del Ministero degli Esteri per svolgere l’attività in un centro da me scelto; potevo optare per la California, San Francisco, ma scelsi Barnard, amico di Cortesini, perché mi affascinava, e andai in un centro dove compivano trapianti di cuore.

D. Quindi ha lavorato con Barnard?

R. Era una mia promessa giovanile, volevo conoscere quest’uomo e alla fine ho avuto l’opportunità di farlo. Rimasi in Sudafrica 2 anni, mi specializzai in cardiochirurgia e in chirurgia generale, ho lavorato con Barnard per 2 anni in cardiochirurgia sui trapianti di cuore. Il mio primo trapianto di cuore da solo lo feci nel 1980, con Barnard che mi aiutava, e quando tornai a casa l’Italia non aveva ancora l’autorizzazione per poter fare i trapianti di cuore, il Ministero non dava questo permesso, per cui, vedendo quello che avevo fatto e consapevole che i miei studi non avevano allora uno sfogo clinico per poter lavorare, mi indirizzai, con Cortesini, verso un trapianto che ancora non si faceva in Italia ma che probabilmente avrebbe avuto una possibilità di sviluppo clinico più immediato: il trapianto di fegato. Nel 1982 andai negli Stati Uniti, a Pittsburgh, dove lavorai in maniera non continuativa ma frequentando il reparto della struttura di Pittsburgh per almeno 3 anni, e con Cortesini facemmo il primo trapianto in Italia nel 1983. Finalmente avemmo un’eccezionale possibilità di effettuare un trapianto di cuore, tramite un’autorizzazione «politica», se così si può dire: fu fatto a Padova quando l’allora ministro della Sanità Costante Degan, di origine padovana, dette il beneplacito; ma dopo qualche mese anche Roma, con il professore Benedetto Marino, ottenne il permesso per farlo. Nel frattempo però i miei interessi anche clinici e assistenziali erano rivolti al trapianto di fegato, pur partecipando con il gruppo di Roma all’attività trapiantologica del cuore della quale in prima persona Marino aveva il benestare da cardiochirurgo; ma, avendo dovuto trascurare questo aspetto della cardiochirurgia e del trapianto di cuore per varie ragioni, ci siamo sviluppati nei trapianti di fegato, pancreas, polmone, intestino e reni.

D. Quali sono i trapianti più richiesti?

R. Dal punto di vista clinico il più esteso come attività e il più importante per la richiesta è il trapianto di rene: nel mondo oggi si eseguono circa 150 mila trapianti l’anno, di cui il 60 per cento sono di rene; quindi in totale oltre 100 mila trapianti l’anno sono eseguiti per patologie al rene.

D. Per malati oncologici è possibile eseguire un trapianto di rene?

R. Se c’è un tumore, non si fa trapianto, il quale è possibile solo almeno dopo 5 anni di osservazione senza che vi sia stata recidiva o rischio di metastasi: pur se un tumore è considerato in maniera molto ideale perché è una malattia neoplastica e dunque non finisce mai, dobbiamo comunque darci dei termini «umani», e se dopo 5 anni non presenta recidiva di metastasi consideriamo fattibile il trapianto perché in gergo si dice che la malattia è «spenta».

D. Nel campo della ricerca scientifica come stanno andando avanti i trapianti? Cos’è cambiato e quali sono le differenze rispetto a prima?

R. Innanzitutto la chirurgia dei trapianti è stata una pietra epocale nella storia della medicina, perché si sono aperte delle strade con ricerche impensabili fino a 50 anni fa. La teoria dei trapianti è iniziata nel 1950 circa, e la chirurgia dei trapianti ha apportato moltissimo alla medicina perché non è soltanto chirurgia, ma è ricerca dal punto di vista immunologico, infettivologico, radiologico. Tutti i principali campi di ricerca hanno avuto un beneficio dalla trapiantologia, è stata questa stessa branca a far girare pagina alla storia della chirurgia. Così siamo entrati in un mondo nuovo: i non addetti ai lavori non si rendono conto di quello che è avvenuto in questi 50 anni grazie alla chirurgia dei trapianti. Ciò che abbiamo avuto in ambito assistenziale, clinico e di ricerca è stato immenso, ecco perché me ne innamorai. Ho vissuto nei 42 anni della mia attività lo sviluppo di questa chirurgia, uno sviluppo che è affascinante proprio perché sempre proiettato al futuro; il supporto che ha dato la trapiantologia anche alla chirurgia oncologica è stato enorme, perché oggi noi riusciamo a fare delle attività chirurgiche prima impensabili.

D. Questo vuol dire che in un malato di tumore al fegato si può effettuare un trapianto se non ha metastasi?

R. Innanzitutto si può operare, quindi si può anche trapiantare.

D. Sempre dopo i 5 anni?

R. No: il tumore al fegato ha una caratteristica ben diversa perché spesso si verifica su pazienti che hanno una cirrosi, quindi una malattia primaria che si risolve solo con un trapianto, usando particolari metodiche di accertamento, studio e controllo.

D. Quali sono le difficoltà che ancora oggi s’incontrano nei trapianti?

R. Innanzitutto dobbiamo dire che ora, grazie all’attività di ricerca che è stata espletata in questi ultimi anni, dal punto di vista tecnico la chirurgia non ha problemi, le nuove tecniche chirurgiche e i nuovi supporti ci consentono di fare una chirurgia che fino a 15-20 anni fa era impensabile, il problema tecnico non è nell’esecuzione. 20 anni fa i primi trapianti di fegato duravano 8-10 ore, oggi 4: questo vuol dire che la curva di apprendimento ci ha portato a ridurre i tempi. Il nodo cruciale che oggi viviamo è quello della carenza degli organi da trapiantare, ma i risultati giustificano queste attività cliniche che 50 anni fa erano considerate sperimentali, tali da poter dire che non è più sperimentazione ma è una chirurgia codificata che ci porta ad esiti più che accettabili. Un paziente che si sottopone a un trapianto di fegato ha una sopravvivenza, a un anno, dell’80 per cento, a 5 anni del 70 per cento, a 10 anni del 60 per cento. È tantissimo.

D. Quanto aiutano le nuove tecnologie in questi interventi e quanto è importante la mano del chirurgo che opera?

R. La chirurgia dei trapianti è come la Formula 1, ci vuole una buona macchina, una buona organizzazione dietro, un buon motore e un buon pilota; il pilota da solo non vince il Gran Premio.

D. Qual è il rapporto tra la domanda e l’offerta?

R. Il trapianto è diventato un atto terapeutico valido con risultati accettabili, il numero di pazienti che necessitano o che possono fare un trapianto è aumentato. In Italia abbiamo 11 mila malati in lista di attesa, 8 mila sono malati di rene, 2 mila sono malati di fegato, 500 sono malati di cuore, 200 sono malati di polmoni, 500 sono diabetici, quindi abbiamo tutte le categorie. Oggi in Italia sono eseguiti circa 3 mila trapianti l’anno, quindi abbiamo una differenza tra la domanda e l’offerta notevole, ed ogni anno la richiesta aumenta perché si aggiunge a quello che non è stato fatto ma soprattutto perché l’età aumenta insieme all’aspettativa di vita, fino a 20 anni fa un trapianto veniva eseguito al massimo su una persona di 55 anni, oggi facciamo trapianti di fegato fino a 65 anni, di rene fino a 75 anni.

D. Fino a che età si può donare?

R. Anche in questo c’è stata una notevole evoluzione: si è visto che il trapianto da vivente è un qualche cosa che incrementa l’attività trapiantologica proprio perché il donatore, donando, non ha problemi.

D. E per donare il fegato come si fa? Se ne asporta una parte?

R. Esatto, una parte o una metà, anche perché per vivere è sufficiente un terzo del nostro fegato. Quindi la richiesta aumenta negli anni per vari motivi, prima di tutto perché aumenta la possibilità di fare un trapianto, le tecniche ci consentono di trattare pazienti che fino a qualche anno fa non avremmo mai trapiantato, parlo ad esempio delle tecniche di anestesia e di rianimazione che ci aiutano nel nostro lavoro. La richiesta aumenta nei Paesi sviluppati dal punto di vista organizzativo e tecnico, ma anche con una codificazione legislativa validata, però questa necessità è anche presente in Paesi dove non esiste una legislazione chiara e dove l’attività assistenziale è di difficile attuazione. Mantenere in dialisi un paziente in India non è facile come in Europa, un paziente in dialisi costa 50 mila euro l’anno, in questi Paesi si preferisce fare il trapianto proprio per necessità economiche piuttosto che tenere il malato in dialisi, e ciò ha stimolato il trapianto da vivente.

D. A livello tecnico è migliore un trapianto da vivente o un trapianto da un deceduto? Quale è più sicuro?

R. La sicurezza c’è per tutti e due i trapianti, sicuramente se uso un organo da donatore vivente e sano i risultati saranno migliori rispetto a quelli di un donatore che ha subito il trauma della morte. Un trapianto da vivente diventa un «trapianto programmato», dove il donatore è studiato bene perché altrimenti non potrebbe donare, e quindi i risultati sono decisamente migliori: ecco perché oggi si spinge molto nell’eseguire i trapianti da vivente.

D. E quali sono questi organi?

R. Reni in primis, perché ne abbiamo due, fegato, pancreas, polmone e intestino.

D. E oggi ci sono più trapianti da vivente o da cadavere?

R. Da cadavere; però in Paesi quali gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e i Paesi del Nord Europa il trapianto da vivente è circa il 50 per cento dell’attività trapiantologica.

D. Per quanto riguarda i trapianti in cui il donatore è in uno stato di coma?

R. Il coma passa per vari livelli fino al sesto, il più grave. Per i trapianti noi utilizziamo pazienti in coma irreversibile, che è l’ultimo stadio. Il coma che viene trattato per il trapianto è determinato da assenza di attività elettrica cerebrale, il che vuol dire che la cellula cerebrale è morta, per cui abbiamo un tracciato piatto; invece le cellule del fegato sono vive perché il paziente viene mantenuto non in vita, ma in assistenza mediante un sistema di ossigenazione artificiale. Morte cerebrale significa che il cervello non funziona e non funzionerà mai più ma che il cuore batte ancora: abbiamo i mezzi per assistere oggi un paziente con morte cerebrale e prenderne gli organi, poiché il cuore è battente quando la morte cardiaca non si è ancora verificata.

D. Che cosa auspica per il futuro nel campo dei trapianti?

R. I trapianti sono una fase di passaggio della scienza medica, ma non costituiscono la soluzione del problema di ricambio degli organi. Ci sono delle ricerche evolutive che porteranno, più che agli organi artificiali, agli organi biologici, ossia ricostruiti con tecniche di biologia e di bioingegneria molecolare. Si parla tanto di cellule staminali, ma senza sapere. Esse fanno una parte dell’evoluzione futura. Oggi noi stiamo lavorando per ripercorrere in laboratorio quello che madre natura ha fatto su di noi, cioè partendo da alcune cellule indirizzarle verso lo sviluppo di organi particolari: quindi una cellula embrionale, capace di dare origine a qualsiasi organo, viene indirizzata a produrre altre cellule. Le ricerche sono volte alla realizzazione in laboratorio della riproduzione di cellule umane e della loro crescita a partire da due cellule o da una parte di un organo dando poi origine a un organo nuovo. Un domani da queste cellule potremmo avere un rene o un fegato e creare una «banca» di organi per i trapianti.

D. Il fatto di poter ricostruire biologicamente degli organi, a livello etico, a voi scienziati non crea problemi?

R. No, l’uomo per vivere ha bisogno di certi supporti, farmaci, tecnologie che aiutano a vivere. Realizzo un cuore artificiale e lo metto al posto di un cuore malato, un rene artificiale da inserire sottopelle grande come un pacchetto di sigarette: oggi si sta lavorando su questo, sulla miniaturizzazione degli organi. Già abbiamo microinfusori sottocutanei per l’insulina che regolano il diabete. Per questo dico che il trapianto oggi è in una fase di passaggio, perché un domani noi trapianteremo cellule singole come già facciamo quando trattiamo i pazienti con cirrosi iniettando nel loro fegato malato cellule epatiche nuove umane che vanno a ripopolarlo.

D. Per quanto riguarda il problema economico invece?

R. Conviene fare un trapianto e non una dialisi, come già detto prima, e non parliamo solo di reni ma di tutti gli organi. Un malato in dialisi costa 50 mila euro l’anno, in Italia ne abbiamo 40 mila, la spesa è enorme; un trapianto invece costa 35-40 mila euro il primo anno per pagare l’intervento, la ricerca, gli studi, i clinici, considerato che i trapianti in Italia si possono fare solo nelle strutture pubbliche. Il secondo anno quel paziente costa 5 mila euro, il terzo anno costa come una persona normale, senza dimenticare che il paziente che fa il trapianto torna alla propria attività lavorativa, mentre per il malato in dialisi è alterato tutto l’equilibrio familiare. Un paziente che è malato di fegato in uno stato di malattia terminale passa il 50-60 per cento della vita in ospedale perché a casa non può essere curato, quindi ha un costo notevole; un cardiopatico in terapia intensiva costa 2.500 euro al giorno, ed ecco perché fare un trapianto da un punto di vista economico è meglio. Ma questo non è l’aspetto condizionante, ciò che è condizionante è la qualità di vita che do al malato, perché trapianto significa ritorno alla vita. Oggi si fanno addirittura le Olimpiadi dei Trapiantati: pazienti che corrono, saltano, nuotano.

D. La percentuale dei trapianti non riusciti è alta?

R. In questi ultimi anni anche la sopravvivenza è cambiata, ricordo che quando ho iniziato questa attività uno su due andava male, oggi il rapporto è invece di uno su cento, non si muore più di rigetto, la maggior parte dei casi dei pazienti trapiantati che muoiono oggi muoiono o per problemi infettivi o cardiologici. Siccome trapiantiamo pazienti sempre più gravi e più anziani, è plausibile che questi problemi possano manifestarsi anche per questioni di età: una persona anziana ha meno difese per proteggersi dalle infezioni.

D. In futuro sarà possibile eseguire un trapianto di cervello?

R. Stanno studiando anche questo.

D. E la ritiene una cosa fattibile?

R. Tecnicamente sì, ma rimane il problema etico: ho trapiantato la testa oppure ho trapiantato il corpo?

D. Cos’è che manca nelle strutture italiane per poter migliorare?

R. La trapiantologia italiana è al primo posto in Europa, i risultati che abbiamo noi non li ha nessuno, anche a livello organizzativo. Certo, la trapiantologia è il fiore all’occhiello della medicina italiana e non solo, ma se noi avessimo un maggiore supporto economico per la ricerca potremmo fare molto di più: questo è il nostro problema principale non tanto per me, quanto per i nostri giovani, perché quando un ragazzo che si specializza con me viene a dirmi: «Caro professore, io qui in Italia non ho futuro», è grave, la più grande sconfitta dal punto di vista medico e di insegnamento. È come un figlio che dice: «Papà, io me ne vado di casa perché non c’è più da mangiare». Se dopo 10 anni di insegnamento i ragazzi mi dicono questo, per me è una sconfitta come docente, come padre, come tutto. Investiamo quanto la Tunisia per lo studio e la ricerca, abbiamo potenzialità, abbiamo una rete trapiantologica unica in Europa per sicurezza, garanzia e trasparenza, ma ci manca questo supporto.   

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