Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

  • Home
  • Interviste
  • Michele Valensise: l’Italia protagonista in Europa e nel Mediterraneo

Michele Valensise: l’Italia protagonista in Europa e nel Mediterraneo

L’Ambasciatore Michele Valensise, segretario generale del Ministero degli Affari Esteri

Mai siamo stati, negli ultimi anni, tanto vicini ad una guerra mondiale. Ora, che si dica «guerra mondiale» quel conflitto coinvolgente «tutto il mondo», è certo; ma che una guerra mondiale versione secondo millennio potrebbe durare anche solo un minuto, il tempo di applicare un mezzo distruttivo a impatto totale da parte di qualunque Stato che lo detenga, questo rende più difficile la definizione.
Perché, a tutti gli effetti, «siamo» in guerra, e a tutti gli effetti essa è mondiale, giacché coinvolge, in potenza e in atto, direttamente o indirettamente, Paesi di tutto il mondo. Per tanti motivi questa guerra è mondiale.
Innanzitutto il fatto che l’integrazione fra popoli cui oggi la globalizzazione tende implica concetti solidaristici più forti di un tempo, quando poco si sapeva di Stati più distanti, quando poco i singoli potevano fare e quando l’economia mondiale aveva due grandi poli ideali - Usa e Russia - cui aggregarsi in vista di un ideale più o meno capitalistico. Ergo: dalla solidarietà si passa al coinvolgimento.
Così, se uno Stato si trova implicato in vicende anche interne di forte quando non tragica complessità, ecco che tutti gli altri «devono» (ma era «vogliono» fin quando non sono stati firmati trattati) intervenire.
Il fatto anche che vi sia una società di parlanti, nel senso che chiacchierano molto (e solo) impiegando l’arma «social network» (di certo non meno dannosa di altre), rende il tutto più aggressivo e rovinoso: così, da un crocefisso in una scuola, da un burka per la strada, si passa a pericolosi fenomeni di contro-integrazione prima, disintegrazione poi, che trovano una lunga, famigerata coda prima nella gente di strada, poi nella politica.
Se si definisse già mondiale, e terza, la guerra che gli Stati stanno conducendo da tempo, quella che ha visto, come tappe della sua evoluzione, anche (ma affatto unicamente e affatto inizialmente) le vicende francesi di Charlie Hebdo e Bataclan, potremmo dire: sì, siamo in guerra.
Ma non è così, o non è di tale lucidità definitoria la condizione di odio-amore in cui i Paesi versano: non sono episodi di vendetta, conquista, repulsione, fondamentalismo, quelli che muovono i terroristi all’autoesplosione e gli occidentali alla reazione esplosiva; né sono episodi di amore, integrazione, supporto, aiuto, quelli che muovono i più orientali verso i più occidentali e l’Europa all’accoglimento dei primi.
 Si tratta, semplicemente, di mosse tattiche, disperate, sempre economiche, di cui non è dato sapere nulla, se non in superficie. L’Italia è, da sempre, tra i principali Paesi alleati dell’Occidente e del crocefisso (per usare una metafora veloce) senza però aver mai disdegnato (salvo partizioni politiche) la solidarietà: ma consapevole, molto consapevole che, come non è in grado di dare nulla agli italiani, ancor meno può fare per l’immigrazione clandestina che trova nello stivale meta e calcio.
È difficile entrare nel merito del discorso politico estero degli attuali governanti capitanati da Renzi, che oggi si trovano a dover affrontare non solo una crisi globale, ma anche personale, crisi che li vede coinvolti in decisioni difficili quando non obiezioni di coscienza. Sulla Farnesina convogliano anche questi inconsci.
Il segretario generale del Ministero degli Affari esteri, Michele Valensise, nato a Polistena (RC) il 3 aprile 1952, descrive su Specchio Economico alcune delle situazioni che, sotto la guida del ministro Paolo Gentiloni, l’Italia deve gestire. La sua lunga esperienza gli consente una visione ad amplio spettro: Valensise è stato alla Direzione generale degli Affari economici del Ministero per seguire l’attività degli organismi multilaterali, quindi nel 1978 nell’Ambasciata d’Italia a Brasilia con funzioni nel settore stampa ed economico; nel 1981 è trasferito all’Ambasciata d’Italia a Bonn, dove presta servizio alla cancelleria politica con competenze sulle questioni di politica interna e di cooperazione politica europea.
Dal 1984 al 1987, durante la guerra civile libanese, è consigliere all’Ambasciata d’Italia a Beirut, con funzioni vicarie del capo missione e, rientrato a Roma, dal 1987 al 1991 è capo della Segreteria del Sottosegretario agli Esteri.
Dal 1991 al 1997, come primo consigliere alla Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione Europea a Bruxelles, è responsabile del settore delle relazioni della Comunità con i Paesi dell’area mediterranea e balcanica. Assicura inoltre la presidenza dei gruppi di lavoro nel corso della presidenza italiana dell’Unione Europea nel 1996.
All’inizio del 1997 è trasferito a Sarajevo in qualità di Ambasciatore d’Italia in Bosnia Erzegovina, all’indomani dell’apertura dell’Ambasciata, subito dopo la cessazione delle ostilità e il dispiegamento in Bosnia Erzegovina della Forza militare di stabilizzazione e, in questo ambito, del contingente italiano.
Di nuovo a Roma nel 1999 è responsabile, al Gabinetto del Ministro, dell’Ufficio per i rapporti con il Parlamento e poi capo di Gabinetto del Ministro degli Affari Esteri; dal 2001 al 2004 ricopre l’incarico di capo del servizio stampa e informazione del Ministero e di portavoce del Ministro degli Esteri.
Dal 2004 al 2009 è Ambasciatore d’Italia in Brasile. Nella primavera del 2009 è nominato Ambasciatore d’Italia a Berlino. È segretario generale degli Affari esteri dal 9 luglio 2012.
Domanda. L’Italia è protagonista attenta della crisi libica, con una giusta valutazione degli equilibri internazionali. In che modo prende parte a tale delicata situazione?
Risposta. Certamente l’Italia ha seguito in primissima fila gli sviluppi della crisi libica da mesi, essendo questa una priorità della politica estera italiana. L’impegno recente che ci ha visto protagonisti è stata la riunione promossa il 13 dicembre tra i rappresentanti delle parti libiche e di un gruppo di Paesi tra cui Stati Uniti e Russia, venuti a Roma proprio per sostenere il laborioso processo di composizione politica della crisi libica. Non è un caso che quattro giorni dopo quella riunione si sia proceduto finalmente alla firma dell’accordo per la formazione di un Governo di accordo nazionale tra le fazioni libiche, in lotta tra loro da troppo tempo ormai. Da metà dicembre si è aperta quindi una fase nuova, anche se ancora di esito incerto, una fase consistente nella definizione, in base agli accordi raggiunti e sottoscritti dai libici, di un Governo di accordo libico.
D. Siamo candidati autorevoli a gestire una missione complessa in Libia?
R. Anche in questa fase l’Italia sta svolgendo un ruolo importante da un lato nel supporto al negoziato ancora in corso, dall’altro nell’impegno a contribuire alla stabilizzazione della Libia quando ve ne saranno le condizioni.
D. Oltre gli aspetti diplomatici come si pensa di garantire, nei fatti, la sicurezza del futuro Governo libico di unità nazionale e gli interessi italiani ed europei?
R. Potremmo intervenire anche per favorire un quadro di maggiore sicurezza. Per farlo l’Italia ha sempre detto che occorrono due presupposti fondamentali: il primo è che vi sia una risoluzione e una legittimazione delle Nazioni Unite; il secondo è che ci sia una richiesta da parte del Governo libico. Fino a quando quest’ultimo non sarà insediato, tale richiesta non potrà sopravvenire e questa è la ragione per la quale noi, insieme ai nostri alleati, speriamo e lavoriamo molto affinché il Governo possa formarsi con tutti i crismi e possa, se lo riterrà, formulare questa richiesta di collaborazione.
D. Lo scacchiere siriano è già molto affollato di protagonisti, alcuni anche ingombranti. Quale il ruolo dell’Italia?
R. Un ruolo impegnativo. Abbiamo sostenuto, d’intesa con i nostri alleati europei e occidentali, la necessità di perseguire una soluzione politica della crisi in Siria che si trascina ormai da 5 anni; è cominciata nella primavera del 2011 e si è incancrenita con un numero elevatissimo di vittime, di feriti, di sfollati e di rifugiati che sono arrivati in gran parte in Europa e nel nostro Paese.  A 5 anni dall’inizio della crisi dovrebbe essere chiaro che l’opzione puramente militare è una falsa opzione. Bisogna lavorare per una soluzione politica della crisi. Per farlo occorre una cornice. Questa cornice c’è ed è data dall’iniziativa delle Nazioni Unite con il loro mediatore Staffan de Mistura e con una serie di Paesi impegnati a favorire il negoziato che dovrebbe avviarsi, tra chi detiene in questo momento il potere, ossia le istituzioni dell’attuale Governo siriano, e una rappresentanza adeguata dell’opposizione al presidente Bashar al-Assad. Il rispetto delle scadenze previste dovrà portare nei prossimi 18 mesi il Paese ad elezioni e alla formazione di un Governo più rappresentativo, oltre che naturalmente ad un cessate il fuoco, cosa essenziale. Quindi, anche qui siamo in primissima linea, un piano di incoraggiamento e di stimolo al negoziato politico che deve essere alla base della soluzione di questa lunghissima e tragica crisi.
D. Come pensate di muovervi affinché la crisi finisca prima?
R. Ci vuole tenacia, perseveranza e realismo, perché bisogna fare i conti con le forze sul terreno. In questo quadro la via scelta dalla comunità internazionale è quella di incoraggiare un incontro diplomatico che sostituisca lo scontro militare. In Siria non ci può essere una parte che vince completamente e una parte che soccombe completamente. Stiamo cercando di favorire, anche attraverso interventi sull’opposizione siriana, un processo di composizione politica.
D. L’Europa è attraversata da grandi fermenti. Le scorie di una lunghissima e non ancora conclusa crisi economica  sembrano mettere a repentaglio alcuni cardini politici dell’Unione Europea. Come si è arrivati a questa situazione?
R. Veniamo da anni di grande difficoltà, siamo stati attraversati da una crisi finanziaria, economica e sociale senza precedenti. La sua origine è profonda e risale ormai al 2008-2009, l’abbiamo inizialmente importata dagli Usa. La crisi ha indebolito il nostro continente e ha determinato una mancanza di fiducia nei confronti dell’Europa e tra gli stessi europei. Ciò ha reso più difficile e più accidentato il cammino comune dei membri dell’Unione. Sfiducia tra europei, crescita di movimenti di contestazioni in alcuni Paesi, euroscetticismo che attrae malcontento coagulando un’insoddisfazione diffusa. Ora però siamo in una situazione migliore.
D. Grazie al presidente del Consiglio Matteo Renzi si è verificato questo leggero miglioramento?
R. Grazie all’opera del Governo italiano e grazie a una congiuntura europea. Ci sono segni di ripresa che vanno consolidati, in tal modo spero che saremo anche in grado di consolidare il lavoro in Europa. Da quando è stata fondata, l’Unione Europea è stata un permanente cantiere di adattamenti progressivi: nata con 6 membri, poi è diventata un’Europa a 9, poi a 12, poi a 15, un cantiere che non finisce mai il proprio lavoro, un cantiere permanente che oggi deve essere riaperto per riportare in auge il progetto di integrazione europea. Questo deve essere anche spiegato meglio ai cittadini dell’Unione perché intendano che l’Europa è una grande fonte di opportunità. L’Europa è un contenitore di diversità, dalle quali arriva la nostra stessa forza, e che possono comunque avere punti in comune, tra i quali la politica estera. Se l’idea di Europa resta quella di un controllore fiscale e di spese non dobbiamo stupirci se il cittadino medio si disaffeziona.
D. Il Governo sembra aver avviato un confronto critico sulla gestione di questioni strategiche: è un cambio di filosofia o una moderna dialettica negoziale?
R. È fisiologico essere più esigenti nei confronti dell’Europa. Questo volere di più significa essere più coscienti dell’importanza del progetto europeo e del contributo che un Paese come l’Italia può dare alla sua costruzione. È un modo per dire che l’Europa è importante, che ci piace, ma dev’essere un’Europa che ci avvicina, non un’Europa distante, incomprensibile o matrigna, là solo per sanzionare.
D. Ma fino ad oggi è stata sempre quell’Europa negativa di cui si dice, e percepita come oppressiva.
R. In parte lo è stata, in parte vi è stata la percezione che ciò avvenisse in tale modo. Speriamo di aprire una fase nuova.
D. L’economia è sempre più cruciale per stabilizzare gli assetti geo-politici. Quali sono i nostri partner più importanti? L’Atlantico è più lontano rispetto al passato o lo sarà con il futuro presidente degli Stati Uniti?
R. L’Italia è tra i sei Paesi che quasi sessant’anni fa sottoscrissero i trattati di Roma che diedero vita alla comunità economica europea. Fu un momento fondante dell’identità del nostro Paese, abbiamo forti radici europee, innanzitutto geografiche, e una vocazione naturalmente europea. I primi nostri partner, anche da un punto di vista commerciale ed economico, sono i nostri vicini europei. Stiamo perseguendo da decenni due linee parallele e complementari:  quella della collaborazione all’interno dell’Europa e quella della forte collaborazione transatlantica con gli Usa, nostro primo alleato tra i Paesi non europei. Su queste due direttrici, europeismo-atlantismo, si è svolta la nostra vita. Esse hanno assicurato pace, progresso, sicurezza, crescita.
D. Bisogna aggiornare qualcosa in questo rapporto?
R. Le direttrici fondamentali di  una politica  che guarda all’Europa e agli Stati Uniti sono punti fermi che non devono essere messi in discussione. Ma aggiorniamole tenendo conto dell’evoluzione degli Stati Uniti: già proiettati per decenni verso  l’Europa, oggi guardano con crescente interesse al Pacifico, alla Cina, ai nuovi emergenti come l’India, a un alleato storico come il Giappone.
D. Da una parte gli Stati Uniti, dall’altra la Russia. Cosa dice di quest’altro gigante della storia mondiale, che oggi si è riproposto in maniera forte?
R. L’Italia ha avuto storicamente un rapporto di collaborazione e amicizia con la Russia anche al tempo della cortina di ferro. In questa fase i rapporti con la Russia sono stati obiettivamente raffreddati da tensioni, errori e dall’imposizione di sanzioni alla Russia. La posizione dell’Italia è chiara, siamo stati pronti a rispettare e ad adempiere quanto è stato deciso tra gli alleati nei confronti della Russia. L’abbiamo fatto anche se siamo tra i Paesi per i quali le sanzioni sono più onerose. Abbiamo molte imprese che hanno sofferto l’imposizione delle sanzioni, vista l’impossibilità di esportare i loro prodotti verso il mercato russo. Siamo stati disciplinati, ma nello stesso tempo abbiamo sostenuto che in prospettiva avremmo dovuto trovare un canale di comunicazione per riportare la Russia nel gruppo dei Paesi europei. Quindi, rispetto delle sanzioni, stare a quanto si è deciso, però anche cercare di stabilire un canale di dialogo con un Paese che per le sue caratteristiche resta centrale e nevralgico per noi.
D. La Russia è energia per l’Italia?
R. Si era discusso della possibilità di un collegamento che avrebbe portato il gas dal sud della Russia, progetto poi accantonato. Non c’è dubbio che ogni ipotesi di rafforzamento della collaborazione energetica con la Russia è importante: siamo un Paese consumatore-importatore di energia, la Russia è un Paese esportatore di gas e di petrolio, c’è una convergenza naturale. La nostra ricetta è semplice, anche perché siamo un Paese che non ha fonti energetiche sufficienti, ed è necessariamente quella della diversificazione: non possiamo essere dipendenti da un fornitore di energia, la buona politica è quella di diversificare le fonti energetiche.
D. Quali sono le punte di lancia della politica ambientale italiana?
R. Abbiamo valutato con molto favore la conclusione della conferenza di Parigi sull’ambiente perché per una volta i Paesi della conferenza hanno mostrato un consenso unanime, sottoscrivendo impegni concreti. In passato ci sono state recriminazioni su chi fosse più inquinante. I Paesi meno sviluppati segnalavano di non essere in grado di adottare misure di contenimento dell’inquinamento senza pregiudicare la loro capacità produttiva. Si è assistito a una serie di veti incrociati. Ora sono stati assunti impegni precisi e consensuali: l’emergenza è stata riconosciuta a livello globale e tutti sanno di dover fare la loro parte.
D. E l’Italia come si muove?
R. Con un deciso orientamento a favore delle energie rinnovabili: stiamo eliminando progressivamente le forme di energia più inquinanti in favore di energia pulita. Sono scelte responsabili e siamo molto avanti nella classifica dei Paesi virtuosi; il 38 per cento della nostra potenza elettrica installata viene da fonti rinnovabili ed è una buona quota.
D. Riusciremo a portare fuori dall’India i marò, magari in un Paese terzo, sino alla conclusione dell’arbitrato?
R. Il Governo e il Parlamento ci lavorano ogni giorno. Un arbitrato internazionale è stato avviato per stabilire che la titolarità di giudicare i fatti addebitati ai marò italiani non è dell’India ma dell’Italia. Abbiamo sempre sostenuto che la giurisdizione spettasse all’Italia. Ora siamo in una fase delicata, di avvio di un arbitrato internazionale secondo le regole delle Nazioni Unite e in questo quadro facciamo valere con grande determinazione tutti gli argomenti ed elementi a nostro favore. È un caso durato troppo tempo, siamo i primi a soffrire con i nostri militari fino a quando vicenda la non sarà conclusa. C’è un impegno grande, sentito, quotidiano.
D. Sull’emergenza immigrazione?
R. Dovremo convivere per molto tempo con la vicenda dell’immigrazione e degli afflussi verso l’Europa: non è un’emergenza, ma un fatto che caratterizzerà anche i prossimi anni. Il Ministro Gentiloni ha ricordato che nel 2015 abbiamo avuto un milione di migranti in Europa, e nello stesso periodo in tutto il mondo c’è stato un movimento di 60 milioni di migranti. È naturale preoccuparsi dell’impatto degli arrivi in Europa, senza perdere di vista il dato globale. E dobbiamo soprattutto considerare che questa non è un’emergenza risolvibile con la bacchetta magica, bensì un fatto strutturale con il quale dovremo essere in grado di vivere e di progredire nei prossimi anni.
D. E allora cosa bisogna fare?
R. Bisogna concordare e definire un sistema adeguato con cui gestire gli arrivi, ordinatamente e secondo regole che tranquillizzino la popolazione e non chiudano le nostre porte a chi ha diritto all’accoglienza.      

Tags: Febbraio 2016

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa