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Raffaele Cantone: corruzione, la Pubblica Amministrazione sappia anche autocontrollarsi

Raffaele Cantone,  presidente dell’Anac,  Autorità nazionale anticorruzione

Il decreto legge n. 90 del 2014 convertito in legge n. 114 dello stesso anno, sopprimendo l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici e trasferendo le relative competenze all’Autorità nazionale anticorruzione, ha ridisegnato la missione istituzionale dell’Anac. Questa può essere individuata nella prevenzione della corruzione nell’ambito delle amministrazioni pubbliche, nelle società partecipate e controllate anche mediante l’attuazione della trasparenza in tutti gli aspetti gestionali, nonché mediante l’attività di vigilanza nell’ambito dei contratti pubblici, degli incarichi e comunque in ogni settore della pubblica amministrazione che potenzialmente possa sviluppare fenomeni corruttivi, evitando nel contempo di aggravare i procedimenti con ricadute negative sui cittadini e sulle imprese, orientando i comportamenti e le attività degli impiegati pubblici con interventi in sede consultiva e di regolazione.
La chiave dell’attività della nuova Anac, nella visione attualmente espressa, è quella di vigilare per prevenire la corruzione creando una rete di collaborazione nell’ambito delle amministrazioni pubbliche e al contempo aumentare l’efficienza nell’utilizzo delle risorse, riducendo i controlli formali, che comportano tra l’altro appesantimenti procedurali e di fatto aumentano i costi della pubblica amministrazione senza creare valore per i cittadini e per le imprese.
Raffaele Cantone ne è presidente e descrive la corruzione.
Domanda. La corruzione è raccontata come un fenomeno tutt’altro che in diminuzione che ha superato il livello di guardia, per intensità e pervasività, investendo ormai tutti i settori della società. È solo allarmismo o drammatica realtà?
Risposta. Non credo la corruzione sia aumentata particolarmente rispetto all’ultimo periodo, credo invece che tale percezione sia dovuta alla maggiore attenzione rispetto al fenomeno e alla sua maggiore emersione, fatto che non è assolutamente negativo, anzi, è positivo perché stanno anche uscendo gli aspetti purulenti della nostra società che si rappresentano nella corruzione. Né credo che si tratti di allarmismo o che inquadri una drammatica realtà. Penso stiano venendo al pettine una serie di nodi che nel tempo erano stati tenuti nascosti, poiché si era fatto finta che la corruzione quasi non esistesse e si era considerato significativo il sol fatto che non vi fossero indagini giudiziarie rilevanti, e che queste avessero fatto sparire il fenomeno corruttivo, per me come un fiume carsico che scorre sempre e spesso sotterra.
D. Il potere dell’Autorità è stato ampliato in modo significativo grazie al nuovo codice degli appalti: da oggi sarete non solo un organismo di vigilanza ma anche di regolazione dell’intero sistema degli appalti. Quali sono le linee guida e le novità del nuovo assetto?
R. In parte eravamo già l’Autorità regolatrice del sistema degli appalti, in quanto l’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici, assorbita nel 2014 dall’Anac, aveva da sempre svolto l’attività di regolazione. Oggi questa attività di regolazione è indicata e specificata nel codice degli appalti, e molte attività di regolazione diventano veri e propri atti vincolanti, in qualche caso persino in sostituzione degli strumenti normativi quali sono i regolamenti. Le novità delle linee guida e la scelta di adottarle - seppure abbiano fatto storcere il naso a qualche purista che ha difficoltà nell’individuare in quale delle categorie delle fonti le linee guida vengano inserite - sta nella loro duttilità, cioè nella capacità di essere velocemente modificate senza dover fare l’intero procedimento legislativo.
D. Qual’è la differenza tra linee guida e norme giuridiche?
R. La differenza sta anche nella loro struttura: la linea guida ha, per propria natura, un carattere esplicativo, quindi tendenzialmente dovrebbe essere molto più comprensibile agli operatori non dovendosi prestare essa stessa a meccanismi di interpretazione. Costituisce uno strumento molto più duttile e più usufruibile sul piano della comprensibilità.
D. In che modo funzionerebbe un sistema basato su linee guida in tema di corruzione?
R. Stiamo parlando di un sistema che dovrebbe consentire di stabilire bene come si applicano le norme del codice degli appalti. Il codice De Lise ad esempio, un codice tecnicamente ben scritto, aveva avuto l’effetto di essere «iperegolamentatorio», cioè c’era un eccesso di regolazione; inoltre era un codice di difficilissima lettura che aveva creato un contenzioso enorme, un aumento eccessivo delle questioni soprattutto di tipo formale; la maggior parte delle gare che sono state annullate non sono state annullate per problemi di irregolarità sostanziali, bensì perché era stata sbagliata la commissione di gara o perché non erano stati compilati i verbali di aggiudicazione. Quella iperegolamentazione ha creato un «iperformalismo» che, paradossalmente, avrebbe dovuto rappresentare un eccesso di regole ed ha finito per rappresentare essa stessa un meccanismo che ha favorito la corruzione, giacché un sistema così farraginoso faceva sì che qualcuno, per poter aggirare le regole, usava altri meccanismi. Attraverso questa regolamentazione - di tipo secondario, che si va ad aggiungere alla primaria poiché il codice è legge - intendiamo creare un sistema più duttile che si possa anche prestare immediatamente a interventi di modifica qualora dal punto di vista pratico si creino problemi. Credo sia un esperimento utile, sebbene ovviamente presenti delle difficoltà, ma comunque un esperimento da provare, perché noi abbiamo sempre avuto grande diffidenza nei confronti della discrezionalità della Pubblica Amministrazione, e il codice De Lise nasce da questa idea. Tutto deve essere regolamentato perché la Pubblica Amministrazione è pericolosa.
D. Che conseguenze ha generato il Codice De Lise?
R. Non ha impedito la corruzione né ha consentito di fare appalti, e paradossalmente, nonostante avesse come fine ultimo quello di evitare la corruzione limitando la discrezionalità, non solo non ha evitato la corruzione ma ha creato un sacco di problemi agli appalti. Oggi invece questo sistema scommette su una maggiore discrezionalità temperata dagli interventi regolatori di un’Autorità indipendente.
D. Lei ha indicato «incarichi e nomine» nella Sanità come la seconda area a rischio di corruzione dopo gli appalti: perché le varie cariche sono scelte dalla politica con criteri politici e non manageriali?
R. Il tema degli incarichi e delle nomine nella Sanità è uno dei maggiori punti critici per una serie di ragioni che sono in parte anche dovute all’attribuzione dell’intero sistema sanitario alla competenza delle Regioni e alla gestione delle Asl con una logica sempre più politica; non si è quasi mai provato a scegliere in relazione a meriti o a capacità dimostrate ma in relazione all’appartenenza politica. Questo meccanismo dell’appartenenza politica poi è sceso giù per i rami, cioè si nominava il manager appartenente alla politica e lui a sua volta nominava primari, assistenti ed altri incaricati facenti parte del medesimo gruppo, con un meccanismo che aveva finito per premiare la fedeltà anziché la capacità e la meritocrazia. Questo non si può generalizzare però è un dato.
D. Che significa premiare la fedeltà?
R. Significa rendere il soggetto scarsamente indipendente, perché se si occupa una posizione e si deve rispondere ringraziando qualcuno per il posto occupato, quando verrà chiesto di fare qualcosa non si potrà dire di no, anche se si tratta di un’azione illegittima o illegale. Questo sistema di lottizzazione incide su quello che secondo me è il presupposto fondamentale perché una Pubblica Amministrazione funzioni: l’imparzialità dei funzionari.
D. E come si può ovviare a questo?
R. Prima di tutto provando a creare dei sistemi di nomine trasparenti; in parte si è già provato, sebbene con risultati non del tutto validi, con la creazione degli albi, reintroducendo i meccanismi di selezione e di concorso e, soprattutto, reintroducendo i concorsi nei quadri medici. È vero che anche i concorsi a volte sono inquinati, ma è anche vero che in essi si devono rispettare dei requisiti, come ad esempio quello delle pubblicazioni. Quanti reparti sono gestiti lungamente da soggetti che hanno incarichi di tipo fiduciario in attesa di concorsi che non si faranno mai? Questa gestione di incarichi fiduciari a termine non finisce per essere essa stessa un sistema di condizionamento di chi svolge quel ruolo fondamentale? Credo che tornare a meccanismi di selezione pubblica sicuramente avrebbe un effetto positivo, ma non si può considerarlo come una panacea.
D. Che cosa propone per rendere il contrasto alla corruzione più efficace sul piano preventivo e repressivo? Cos’è lo strumento rivoluzionario che vorrebbe inserire in tale ambito «dell’agente provocatore»?
R. Sul piano della prevenzione negli ultimi due anni sono stati messi in campo strumenti rilevanti e innovativi, che però hanno bisogno di tempo per essere digeriti, a partire dalle scelte fatte in tema di una maggiore trasparenza del sistema che dovrebbe ulteriormente essere migliorato anche dall’introduzione del Foia, il «Freedom of Information Act», atto per la libertà di informazione. Tali mosse vanno nella giusta direzione perché il vero antidoto alla corruzione è certamente la trasparenza, lo stesso valga per i piani della prevenzione della corruzione, piani in cui è la stessa Pubblica Amministrazione che dice come si può evitare la corruzione. Questa sarebbe la chiave di volta: chi meglio di chi lavora nella Pubblica Amministrazione sa quali sono le aree di rischio?
D. Chi controlla i controllori?
R. Il limite di questi strumenti è che essi sono stati calati dall’alto in una logica di adempimento, non sono stati vissuti come un fatto utile ma sono stati vissuti spesso dalle pubbliche amministrazioni come l’ennesimo adempimento burocratico. Su questo bisognerà lavorare rafforzando una serie di strumenti e migliorandoli su una serie di aspetti, ma credo che questa strada sia quella corretta. Ma c’è un limite nella legislazione preventiva: la maggior parte di questi istituti non si applica alla politica, per esempio noi non abbiamo ancora una normativa realmente valida che riguardi i meccanismi per i conflitti d’interessi della politica, e le modalità di trasparenza effettiva dei finanziamenti alla politica soprattutto in un sistema che adesso va verso l’abolizione dei finanziamenti pubblici. Non sono previste, per esempio, regole applicabili ai parlamentari o ai consiglieri regionali o comunali, e c’è bisogno di completare la normativa in relazione alla politica e rafforzare altri strumenti preventivi, soprattutto lavorando sulla trasparenza che dovrà riguardare anche gli apparati decisori veri, che sono i partiti politici o le fondazioni che fanno capo alla politica.
D. E sul punto della repressione?
R. Non sono d’accordo con l’idea dell’agente provocatore perché è contrario alla nostra natura. L’agente provocatore nel diritto anglosassone è quello che fa l’analisi d’integrità andando ad offrire la tangente, e questo non mi piace perché offrire la tangente significa stimolare il comportamento; non abbiamo bisogno di agenti provocatori né tale ipotesi rientra nella nostra idea, sebbene correttamente esistano detta figura in alcuni campi, come nel caso della droga, ma lì c’è già un illecito a monte, mentre nell’agente provocatore nel campo della corruzione ci sarebbe un soggetto che finge di corrompere per un fatto che fino a quel momento non esisteva. Diversamente credo che sarebbe invece utile usare gli agenti sotto copertura, da infiltrare all’interno delle organizzazioni criminali per assumere informazioni. Questo non avrebbe di per sé alcun effetto di provocare ma darebbe la possibilità di conoscere dall’interno l’organizzazione criminale.
D. Com’è possibile affrontare un dibattito imparziale e obiettivo in sede parlamentare su questi temi quando il conflitto risiede proprio nei parlamentari, artefici di ogni sorta di peripezia tecnico-giuridica per aggirare tali norme?
R. C’è un problema che riguarda ancora la classe politica; per esempio si è chiesto a tutte le amministrazioni di emanare codici etici sebbene noi sappiamo che questi ultimi non sono la panacea, ma di essi l’amministrazione si deve dotare. Nel Parlamento ancora non c’è un codice etico, la Camera è riuscita a votarlo ma con una situazione per certi versi più semplificata e non cambiando il regolamento bensì facendolo approvare dalla giunta, quindi con un potere d’impatto minore. Questo è un segnale ambiguo da un organo che, sebbene immune, dovrebbe dotarsi prima di tutti di un codice etico, se poi lo richiede al Comune.
D. Cosa pensa dell’immunità parlamentare?.
R. L’immunità è stata voluta da un legislatore che non era di certo lassista, ed aveva un senso se rappresentava una guarentigia, non ha avuto più un senso quando è diventata uno strumento d’impunità. I codici etici sono la dimostrazione che si ha difficoltà a far valere delle regole all’interno del Parlamento, dove spesso si annidano conflitti d’interesse ed emergono in modo molto più difficoltoso di quanto possano emergere invece in un’amministrazione di minor livello. Senza precedenti, in questa legislazione sono state adottate una serie di norme che riguardano il contrasto alla corruzione, molti ambiti sono stati oggetto di interventi legislativi che erano attesi da tempo, è stata modificata la norma sul voto di scambio politico mafioso, l’articolo 416-ter del codice penale era una vergogna perché era una norma inapplicabile; da tempo si attendeva la modifica dell’antiriciclaggio, è stata ripristinata una misura seria per quanto riguarda il falso in bilancio, si è intervenuti sulle pene forse con una logica non del tutto coerente però che ha inciso sui meccanismi della prescrizione, e non dimentichiamo che anche l’aumento dei poteri dell’Anac è un segnale di cambiamento anche per noi. Credo che per una serie di ragioni questo Parlamento abbia messo in campo un’attività legislativa che, malgrado i problemi astratti, è oggettivamente discontinua con il passato.
D. La corruzione può essere eliminata?
R. Assolutamente no; non credo che esistano Paesi senza corruzione, ma credo che esistano Paesi in cui il tasso di corruzione sia portato a livelli molto bassi.
D. L’Italia che posizione occupa in classifica rispetto agli altri Paesi europei?
R. Credo sia fondamentalmente vera la classifica della corruzione percepita, fermo restando che le graduatorie sono basate su criteri scientificamente non del tutto corretti, perché la corruzione percepita non è la corruzione reale. Ai soggetti a cui si pongono le due domande se hanno «avvertito la corruzione nel Paese» e se hanno «subito casi di corruzione», alla prima domanda rispondono di sì, alla seconda rispondono di no, quindi c’è una discrasia. Avvertire l’esistenza di vivere in uno Stato corrotto non è però una cosa tranquillizzante. Credo che effettivamente l’Italia si ponga al di sotto di una serie di Paesi, ma da noi il tasso di percezione della corruzione è anche derivato dal fatto che i fenomeni emergono, con un effetto amplificatore e positivo che è proprio dell’attività di stampa che in qualche modo aumenta la percezione dell’esistenza della corruzione; negli altri Paesi c’è la tendenza a mettere in sordina le notizie legate a fatti di corruzione, per questo motivo tali classifiche alla fine lasciano qualche perplessità. Credo sia giusto pensare che l’Italia occupi una posizione di retroguardia ma non credo realmente che essa occupi la penultima posizione in Europa, anche perché la capacità che ha la nostra magistratura di colpire anche i livelli più alti di corruzione non ha nessun pari con altri Paesi europei.
D. Anche la corruzione «uccide», in modo latente, forse più vasto? Uccide l’economia, la concorrenza, gli investimenti, non crede?
R. Per troppo tempo la corruzione è stata sottovalutata perché ne è stato sottovalutato l’impatto sul sistema complessivo. C’è stato qualcuno che in passato ha persino detto che la corruzione è uno strumento che fluidifica i traffici e che ha addirittura effetti benefici, ma se andiamo a guardare gli effetti indiretti essa ha un effetto disastroso analogo a quello delle mafie. Quindi è vero che la corruzione uccide l’economia, la concorrenza e gli investimenti, ma per troppo tempo si è fatta fatica a farlo capire, la corruzione è stato uno strumento pesantemente sottovalutato che ha inciso sulla capacità di reazione del Paese. Con Tangentopoli non si è fatta una valutazione vera e propria sulla corruzione ma ha costituito una grande operazione che ha distrutto una classe politica indecente; ma nessuno si è posto le domande vere sull’effetto della corruzione.Tangentopoli ha colpito i vertici lasciando tutta la fascia intermedia, che è proprio dove spesso si annida la corruzione.
D. Lei è contrario alle lobby?
R. No, la lobby deriva dai Paesi anglosassoni dove c’è già un’esperienza, e tra l’altro è una parola intraducibile in italiano, sono termini che vengono da un’altra cultura che noi facciamo anche fatica a capire. La lobby è solo uno strumento che ha la capacità pubblicitaria di un qualcosa, di un’idea o di un prodotto. Non è in sé un cattiva parola, lo diventa in una giungla e cioè quando tutto non è trasparente, non quando c’è dell’attività svolta alla luce del sole per tutelare degli interessi. Quella del lobbista è un’attività nobile, siamo noi che l’abbiamo fatta diventare una parola oscura.
D. Lei insiste sulla necessità di combattere la corruzione partendo dal basso stimolando la reattività civica. È questo lo scopo che si pone il «Cantone scrittore»?
R. Non ho mai pensato di svolgere un ruolo pedagogico con la scrittura, uno strumento che, soprattutto con il mio primo libro nel quale ho raccontato l’esperienza di pubblico ministero, ha cambiato le sorti della mia vita. Non l’ho scritto per gli altri, l’ho scritto per me, per rispondere a una serie di domande fatte a me stesso. Il vantaggio del libro sta nel fatto di riuscire a spiegare più sfaccettature, io non credo né al bianco né al nero, ma il grigio non si può descrivere con una parola.
D. In questi anni di inchieste della magistratura qual è lo scandalo che l’ha colpita di più?
R. Ce ne sono tanti, ma quello che mi ha colpito di più è stato quello della clinica di Santa Rita nella quale facevano le operazioni per avere i rimborsi e dove hanno fatto morire delle persone per operazioni inutili. Qui il fenomeno arriva al paradosso perché il livello di illegalità arriva ad essere totale disumanità.
D. Alla fine del suo mandato crede che l’Italia riuscirà a scalare qualche posizione in classifica?
R. Non ho un obiettivo preciso, ma l’importante è lasciare una traccia in quello che facciamo. Qualche piccola soddisfazione ce la siamo tolta perché ci sono delle cose che restano, Expo è un dato, non sono chiacchiere, ma tante altre cose che abbiamo fatto sono meno visibili. Se si riuscirà a far partire la gara delle ecoballe che riguarda anche la mia terra nella quale stiamo svolgendo un controllo molto forte, questa è una soddisfazione che dal punto di vista personale vale più delle 10 posizioni da scalare, ma è un’idea personale. Invece dal punto di vista istituzionale mi piacerebbe lasciare, dopo questa esperienza, un’idea istituzionale di prevenzione all’anticorruzione, che possa svolgere un ruolo preventivo e che sia accettata in una logica non emergenziale.
D. Perché ha rifiutato di fare il sindaco di Roma?
R. Non ci ho mai pensato, anche perché Roma non è la mia città: è stato molto più difficile, 5 anni fa, rifiutare di fare il sindaco di Napoli, che è la mia città.    

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