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CALOGERO PISCITELLO: t.a.R., UNO STRUMENTO PER RIMEDIARE AD ALCUNE PATOLOGIE DEL SISTEMA

Calogero Piscitello, presidente del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio

di VICTOR CIUFFA

 

«Vivo a Roma dal 1961, non mi sono più trasferito perché, avendo partecipato al primo concorso come referendario del T.A.R., sono passato dal Ministero dell’Industria alla Magistratura amministrativa», racconta Calogero Piscitello, presidente del più importante Tribunale Amministrativo Regionale d’Italia, quello del Lazio. I T.A.R. furono istituiti nel 1971, il primo concorso si svolse nel 1973, Piscitello vi partecipò, fu tra i primi vincitori e prese servizio alla fine del 1974, presso la Sede di Roma. «La mia carriera si è svolta senza scosse: ho presieduto per una decina di anni prima il T.A.R. del Molise e poi quello dell’Emilia Romagna, dopo essere stato per una dozzina di anni Consigliere al Consiglio di Stato, passatovi nell’aliquota di posti riservata ai magistrati dei T.A.R.; prima dell’attuale incarico ero stato nominato presidente aggiunto della V Sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato. Devo dire di essere stato fortunato nello scegliere, dopo la maturità classica, la facoltà di Giurisprudenza, cui giunsi dopo aver frequentato a Palermo il Liceo classico gestito dai Padri salesiani, che preparano gli studenti a diventare classe dirigente, ma quella lavoratrice, non quella raccomandata». Domanda. Che cosa pensa delle raccomandazioni? Risposta. Non credo ad esse, le ritengo una proiezione della personalità del segnalante, che investe nelle conoscenze che più gli stanno a cuore, ma rischia di ricevere e creare delusioni. Voglio dire che le raccomandazioni, se non sono meritate, esauriscono i loro effetti in breve tempo. Viviamo in una società nella quale il diritto ereditario è ancora uno degli assi portanti, ma se non si partecipa moralmente e materialmente alla fortuna di famiglia, si rischia di disperdere il patrimonio avuto; come si vede, le visioni ultrademocratiche e progressiste che si coltivano da giovani tendono a recedere quando l’esperienza insegna ad accettare l’esistente come qualcosa di fatalmente necessario. Diceva un mio collega, alcuni anni fa, che «quel che avviene conviene», ovviamente, conviene a chi ha la forza di determinare l’evento. D. Deve quella che ha definito la sua fortuna alla facoltà di Giurisprudenza? R. Questa facoltà è talora considerata una sorta di parcheggio in attesa di trovare la collocazione più adatta, ma ha il vantaggio, e per questo la consiglio ai giovani, di offrire possibilità in varie direzioni, perché il dominio della società, in tutti i settori, spetta sempre a chi è in grado di elaborare le norme che regolano quel settore di attività e quella determinata professione. Molti giungono al vertice della piramide amministrativa dopo aver vinto ricorsi o resistito agli attacchi di colleghi. Resistere in una posizione fortificata è molto più semplice che attaccarla, e da questo io traggo un insegnamento di vita, quello di non attaccare quando si è deboli, in punto di fatto o di diritto. Partendo da una posizione di debolezza, l’aggressività non aiuta a vincere; né vale, per vincere a tutti i costi, saltare sul carro dei vincitori, sport molto praticato al quale spesso assistiamo. D. Allora come dovrebbero comportarsi i giovani? R. Io sono un po’ fatalista, ritengo che l’individuo debba prendere atto della realtà in cui la sorte l’ha collocato, perché proporzionare le aspirazioni alle proprie possibilità è un modo per tradurre la propria debolezza in un punto di forza. E il rispetto delle ragioni degli altri è una garanzia di autodifesa. Personalmente non sono un attaccante, ho sempre giocato in ruoli di difesa, anche quando i Salesiani ci imponevano di giocare a calcio. Secondo uno slogan sportivo, la miglior difesa è l’attacco, ma ne dubito, come dubito della veridicità di tutti i luoghi comuni. Un mio hobby è quello di verificare, stravolgendola, la saggezza racchiusa nei proverbi. D. Può fare qualche esempio? R. La credibilità di qualsiasi proverbio, paradossalmente, si manifesta attraverso la sua inversione. Per esempio, l’altruismo è una forma esasperata di egoismo. Un detto siciliano afferma che «il cavallo zoppo si gode la strada»; questo certamente è vero, ma solo se non lo portano al macello per trasformarlo in mortadella. Ho apprezzato molto, di recente, il libro «Il cigno nero» scritto da un economista, filosofo e sociologo americano di origini libanesi, Nassim Nicholas Taleb, che insegna «Scienza dell’incertezza». Sembra un paradosso: uno come lui, che ha accumulato una fortuna finanziaria nel campo dei derivati, mette in guardia dal puntare sistematicamente sulle certezze statistiche e sulla regolarità degli eventi. Perché solo l’evento imprevisto può sconvolgere tutto, e ciò che è prevedibile è anche facilmente contrastabile da parte di chi vi ha interesse. Questo non significa affatto che puntare sull’imprevedibile possa essere sempre una strategia vincente, però l’evento casuale ha un’incidenza più rilevante di quello scontato. D. Questa è una certezza che si acquista con una certa età e, soprattutto, con una certa esperienza. Ma solitamente perché non si ascoltano e non si accettano l’esperienza e la maturità degli altri? R. Perché la saggezza si legittima a posteriori. L’esperienza implica la capacità di accettare l’altro, il che non succede frequentemente. Quando si è molto protesi alla ricerca del successo, senza disponibilità ad affrontare il contrasto posto dall’esistenza di una posizione diversa dalla nostra, quando si rischia di non capire le ragioni dell’altro, la visione è offuscata e miope, e priva della possibilità di compiere un progresso. Questo si basa quasi sempre sul superamento di una posizione propria attraverso l’acquisizione di qualcosa che è l’antitesi, cioè la posizione contrapposta; la dialettica hegeliana realizza un progresso. D. Non occorrerebbe applicare questi principi fondamentali anche nell’attività amministrativa? R. È un campo in cui sono costretto a tornare un po’ indietro, rispetto a queste divagazioni di carattere filosofico. Può sembrare un’affermazione audace e perfino contrastante con il mio carattere, oltre che con le mie remote, ormai sopite visioni personali, ma il mio ruolo di magistrato amministrativo è di forte conservazione del sistema che viene creato da soggetti diversi ed estranei rispetto a me. Perché, per quanto si voglia sostenere la possibilità di un ruolo creativo della giurisprudenza, il compito dell’interprete delle leggi è sempre funzionale a interessi che hanno prevalso nella lotta continua che si svolge a livello sociale ed economico; che hanno avuto il riconoscimento e la sanzione legislativa e normativa nell’ordinamento in cui siamo inseriti; e che pretendono di durare il più a lungo possibile. L’ordinamento giuridico è un insieme di norme creato per facilitare non solo la convivenza civile ma, nell’ambito di questa, la perpetuazione di alcuni rapporti di forza, consegnati dal legislatore sia all’amministratore sia al giudice. D. I giudici sono la categoria più potente della società? R. No. Spesso invito i miei colleghi, e tutti quelli che vedono nel giudice un pericolo e un nemico, a rendersi conto che i veri giudici sono soprattutto gli amministratori, che hanno avuto il compito di perseguire i fini indicati dal legislatore, di spostare cioè risorse da una sfera giuridica patrimoniale a un’altra, di determinare gli assetti veri e vincenti della società. Soltanto un segmento limitato, patologico, dei rapporti sociali disciplinati dal diritto viene conosciuto dal giudice. Quotidianamente prevalgono le posizioni affidate alla cura degli amministratori, che sono l’emanazione diretta del potere. Questo può spiegare perché si verificano delle deviazioni pratiche. D. Dal 1990 in poi il legislatore ha eliminato molti controlli sulle Pubbliche Amministrazioni con leggi che si prestano ad essere interpretate in senso contrario alla lettera e agli scopi ufficiali; come si potrebbe rimediare? R. Il carattere essenziale della legislazione è quello di porre norme astratte e generali. La Pubblica Amministrazione invece cura interessi concreti, instaurando rapporti particolari con singoli cittadini. Si direbbe che il legislatore oggi non abbia più troppa fiducia in se stesso, perché si preoccupa di sapere molto spesso, e più di quanto potrebbe, qual’è la sorte della sua creazione giuridica una volta immessa nel mondo dei rapporti sociali, e interviene di nuovo quando non approva l’interpretazione fattane dai titolari di altre funzioni. D. E il ruolo del giudice, invece? R. Il giudice viene chiamato in causa per restaurare l’ordine giuridico violato, su richiesta del cittadino o del pubblico ministero; in ogni caso, quale sia l’ordine giuridico da far rispettare lo stabilisce il legislatore con sufficiente chiarezza e autorevolezza, e con la consapevolezza che, comunque sia, vi sono nell’ordinamento strumenti per porre rimedio ad eventuali patologie o disfunzioni del sistema. Ma non deve intervenire continuamente con norme modificative, interpretative, che confondono il panorama e scombussolano l’ordine dei valori. La funzione del giudice è sovrana e autonoma: non è concepibile che sia una funzione di supplenza. D. Ma gli errori dei giudici sono una minima parte; la mala gestione amministrativa non è ormai troppo diffusa? R. Purtroppo oggi alcuni soggetti, attivi sul piano mediatico, non fanno quello che dovrebbero in base alla loro specifica funzione. Questo fenomeno si sta diffondendo; taluni tendono spesso a fare qualcosa di diverso rispetto al loro compito istituzionale. Leggendo una critica sproporzionata ed esagerata a un provvedimento cautelare del T.A.R. in materia di tariffe sanitarie, mi sono chiesto se il giornalista debba dare informazioni il più possibile complete e chiare nell’interesse dei lettori, oppure conquistare l’opinione pubblica nell’interesse del proprio datore di lavoro, in particolare dei politici. Questo snatura profondamente la funzione di giornalista, che di fatto viene facilmente strumentalizzata, mentre strumentalizza la notizia. D. Non dipende dal fatto che il legislatore ha concesso ad enti privati, come banche e pseudo cooperative, di possedere giornali, finanziandoli, mentre prima gli editori vivevano solo di edicola? R. Oggi non solo giornalisti, ma attori cinematografici, cantanti ed altri si permettono di dare consigli e dettare norme di comportamento ai politici. Io conservo una concezione nobile ed elevatissima dell’uomo politico che ha veramente il coraggio di rappresentare gruppi consistenti di persone e di curare gli interessi di carattere generale. Questa funzione però, in un’economia molto sviluppata, rischia di essere posta al servizio di interessi forti che hanno i mezzi per determinare svolte nei rapporti sociali. Ma quando queste svolte non possono verificarsi perché sono ormai molto consolidati alcuni rapporti e un omogeneo modo di vivere e di pensare della gente, sono pochi i soggetti che possono considerarsi protagonisti della vita politica di un Paese. Questo esula dalle competenze di un magistrato, il cui ruolo è cercare di comporre una vertenza tra cittadino e Pubblica Amministrazione, tenendo presente la specificità del diritto amministrativo che, peraltro, negli ultimi dieci anni si è molto modificato. D. In che senso? R. Il Giudice Amministrativo è diventato sempre più giudice del diritto pubblico e dell’economia, anche se il primo è sempre precipuamente presente negli interessi da tutelare. Un esempio: sulle relazioni con le ditte aggiudicatrici di appalti possono incidere rapporti informativi del Prefetto che impegnano le Amministrazioni Pubbliche ad evitare infiltrazioni criminali; davanti a questa «informativa», prevista dalla legge, le Amministrazioni hanno le mani legate: se, precauzionalmente o incautamente, sospendono l’efficacia di un contratto, causando un danno oltre che al privato, anche alla collettività, il giudice che deve fare? Chi deve tutelare? Quale interesse deve prevalere rispetto alle varie esigenze che meritano comunque tutela, atteso che l’imprenditore assicura la vita di quanti lavorano alle sue dipendenze e contribuisce allo sviluppo dell’economia? D. Come risponde Lei alla domanda? R. Il discorso sarebbe troppo lungo, dal 1990 è cambiata la concezione generale dei rapporti tra Stato e cittadino. Basti pensare al principio di segretezza che un tempo qualsiasi burocrate invocava nei rapporti col cittadino; oggi vige l’opposto principio della trasparenza, che contrasta con il diritto alla riservatezza. Tante Commissioni si sono succedute alla Presidenza del Consiglio per assicurare il diritto all’accesso ai documenti, diventato ormai un aspetto preliminare e indispensabile per la difesa del soggetto ricorrente; ma è altresì importante il diritto alla privacy, che è un diritto soggettivo dinanzi al quale l’interesse pubblico recede. D. Ora i T.A.R. sono competenti anche nei risarcimenti dei danni procurati dalla Pubblica Amministrazione ai cittadini. Come svolgono questo compito? R. Il legislatore ha ritenuto di concentrare nei T.A.R., senza aggravio di spese, giudizi che prima dovevano attraversare varie fasi a causa dell’esistenza di due giurisdizioni parallele, una ordinaria che giudicava sui diritti soggettivi, e una amministrativa che continua a giudicare gli interessi legittimi; questi si dividono essenzialmente in due categorie: di tipo oppositivo quando, per conservare un proprio vantaggio, il cittadino oppone all’Autorità la necessità di osservare la legge per perseguire un bene di interesse pubblico generale; e pretensivi, che oggi costituiscono la maggior parte, diretti ad ottenere un determinato provvedimento da un’Amministrazione pubblica sempre più invasiva nel campo degli interventi a sostegno dell’economia. Le legislazioni straniere non conoscono la distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi, distinzione che ha allargato le tutele degli amministrati, ma queste non debbono essere riservate solo ai cittadini di prima classe, titolari di un diritto di proprietà o di iniziativa economica privata. Questa specificità resiste nel nostro sistema nonostante siano stati introdotti una serie notevolissima di altri casi e materie, per cui il giudice amministrativo è competente anche sui diritti soggettivi perfetti, quando questi confliggono o dialogano con l’interesse pubblico. D. Una semplificazione non è venuta dal fatto che il T.A.R. non concede più sospensive esaminando subito il merito? R. La ragione del successo della giurisdizione amministrativa deriva dall’uso sapiente di due istituti ad essa affidati: la tutela cautelare con efficacia immediata nella sfera del privato, spesso con possibilità, per i casi più semplici, di passare direttamente al merito saltando la fase cautelare: è un sistema che assicura una rapidità essenziale nei rapporti tra cittadino e autorità. L’altro istituto è il giudizio di ottemperanza, che assicura l’effettività della tutela, perché il giudice amministrativo, derogando al principio di separazione dei poteri, interviene quando c’è stato già un giudizio di cognizione che ha deciso nel merito una controversia. D. Che cosa cambierebbe nel T.A.R. del Lazio? R. Per cambiare è necessario averne il potere, altrimenti si ragiona in astratto. Se il legislatore ci aiutasse, potrebbe forse essere ridotto il consistente arretrato accumulatosi negli anni passati. Solo a titolo di esempio, con la legge Pinto è stato previsto il risarcimento del danno prodotto dal ritardo nelle pronunce dei giudici. Ciò può indurre i soggetti che possono dolersi di un ritardo ingiustificato, e non solo di un’ingiustizia subita nella risoluzione di una controversia giudiziaria, a chiedere ed ottenere un risarcimento. L’effetto dannoso per l’erario del risarcimento ex legge Pinto potrebbe essere notevolmente ridotto con l’abbattimento dell’arretrato. Il Legislatore dovrebbe dare un riconoscimento a chi si distingue nello svolgimento dell’attività professionale con l’incremento della produttività, dando così concreto rilievo al principio meritocratico. 

Tags: Gennaio 2013

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