Guglielmo Epifani: industria 4.0, modello tecnologico per tutta l’Italia produttiva

La tecnologia digitale modifica radicalmente i sistemi di produzione. L’innovazione conosciuta come «Industria 4.0» o meglio come «internet delle cose» cambia radicalmente la fisionomia delle fabbriche tant’è che si parla ormai da più parti di quarta rivoluzione industriale.
Un argomento centrale per un Paese manifatturiero come l’Italia, messo a dura prova da una estenuante e non risolta crisi economica, tuttavia indispensabile per una efficace strategia di rilancio. Abbiamo un gap in questo segmento d’avanguardia rispetto alla Germania di almeno 5 anni, dobbiamo colmarlo nel più breve tempo possibile perché è in questo ambito che si giocherà nel futuro la nostra competitività sui mercati internazionali. Una ricerca condotta dal Politecnico di Milano sostiene che solo il 13 per cento delle imprese italiane, su un campione rappresentato per due terzi da imprese medio-grandi e un terzo da quelle piccole, ha sviluppato soluzioni di smart manufacturing, mentre un altro 12 per cento ha in animo di investire in questa innovazione.
Uno dei freni a questo cambiamento è costituito dai costi elevati, tuttavia i ritorni costituirebbero il volano per un rilancio strutturale dell’economia italiana. L’industrial internet of things, sottolinea il Politecnico, potrebbe incidere sulla produzione mondiale per oltre 14 trilioni di dollari entro il 2030, in Italia il suo valore arriverebbe all’1 per cento del Pil. Altro cardine dell’innovazione è rappresentato dalla formazione dei lavoratori, un salto di qualità professionale destinato a ridisegnare la catena del valore in fabbrica, mandando definitivamente in pensione ogni modello fordista, insieme all’immagine simbolo del ‘900, le tute blu, e forse anche il Cipputi di Altan con le sue folgoranti vignette.
Abbiamo intervistato su questi argomenti il presidente della X commissione Attività produttive, commercio e turismo della Camera dei deputati, Guglielmo Epifani, una personalità di spicco in ambito politico già segretario generale della Cgil, nonché segretario del PD sino all’avvento di Matteo Renzi. La sua commissione ha presentato, infatti, il 6 luglio scorso, una indagine parlamentare dedicata specificamente all’Industria 4.0.
Domanda. L’innovazione tecnologica costituisce la nuova frontiera della competitività. Giornali e organi di informazione parlano sempre più in questi giorni di industria 4.0. Cosa può dirci a proposito?
Risposta. La nostra iniziativa parlamentare ha avuto il pregio di muovere le acque sul tema della fabbrica digitale, della modernizzazione dei sistemi e di quella che coerentemente anche n Italia si definisce Industria 4.0. È un’esperienza, nata in Europa, per iniziativa tedesca ed oggi anche nel nostro Paese le forze produttive si rendono conto che siamo al cospetto di una rivoluzione destinata a modificare sostanzialmente i fattori della produzione, anche se non siamo ancora in grado di definirne gli orizzonti e gli aspetti futuri. Questa innovazione è tuttavia necessaria se l’Italia vuole continuare ad avere un futuro come Paese manifatturiero. Una parte delle nostre imprese sta già affrontando questa trasformazione, tuttavia, al contrario di altri Paesi, non esiste una logica di assieme, una piattaforma comune e condivisa in grado di predisporre gli strumenti più adatti, normativi, culturali e istituzionali per favorire una innovazione di cosi grande rilievo. La nuova frontiera tecnologica dovrà trovare le condizioni idonee per funzionare al meglio nel nostro Paese. Direi che abbiamo bisogno di un via italiana all’industria 4.0. I modelli importanti, cui ci siamo riferiti nella nostra indagine, come quello tedesco, vanno specificamente adattati alle peculiarità del nostro sistema produttivo, composto da una miscellanea di piccole e piccolissime imprese diffuse. È necessario poter disporre di una rete predisposta per assicurare loro la migliore efficienza possibile. Il risultato che la Commissione attività produttive proporrà al Governo risponde proprio all’esigenza di offrire questo nuovo modello tecnologico a tutta l’Italia produttiva.
D. Quali sono stati i vostri interlocutori in questa ricerca?
R. Abbiamo sentito nel corso dell’indagine oltre 40 soggetti specializzati tra istituzioni, centri di ricerca, società di consulenza, imprese, associazioni, studi di innovazione, teorici delle nuove tecnologie, ognuno dei quali ha proposto interessanti punti di vista sui quali noi abbiamo riflettuto per l’elaborazione del documento conclusivo. Le nuove tecnologie dispongono di una grande velocità legata alla capacità combinatoria tra sensori e attività in grado di aumentare in modo esponenziale la produttività del lavoro. Ne vien fuori un sistema di produzione di beni, oltre che molto più rapido del passato, estremamente vicino alle specifiche necessità del cliente. Un fattore questo sempre più preponderante per la qualità dell’offerta commerciale e la piena rispondenza del bene alle necessità del cliente. Ne abbiamo potuto fare esperienza diretta nel corso di una recente visita in Germania agli stabilimenti della Porsche dove si tocca con mano questa velocità ed integrazione degli indirizzi. Le macchine ed i computer interagiscono sia tra loro sia con i robot e le catene di montaggio e di allestimento. Il tutto in modo interconnesso con il consumatore finale, determinando un circuito di tracciabilità che non solo velocizza la realizzazione, ma la diversifica per tipologia di richiesta. Il consumatore in tempo reale conosce, in questo caso, a che punto della lavorazione è l’automobile da lui ordinata. I computer della Fabbrica 4.0 predispongono i processi produttivi necessari per realizzare i componenti che il cliente finale ha richiesto. Il tutto in tempo reale. La catena di montaggio, pertanto, prevede assetti diversi ad esempio tra guida a destra o sinistra, colorazione o specifiche tecnologiche. Questa innovazione produce effetti diretti sul lavoro che debbono essere valutati con grande attenzione. Il lavoro è sempre meno pesante dal punto di vista materiale, perché assistito dalla robotica, con la necessità di una accresciuta competenza professionale. Il montaggio del parabrezza di un’auto, per rimanere all’esempio citato, fino a poco tempo fa avveniva manualmente, oggi è totalmente robotizzato. Il lavoratore controlla che tutto avvenga nei modi previsti. I ritmi di lavoro risultano quindi più umani, riducendo la durezza del lavoro fordista della catena di montaggio tipica delle industrie del novecento, contrassegnata da una ripetitività delle funzioni e delle prestazioni. Le tecnologie digitali, richiedono, infine, lavoratori sempre più formati e qualificati. La fabbrica 4.0 riduce l’impegno manuale e fa crescere molte altre competenze con professionalità medio e medio alte. Meno operai e molti più analisti di sistema e big data. Si concentrano le possibilità di rileggere le informazioni ed indirizzarle ai sistemi produttivi con una precisione e una rapidità mai avuta in passato. Prende forma così una fabbrica digitale, nella quale la vendita, il rapporto con il cliente, i servizi connessi alla produzione sono integrati.
D. Quali sono gli orizzonti e gli obiettivi per l’Italia?
R. Quello che noi siamo chiamati ad interconnettere nel sistema produttivo nazionale è la filiera dove trovano spazio molteplici piccole fabbriche come autonomi centri di produzione di componenti o servizi alla grande impresa con produzioni di nicchia magari anche ad altissima professionalità.
D. Quali saranno gli scenari dell’industria digitale e come il documento elaborato dalla vostra commissione contribuirà alla scelta del Governo?
R. Siamo di fronte ad una quarta rivoluzione industriale, benefici e rischi sono sempre dietro l’angolo e bisognerà verificarli cammin facendo. La leva di questo processo risiede non solo nell’innovazione tecnologica, ma in un aumento della produttività che già oggi può essere calcolato tra il 30 e il 50 per cento nonché nella capacità di differenziare i prodotti all’interno di ogni filiera. Tutto ciò determina una nuova convenienza a rilocalizzare l’impresa in Italia per disporre di reti tecnologiche integrate e di pari passo un costo del lavoro per unità di prodotto assai più conveniente di quello realizzato in siti esteri, laddove le imprese hanno trasferito le attività esclusivamente per ridurre i costi di produzione. Si invertono così i processi di delocalizzazione anche perché le tecnologie dell’industria 4.0 richiedono investimenti in formazione professionale assai rilevanti e poggiano sul mercato del lavoro di medio-alto livello. Tutto ciò richiede livelli crescenti di produttività, quelli che l’Internet delle cose, così è definita l’impresa 4.0, riesce a coniugare. È questo un processo già in atto come Stati Uniti e Gran Bretagna dimostrano.
D. Quale altre esperienze oltre quella tedesca avete approfondito?
R. La nostra indagine ha spaziato anche fuori Europa, in particolare abbiamo esaminato le scelte operate dal Giappone. L’esempio tedesco, tuttavia, resta un punto di riferimento, non solo perché incardinato in una logica europea assai affine. La governance che la Germania ha realizzato attraverso la regia dei due ministeri chiave, Sviluppo Economico e Ricerca, e la collaborazione dei Länder, in altri termini il supporto dei territori, unitamente alle rappresentanze delle imprese, del mondo del lavoro e della ricerca, hanno determinato una unitarietà della visione strategica e delle impostazioni, aumentando l’efficienza e riducendo le dispersioni economiche e organizzative. In Italia, invece, come abbiamo potuto constatare insieme al ministro Giannini, non è vero che si investe poco in ricerca e innovazione, ma purtroppo lo si fa in modo non integrato con una rilevante dispersione di energie economiche, intellettuali e organizzative. Le università, le imprese, i centri di ricerca lavorano e investono ognuno per conto proprio, non sempre in sinergia con le necessità dei territori e delle imprese. Non possiamo continuare ad avere una politica dei mille fiori in presenza di una così innovativa tecnologia. La gestione dei sistemi complessi richiede, in modo omologo indirizzi coerenti. La stagione del fai da te è definitivamente superata e oggi traguardiamo l’orizzonte di una rete integrata di funzioni e informazioni, necessariamente governate in modo unitario e disponibili per più operatori o imprese.
D. Considerata la sua conosciuta attenzione al sociale, quali provvedimenti adottati di recente dalla sua Commissione possono valorizzare questo ambito?
R. Due sono i provvedimento che abbiamo autonomamente presentato in commissione e approvato: il primo è quello sugli orari degli esercizi commerciali, un tema assai complesso che mette a confronto idee e impostazioni differenti; l’altro è quello sul commercio equo solidale. Il primo tende a mitigare le visioni contrapposte di chi vorrebbe una totale liberalizzazione del commercio sulle 24 ore per 365 giorni l’anno e chi ritiene invece necessario che siano garantiti alcuni giorni dell’anno di chiusura per tutti, sia per una questione di valori, sia per il rapporto con il lavoro e i cicli produttivi. Ci sono festività che vanno comunque rispettate. La Commissione Attività produttive è riuscita a trovare una sintesi intelligente individuando 12 giorni l’anno di festività obbligatorie con una flessibilità che consente di adattarle alle diverse necessità dei territori in modo da rispettarne tradizioni e opportunità tra flussi turistici e necessità commerciali, preservando così le stagionalità. Vorrei ricordare a questo proposito che in Europa non esiste una liberalizzazione così ampia come quella italiana, basti pensare alla Francia o alla Germania dove gli esercizi commerciali chiudono regolarmente una volta alla settimana. Quella adottata è una soluzione temperata e non penalizzante per il sistema commerciale. Il secondo esempio è quello della disciplina del commercio equo solidale dove siamo intervenuti in un settore a torto considerato minoritario nelle attività, costituito da una grande attenzione e sensibilità non solo alla qualità dei prodotti, bensì ai sistemi adottati e al rispetto dei lavoratori. E un’occasione per salvaguardare l’identità di alcune culture nella produzione di beni territoriali. Vorrei infine ricordare un terzo provvedimento, quello sulla tracciabilità dei prodotti che li rende facilmente individuabili nelle diverse componenti, ad esempio tipo e provenienza dei tessuti di un capo di abbigliamento o di un manufatto artigianale, e garantisce di risalire all’intera filiera, dall’origine sino al consumatore, offrendo così una trasparenza d’informazioni che migliora la qualità e rende ogni cittadino capace e libero di scegliere in piena consapevolezza. Questo evita tra l’altro frodi di ogni tipo, che sempre più inquinano i mercati nel contesto di una diffusa mondializzazione.
D. Lo scenario politico internazionale non è privo di ombre e preoccupazioni, qual è la sua valutazione?
R. Stiamo vivendo una fase di accentuata incertezza. Mi riferisco in particolare al referendum inglese. La Brexit apre scenari insondabili. Dovremo affrontare una navigazione per mari incogniti. Dovremo tenere il timone bene a dritta, molto coraggio e una condivisione ampia nel rispetto dei popoli. Gli effetti di questa scelta sono comunque rilevanti. Il tema vero è quello politico: è difficile immaginare un’Europa in cui le spinte centrifughe si ripropongano in modo costante. È necessario riflettere sia sul funzionamento della Ue, sia sulle strategie che essa si è data, perché in modo palese non soddisfano quote rilevanti di popolazione. Vi sarà un perché una parte di cittadini inglesi hanno scelto per una antistorica uscita dall’Unione europea e pensano che il ritorno ad una sovranità nazionale esclusiva sia la risposta alle grandi questioni attuali, dalle immigrazioni alla globalizzazione. Non vedo in questo momento una reazione a Bruxelles come nei singoli Paesi coerente con questi interrogativi e con le richiese pressanti dei popoli, soprattutto dei ceti meno abbienti, che contrasti i nuovi nazionalismi, produca benefici diffusi per tutti i popoli ed eviti proposte di scissione a scacchiera. Occorre rafforzare il modello europeo, renderlo più dinamico, ma soprattutto vicino alle necessità dei cittadini, in grado di alimentare sicurezza, sviluppo, futuro, elementi determinanti per costruire una comunità civile e coesa. Il nostro Paese è, purtroppo, ancora invischiato in una crescita estremamente contenuta, non in grado di invertire le tendenze complessive dell’economia dopo una caduta senza precedenti dei fattori produttivi e dei redditi. Malgrado quanto di buono fatto dal Governo, il Paese non reagisce a sufficienza, dobbiamo investire nel futuro con determinazione superando le mille paure che frenano gli investimenti delle famiglie e delle imprese e determinano una stagnazione che ha effetti molto onerosi sulla parte più fragile della popolazione. Talvolta siamo in presenza di situazioni incomprensibili, faccio l’esempio di tante aziende per le quali si comprende perché abbiamo dovuto vendere a debito. Bene vendere quando si progetta di accrescere e rafforzare la presenza sul mercato, non appesantendo i bilanci per l’impresa, bensì alimentandola di capitali e di investimento atti a migliorarne la competitività. Il Paese purtroppo è attraversato da una divisione profonda che aggrava una crisi sociale di lunga data. Il compito che ha il PD è quello di interrogarsi con onestà sul perché le cose positive fatte non siano sufficienti. Ritengo indispensabile il rafforzamento della coesione sociale, come cardine per un crescita condivisa del Paese, che non può lasciare indietro ampi strati della sua popolazione, soprattutto al meridione. Occorre offrire opportunità condivise per evitare ulteriori chiusure.
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