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Luca Pancalli (Comitato Paralimpico Italiano): dopo i fasti di Rio e la delusione di Roma auspico una grande crescita culturale

Luca Pancalli, presidente del Comitato Paralimpico Italiano e vicepresidente del Comitato Promotore «Roma 2024»

Luca Pancalli nasce a Roma il 16 aprile 1964. Sin da ragazzo si dedica al pentathlon moderno, vincendo tre campionati italiani giovanili. Dopo un grave incidente a cavallo che lo rende disabile, continua a praticare l’attività sportiva ad altissimo livello. Partecipa come nuotatore a quattro edizioni dei Giochi paralimpici, dove conquista in totale otto ori, sei argenti e un bronzo. Diventato dirigente sportivo, nel 2000 assume la presidenza della Fisd (Federazione sport disabili) che, tre anni dopo, diventa il CIP (comitato italiano paralimpico), organismo di cui, dal 2005 ad oggi, viene confermato alla Presidenza.
Pancalli dal 2005 al 2012 è vice presidente del Coni e dal 2005 è segretario generale del Comitato Paralimpico Europeo; mentre tra il 2006 e il 2007 è commissario straordinario della Federazione italiana giuoco calcio (Figc). Dal 2009 al 2013 dirige anche l’Istituto di medicina dello sport del Coni e nel 2011/2012 assume l’incarico di commissario straordinario della Federazione italiana danza sportiva. Dal marzo 2015 al mese scorso è stato vicepresidente del Comitato promotore «Roma 2024».

Domanda. La candidatura di «Roma 2024» è durata 36 mesi. Nell’ultimo anno però si è avuto la percezione che la capitale avesse molte chance di vincere. A cosa era dovuto questa sensazione ?
Risposta. Anzitutto, per la prima volta si era riusciti a comunicare l’idea di una squadra, formata dal Governo, dal Comitato promotore, dal Coni, dalla Regione e dalla precedente amministrazione della Capitale, molto coesa nel lavorare per un preciso obiettivo. Aggiungerei a questo, lo straordinario lavoro di relazioni internazionali compiuto dal presidente del Coni Giovanni Malagò e dal presidente del Comitato promotore «Roma 2024» Luca di Montezemolo, supportato dalla forte onda di entusiasmo manifestata dal mondo dello sport e, anche, da altri rappresentanti della società civile come, ad esempio, gli ambientalisti.

D. Tra i tanti, quale era a suo giudizio il punto di forza incontrovertibile e vincente del dossier presentato in esame al Comitato olimpico internazionale?
R. Logisticamente, il fatto di partire con il 70 per cento degli impianti già esistenti mentre, economicamente, la possibilità di lavorare in un contesto ad impatto low cost rispetto ai due eventi, olimpico e paralimpico. Infine, consideravo privilegiata e trascinante la location olimpica di Roma, già di per sé un punto di forza in quanto città amata ed ammirata in tutto il mondo.

D. A luglio dello scorso anno il presidente del Cio Thomas Bach, ricevendo le prime carte del vostro dossier, si disse «impressionato da come la città dimostra di aver preso a cuore la candidatura». Eravamo, forse, già «in vantaggio» ?
R. Non so dirlo, ma posso rimarcare il lavoro straordinario che si stava conducendo per tessere la tela dei rapporti internazionali con i membri del Cio, che a settembre del 2017 si pronunceranno. Non dimentichiamo mai che il sogno olimpico passa, da sempre, attraverso i potenti gruppi di elettori che rappresentano vere e proprie lobby a cinque cerchi. Se uniamo, allora, la nostra buona diplomazia federale con l’ottimo progetto presentato, con il quale la nostra Olimpiade si sarebbe messa a disposizione della città, allora probabilmente avevamo una situazione che ci poneva, come approccio, in vantaggio sugli altri concorrenti.

D. Dopo il no della Raggi, lei ha espresso profonda amarezza ma ha anche detto che, forse, non eravate stati abbastanza bravi a comunicare la bontà del progetto, in assenza, comunque, di una possibilità di farlo che vi è stata negata. Questo sottintende qualche vostro errore commesso?
R. No. Sottolineavo solo che è incontestabilmente mancato il momento di confronto. Io sono sempre stato molto rispettoso delle istituzioni e penso che le persone che le rappresentano passano ma le istituzioni rimangono. Nella mia vita, quindi, sono sempre stato disponibile a discutere la bontà o meno delle mie idee, pensando che solo con un sereno scambio di punti di vista si possa prendere la giusta decisione. Ecco, quello che è mancato con Roma Capitale è stata la possibilità di dialogare serenamente sull’argomento.

D. Nell’arco di 50 anni il movimento sportivo disabili ha trasformato la sua originaria connotazione di sport di categoria in un movimento nazionale di primissimo piano, parallelo ma integrato con il movimento olimpico. Il Cip, proprio lo scorso agosto, è stato scorporato dal Coni ottenendo il riconoscimento di ente pubblico per lo sport. Quando è iniziato il cambiamento reale ?
R. La grande trasformazione è avvenuta negli ultimi 16 anni perché, dal 2000, abbiamo iniziato a costruire un puzzle con i risultati conquistati. Un pezzo fondamentale della nostra crescita riguarda la comunicazione ed i rapporti con i media. Apripista è stata la copertura tv di Sky nei X Giochi paraolimpici di Vancouver del 2010. Dopo si è affiancata la Rai che ci sta tuttora accompagnando. Questo ha permesso di fare innamorare del nostro movimento tante persone, specie quelle non disabili. Abbiamo, quindi, dato voce e notorietà a tutta quella miriade di piccole, grandi, straordinarie iniziative che noi quotidianamente portiamo avanti come il lavoro nelle unità spinali, nei centri di riabilitazione, nel rapporto con l’Inail per il recupero degli infortunati sul lavoro utilizzando lo sport. L’unione di tutto questo ha creato un effetto domino suggellato dallo straordinario successo agonistico ottenuto a «Rio 2016» la scorsa estate.

D. 67 è il bottino totale delle medaglie conquistate dagli atleti italiani nei Giochi brasiliani, di cui 28 olimpiche e 39 paraolimpiche, il vostro miglior risultato in 44 anni. A che si deve tale differenza di numero?
R. Dipende da tanti fattori. È vero che noi abbiamo più gare in alcune discipline come, ad esempio, nel nuoto per effetto delle tante categorie presenti, ma è pur vero che ci sono meno discipline sportive totali nel programma paralimpico e che, rispetto a quello olimpico, il nostro settore conta molti meno atleti. Non darei, però, giudizi di paragone sui numeri conquistati perché considero questi due mondi un’unica grande famiglia vincente dello sport italiano. Dopodiché, però, ci scherziamo sopra e «sfottiamo» gli olimpici dicendogli che siamo più bravi di loro.

D. Qual è la missione del mondo del paralimpismo da lei gestito e che importanza riveste nell’intera società civile ?
R. Portare gli atleti alle paralimpiadi è solo una parte della nostra missione. Quella più importante è il favorire una percezione diversa della disabilità nel paese che serva a tenere i riflettori accesi su tante tematiche riguardanti le «quotidiane paralimpiadi» che tanti disabili sono costretti a vivere, mi limito ad alcuni esempi, a causa delle barriere architettoniche e sensoriali nelle città, o della mancanza del rispetto del diritto al lavoro o del diritto ad una vita indipendente.

D. Lei ha recentemente affermato che la sua vera gioia è quella di dare allo sport odierno dei disabili quella dignità che non c’era al tempo in cui lei gareggiava. Perché accadeva tale ingiustizia ?
R. Nel 2000, lasciato l’agonismo, ho iniziato il mio percorso da dirigente sportivo, cercando di garantire ai miei atleti quel rispetto della dignità che io non avevo mai ottenuto. Fino agli anni 90 di noi atleti disabili non si parlava affatto o se ne parlava in maniera commiserevole. Quindi, eravamo costretti ad andare a pietire attenzione sui risultati ottenuti. I vari corpi sportivi dello Stato, poi, non avevano ancora aperto le porte a noi atleti con disabilità. Per esempio, non esisteva un gruppo paralimpico del Ministero della Difesa, cui invece abbiamo dato vita successivamente grazie ad un accordo con lo Stato maggiore che ha così permesso ai militari, che hanno subito delle lesioni permanenti in servizio, di utilizzare lo sport come strumento di inclusione. Poi, dal 2012, sono arrivati i primi sponsor. A parte il lungo rapporto con l’Inail che è un nostro partner privilegiato, oggi abbiamo il sostegno, tra gli altri, del gruppo Mediobanca, dell’Eni, della Fondazione Terzo Pilastro e della Barilla, che ci aiutato per Casa Italia Paralimpica a Rio la scorsa estate.

D. Papa Francesco, intervenendo di recente alla prima conferenza internazionale su «Sport e Fede» in Vaticano, ha sottolineato quanto il movimento paralimpico sia importante per promuovere i disabili. Cosa muovono in lei le parole del Santo Padre ?
R. Sono di fondamentale importanza, perché essere ricordati dal Papa rappresenta un ulteriore suggello alla consapevolezza di essere riusciti ad uscire dalla «riserva degli indiani» in cui eravamo rinchiusi, come anche di far conoscere al mondo intero quello che sta facendo il movimento paralimpico internazionale. Vorrei ricordare che, per nostra scelta, Casa Italia paralimpica a «Rio 2016» è stata ospitata all’interno della parrocchia della Imaculada Conceição e, al termine dei Giochi, le strutture realizzate per l’evento sono state donate alle persone disabili. Abbiamo, inoltre, realizzato una serie di iniziative dedicate alle popolazioni delle favelas legate alla parrochcia, tra queste la realizzazione di un campo sportivo polifunzionale per avviare i giovani parrocchiani disabili alla pratica sportiva, perché potessimo lasciare una testimonianza concreta del nostro impegno.

D.  Quale è l’importanza di avere tra le vostre fila atleti di eccezionale comunicazione mediatica come «IronMan» Zanardi, che lo scorso mese è tornato a gareggiare in auto, vincendo incredibilmente subito una gara di Gran Turismo al Mugello ?
R. Zanardi è fondamentale per noi. È una sorta di «front man» del nostro movimento, quello che ci aiuta anche nella gestione della comunicazione per far conoscere al meglio il mondo paralimpico cui lui orgogliosamente appartiene. La cosa bella è che oggi, accanto ad Alex, abbiamo scoperto tanti altri personaggi, straordinari nella capacità di interpretare i valori paralimpici e di comunicarli. Penso, tra i tanti, a Bebe Vio, a Oney Tapia, a Martina Caironi, a Monica Contrafatto, che si sono fatti conoscere attraverso lo sport ed ora sono i nostri migliori comunicatori. Con il loro esempio, infatti, riescono a donare molta speranza a tanti ragazzi e ragazze disabili del paese che magari sono in un letto d’ospedale e pensano che la loro vita sia finita dopo un incidente stradale od una grave patologia.

D. A che livelli è il doping nel paralimpismo ?
R. Purtroppo il problema esiste anche nel nostro ambiente. Non a caso proprio una vicenda di doping ha portato all’esclusione di tutti i 267 atleti paralimpici russi dalle Paralimpiadi di Rio per decisione del Comitato paralimpico internazionale (Ipc), confermata dal Tas, il Tribunale arbitrale sportivo. In Italia contiamo dei casi estremamente isolati, ma ci siamo attrezzati sin dalla prima ora per arginare al massimo il fenomeno con controlli molto rigorosi e, soprattutto, con una politica ed un percorso formativo e informativo rivolto agli atleti ed ai tecnici. Tali concetti si basano sul principio che non si possono alterare le regole solo per vincere, proprio perché il nostro è un movimento consacrato ad una mission che passa per la vittoria ma non si esaurisce con il suo ottenimento. Ovviamente, c’è da considerare che molti dei nostri atleti fanno uso di sostanze farmacologiche per curare le loro patologie per cui è tutto molto più delicato e complesso da affrontare; ma si fa.

D.  Un giorno nel mondo dello sport, Olimpiadi comprese, si potrà arrivare a disputare gare miste tra normodotati e portatori di handicap ?
R.  Nel futuro, tutto sarà possibile, ma solo e quando tale percorso sarà accompagnato da un adeguato e parallelo processo di crescita culturale. Però, la strada è già tracciata.

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