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PAOLO BRUNI: CSO, UNA PERA (ITALIANA) AL GIORNO PER L’EUROPA E PER I PAESI EXTRAEUROPEI

Il CSO, Centro Servizi Ortofrutticoli, opera nell’ambito delle attività di valorizzazione e marketing attraverso azioni volte a sostenere l’immagine del sistema ortofrutticolo italiano e a promuovere l’offerta di qualità. Negli anni ha realizzato progetti innovativi per valorizzare la tipicità dei prodotti e per sostenere il consumo di frutta, come ad esempio i programmi europei Mr Fruitness attuato in Germania, Austria, Regno Unito, Svezia e Polonia, volto a combattere l’obesità di bambini e adolescenti, e Sapori d’Europa nei Paesi Terzi - Russia, Giappone, Canada e Stati Uniti - per incrementare la commercializzazione di ortofrutta fresca e trasformata attraverso il concetto della dieta mediterranea.
Sono quattro le divisioni in cui si articola il CSO: statistica e osservatorio di mercato; comunicazione e marketing; progettazione e sviluppo nuovi mercati; internazionalizzazione e filiera. La prima fornisce analisi sul mondo ortofrutticolo, dalla produzione agli aspetti inerenti la commercializzazione. In particolare la sezione nell’ambito degli studi produttivi si occupa dell’elaborazione dei dati sull’estensione degli impianti, delle previsioni di produzione in anticipo rispetto alla raccolta delle principali specie frutticole, della stima delle produzioni finali; per quanto riguarda gli aspetti commerciali l’attività si incentra sul monitoraggio delle giacenze, dei prezzi di mercato, dell’export e dei consumi di ortofrutta. Il CSO cura inoltre molteplici studi volti ad evidenziare i punti di forza e di debolezza del settore ortofrutticolo italiano.
La divisione Comunicazione e Marketing, invece, si occupa delle attività promozionali, della partecipazione degli associati a fiere nazionali e internazionali, della progettazione e gestione di grandi eventi di comunicazione. La sezione Progettazione e Sviluppo cura i nuovi mercati, la presentazione e gestione di progetti finanziati anche da enti pubblici; gran parte dell’attività è incentrata sull’apertura e lo sviluppo di nuovi sbocchi per le produzioni italiane nei Paesi extraeuropei, attraverso l’abbattimento di barriere fitosanitarie che spesso ne impediscono l’accesso. In questo ambito, inoltre, viene compiuto un aggiornamento legislativo, fin dalla fase della proposta, sui più significativi provvedimenti legislativi che possono avere effetti diretti e concreti sulle attività connesse alla produzione e alla commercializzazione di ortofrutta.
Dal primo gennaio 2012 fanno parte del CSO le imprese della filiera ortofrutticola, come ad esempio packaging, imballaggi e macchinari per la lavorazione dell’ortofrutta, con l’intenzione di creare maggiori sinergie fra tutti gli attori della filiera. La sezione internazionalizzazione e filiera si occupa in particolare di sviluppare la presenza delle aziende socie sui mercati esteri, anche emergenti. Da molti mandati presiede il Centro Servizi Ortofrutticoli, che ha sede a Ferrara, Paolo Bruni, che così illustra l’attività dell’organismo.

Domanda. Oltre a presiedere il CSO fin dalla sua costituzione, qual’è la sua attività?
Risposta. Sono stato fino al 2009 presidente della Federagri-Confcooperative, che riunisce le cooperative agroalimentari italiane; dal primo gennaio 2010 ho assunto l’incarico di presidente della Cogeca, la Confederazione generale delle cooperative agroalimentari europee: 38 mila cooperative nei 27 Paesi dell’Unione Europea, che fatturano 360 miliardi di euro nei vari comparti dell’agroalimentare di tutta Europa, dove questo settore è il primo. Si sta scrivendo ora la PAC, la politica agricola comunitaria che andrà in vigore dal 2013 al 2020: abbiamo alcuni anni di impegnative negoziazioni con le istituzioni europee, il Parlamento, la Commissione europea e il Consiglio dei ministri agricoli europei, per trovare le linee strategiche di indirizzo e di incentivi in favore del settore agricolo.

D. In quali condizioni è il settore agricolo in Italia?
R. È il primo settore: sebbene la percentuale oggi destinata all’agricoltura non sia più pari a quella di 50 anni fa quando è nata l’Unione Europea, il 37 per cento delle risorse del bilancio europeo sono ancora dedicate al settore primario. La posta in gioco è rilevante e battersi ora sui tavoli comunitari per salvaguardare l’agricoltura europea per noi italiani vuol dire salvaguardare un settore ragguardevole, poiché nella considerazione dell’agroalimentare in tutta Europa e nel mondo il made in Italy è un valore aggiunto.

D. Per cosa è nato il Progetto Ortofrutta d’Italia, coordinato dal CSO?
R. Il progetto è nato grazie al finanziamento di 16 aziende significative del settore ortofrutticolo italiano e alla volontà delle maggiori organizzazioni di produttori ortofrutticoli con base prevalentemente nel Nord d’Italia, area in cui l’agricoltura e l’ortofrutta sono maggiormente organizzate. Con esso intendiamo promuovere i prodotti ortofrutticoli italiani chiamando a raccolta l’impegno e i valori condivisi dalla larga maggioranza delle imprese agricole italiane.

D. Parla di imprese del Nord perché nel Mezzogiorno è diminuita la produzione ortofrutticola?
R. Il futuro dell’ortofrutta, per ragioni climatiche, si sposterà sempre di più verso il Mezzogiorno, ma è nelle regioni del Nord che oggi sono presenti le organizzazioni più sviluppate, avviate tanti anni fa e articolatesi in strutture solide. Sono queste stesse che hanno portato avanti il progetto di valorizzazione e di promozione della frutta e della verdura italiana per diffonderla tra i consumatori. Con studi di settore ci siamo resi conto che dal 2000 ad oggi i consumi di ortofrutta sono calati di circa il 14 per cento, con inevitabili conseguenze anche sulla salute e sul benessere fisico: consumare frutta e verdura assicura un apporto di benessere superiore ad altre tipologie alimentari, ed esiste il bisogno di rilanciare questi consumi così come c’è bisogno di promuovere ulteriormente l’internazionalizzazione delle imprese.

D. Quale rapporto esiste tra la produzione e i consumi?
R. In Italia produciamo circa 36 milioni di tonnellate di frutta e di verdura mentre ne consumiamo mediamente da 8,5 a 9 milioni di tonnellate. Ciò significa che gran parte della produzione italiana deve conquistare i mercati esteri, se vogliamo dare un futuro al settore. Il Progetto Ortofrutta d’Italia è nato proprio per promuovere i nostri prodotti in tutti i contesti, nazionali e internazionali, e per questo le imprese interessate hanno messo a punto una campagna mediatica, oltre ad altre iniziative promozionali avviate o da avviare. Un esempio è il progetto «Frutta nelle scuole», cofinanziato anche dall’Unione Europea, con l’obiettivo di insegnare ai bambini delle scuole elementari e medie inferiori a consumare frutta e verdura, anziché solo merendine. Dobbiamo reintrodurre presso i giovani questa cultura, riavvicinare la terra alla tavola e far capire che non si mangia plastica, bensì prodotti che abbiano un rapporto con l’organismo umano e con il relativo benessere. Obiettivo non meno essenziale è il contrasto all’obesità, ossia il problema del sovrappeso che ormai colpisce un bambino su tre.

D. Gli italiani consumano di più la frutta che proviene dai mercati esteri?
R. I fronti sono due e debbono marciare parallelamente, ma sono distinti. Il Progetto Ortofrutta d’Italia ha una motivazione nazionale, cioè il nostro obiettivo è quello di promuovere e incrementare il consumo di frutta e verdura italiana cercando di far comprendere al consumatore che occorre reintrodurre il concetto della «stagionalità»: è inutile e sbagliato in questo periodo andare a cercare le ciliegie. Mangiare italiano vuol dire anche mangiare secondo i dettami delle stagioni: è in questi periodi che arance, pere, mele, kiwi sui banchi sono prevalentemente italiani. Se acquistiamo fuori stagione, consumiamo frutta e verdura non europee, perché le produzioni dell’Europa soggiacciono tutte agli stessi disciplinari di produzione e alle stesse tecniche colturali e di rispetto dell’ambiente; è diverso invece per i prodotti extraeuropei. Un esempio sono le banane, che in alcuni Paesi vengono ancora trattate con sostanze da noi vietate da 20 anni. Inoltre, è decisivo controllare le etichette apposte sui prodotti, perché etichetta di origine significa trasparenza.

D. Quali altri progetti sono seguiti?
R. Le stesse imprese si preoccupano di aumentare i consumi di frutta e verdura nei Paesi del Nord Europa, nei quali le nostre esportazioni sono sempre più frequenti ma che hanno ancora una quantità di consumi molto inferiore anche rispetto a quella italiana. Mediamente una famiglia italiana consuma circa 120-125 chilogrammi di ortofrutta all’anno, ma i valori nel Nord Europa sono circa la metà, quindi c’è un gran lavoro da compiere anche nei Paesi nordici, che seguiamo con progetti europei come il «Mister Fruitness», un braccio di ferro moderno che insegna questi valori fin dalle scuole in Svezia, Finlandia, Danimarca, Germania e così via.

D. E sul fronte extra-europeo?
R. Fuori dai 27 Paesi dell’Unione Europea - pensiamo agli Usa, alla Russia, al Messico, al Brasile, al Giappone, alla Corea del Nord, alla Corea del Sud ad esempio -, stiamo trovando consistenti sbocchi per le nostre produzioni e occorre svolgere un lavoro diplomatico, diretto ad abbattere le cosiddette «barriere fitosanitarie» che determinati Paesi erigono per proteggere i loro mercati. In realtà sono barriere commerciali camuffate, perché quelle vere e proprie non sono più possibili con la liberalizzazione. Vengono addotte così questioni sanitarie, ma sappiamo che i nostri prodotti ortofrutticoli sono molto più garantiti di quelli del resto del mondo. Da qui il rilievo che assume il Ministero delle Politiche agricole italiano nei rapporti con gli altri Paesi.

D. Sta dicendo che noi importiamo di più ed esportiamo di meno?
R. A livello europeo siamo stati molto liberisti nella politica degli ultimi vent’anni aprendo le nostre frontiere, e non abbastanza rigorosi nel pretendere la reciprocità. Siamo grandi produttori di ortofrutta e grandi esportatori, è maggiore la quantità dell’export rispetto a quella dell’import. Ma ci sono enormi spazi per incrementare il nostro export di fronte a una produzione possente. Occorre che quei Paesi, in particolare quelli dell’area BRIC, siano come siamo stati noi, ossia liberisti nell’aprire le frontiere ai nostri prodotti. Dobbiamo imporci maggiormente nel pretenderlo, pena azioni energiche e dimostrative che possano far comprendere ai governanti europei l’importanza della reciprocità. Mi consola il fatto che su questo problema c’è oggi maggiore consapevolezza rispetto agli anni passati.

D. Per quale motivo tutti i nostri agricoltori si lamentano? Per il solito ostruzionismo estero?
R. Vi sono più motivi. L’apertura di nuovi mercati e di nuovi sbocchi è un profilo, e va portato avanti. Un altro è quello degli «oneri sociali»: sulle nostre imprese ortofrutticole gravano oneri sociali sul costo del lavoro più alti di quelli degli altri Paesi, e ciò incide sulla competitività. Questo si traduce in una minore forza competitiva delle nostre produzioni rispetto a quelle di altri Paesi, che riescono a portare su mercati stranieri gli stessi prodotti a costi inferiori. Un altro motivo riguarda la logistica, non sviluppata né sufficiente: trasporti, imballaggi, accelerazioni, tempi. Per arrivare a Napoli l’uva pugliese passa per Milano.

D. Crede che la filiera sia resa più complessa per far guadagnare altre imprese?
R. Vi sono ancora troppi passaggi tra produttore e consumatore finale. È per tale ragione che in tutti questi anni ho sempre creduto nella necessità di cooperative ben strutturate capaci di fare una politica di vendita adeguata. È chiaro che, se i produttori sono polverizzati ed ognuno resta in una singolarità frazionata, non si possiede un potere contrattuale dinanzi alla distribuzione finale, e si resta costretti ad affidarsi a mediatori e commercianti.

D. Le imprese si stanno coalizzando?
R. Meno della metà dell’ortofrutta italiana è già organizzata; l’altra metà, o poco più, è ancora polverizzata, il che significa disorganizzata. Più un agricoltore è solo, più è vittima dei tanti passaggi che andranno tra la sua terra e la nostra tavola; più un produttore è in compagnia, più ha potere contrattuale per essere incisivo nelle politiche di vendita.

D. Lo scorso febbraio siete stati presenti con lo stand «Piazza Italia 2012» nella Fiera Fruit Logistic svoltasi a Berlino, la più grande del mondo dedicata all’ortofrutta. Com’è andata e a cosa serve questa manifestazione?
R. Costituisce un luogo di incontro tra produttori, distributori e acquirenti, la più grande fiera a livello mondiale. Abbiamo fatto una grande promozione della pera Abate, la pera Regina Igp dell’Emilia Romagna. L’Italia è stato il Paese con il maggior numero di espositori - 450 su 2.500 -, e da questa cifra emergono la nostra forza ma anche la nostra debolezza. La presenza massiccia dell’Italia è il lato positivo, un quinto della Fruit Logistic era rappresentato dal nostro Paese e questo significa che siamo grandi produttori di ortofrutta; ma se quei 450 espositori, rappresentando la stessa quantità di frutta, fossero 100, avrebbero nei confronti dei buyers un potere contrattuale molto maggiore.

D. In che modo il CSO ha dimostrato di possedere le caratteristiche strategiche e tecniche per svolgere un ruolo chiave di assistenza alle imprese associate?
R. Il Centro Servizi Ortofrutticoli è nato 14 anni fa e interpreta bisogni nazionali, visto che la base sociale conta oggi imprese dislocate sull’intero territorio nazionale, anche se ancora maggiormente concentrate nel Nord. Stiamo cercando di incrementare ed unire maggiormente le produzioni del Sud, che costituiscono il futuro dell’ortofrutta: la meridionalizzazione è garantita dal clima e da caratteristiche tipicamente meridionali. Il CSO è per sua natura un organismo orizzontale, cioè vi aderiscono aziende private e cooperative di varia provenienza, non è un organismo che ha delle bandiere ma che offre servizi. Abbiamo cercato di incidere sui punti vitali delle nostre debolezze, di avere una migliore programmazione grazie alle stime di previsione, una logistica più funzionale e una maggior promozione dell’uso di frutta e verdura per contrastare il calo dei consumi.

D. Che cosa auspica di raggiungere prima della fine del suo mandato?
R. Come presidente della Cogeca, la Confederazione generale delle cooperative agricole dell’Unione Europea, vorrei garantire una continuità nelle politiche europee per il settore agricolo e agroalimentare, per non cadere in un eccesso di liberismo. Da italiano, cercherei di superare gli handicap che ci rendono non competitivi, anche con gli stessi Paesi europei, e non solo con i Paesi extraeuropei, come dire una battaglia nella battaglia. Occorre un’Italia più aggressiva, più organizzata, sinergica e dinamica.

D. Ma questo non rende i nostri agricoltori ancora più solitari nel timore di dividere con altri quel poco che hanno?
R. Non penso e non voglio pensare questo, e credo che i dati oggettivi costringano le persone a valutare concretamente come stanno le cose. Oggi è più che mai di attualità il vecchio detto «L’unione fa la forza».

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