Pasquale De Vita: caro-benzina, come ridurre costi e prezzi
Due gare, tra loro distanti e separate, vengono disputate nel mondo: da una parte il fisiologo neozelandese K. H. Morton e dall’altra l’inglese Chris Skrebowski. Il primo, forse stimolato dal record di velocità umana segnato il 15 giugno da Asafa Powell sulla pista dello stadio olimpico di Atene, con cento metri in 9 secondi e 77 centesimi, ha elaborato un modello matematico per segnare il limite invalicabile dell’uomo: 9 secondi e 15 centesimi, precisando che verrà toccato nel lontano 2554 da un «bipede umano di 35 anni». Meno ottimista l’inglese, direttore del serioso periodico «Petroleum Review», sul limite dell’aumento dei consumi petroliferi e dei suoi costi.
Senza ombra di dubbi Chris Skrebowski prevede in tempi vicinissimi livelli inimmaginabili: 80 dollari al barile tra 3 anni, 101 dollari nel 2010, quando la domanda mondiale di petrolio passerà dagli attuali 84,6 milioni di barili ai 95,7 al giorno. Fino all’esaurimento delle scorte sotterranee che potrà lasciare a secco un mondo che «ormai è già in riserva», avendo consumato circa la metà della dotazione globale di greggio calcolata in 2 mila miliardi di barili. Possiamo aspettare i 5 secoli che ci separano dal record umano su pista, ma riguardano tutti e da vicino il record continuo del prezzo del petrolio e la sua disponibilità, indispensabile quanto l’aria e l’acqua alla vita quotidiana e all’economia di un mondo abitato da 6 miliardi di individui.
L’argomento viene dibattuto sempre più spesso, ma comunque gli interrogativi rimangono invariati: costi in aumento, consumi mondiali in crescita, consistenza delle scorte sotterranee. «Quanto c’è da credere ai pessimisti?», è la domanda che poniamo a Pasquale De Vita, presidente dell’Unione Petrolifera Italiana.
Domanda. Si leggono studi preoccupati, dichiarazioni allarmanti di esperti, geologi, ecologisti e studiosi del «picco del petrolio», sulla consistenza residua dei giacimenti e sulla necessità di fonti alternative. Quali prospettive prevede per il futuro?
Risposta. Sono tutte buone esercitazioni, ma non è il greggio che manca. Ha detto lo sceicco Ahmed Zaki Yamani che «l’età della pietra non è finita perché sono finite le pietre: è finita perché si è trovato qualcosa di meglio». Il consumo di greggio finirà quando si troverà qualcosa di meglio; secondo le previsioni, crescerà fino a 120 milioni di barili al giorno, con un aumento del 50 per cento nei prossimi vent’anni, ma è probabile che già allora possa essere scoperto qualcosa di nuovo per sostituirlo. La tecnologia, del resto, ci ha abituato a tante sorprese.
D. I prezzi sono in continuo aumento. Ma un blocco tariffario non è consentito dall’Unione europea in un mercato liberalizzato, e una riduzione del carico fiscale non è prevedibile con gli attuali problemi di bilancio. Che cosa può esservi di nuovo?
R. La volontà, espressa dal nuovo ministro della Attività produttive Claudio Scajola, di impegnarsi nel progetto di ristrutturazione della rete di distribuzione, che presenta due problemi, uno strutturale e uno comportamentale. Il primo è che la nostra rete è rimasta arretrata rispetto a quella europea. Non si sono fatti grandi investimenti per innovare e ampliare le attività delle aree di servizio. Le pompe self service, che permettono un risparmio per l’utente, sono il 40 per cento del totale rispetto al 90 per cento del resto d’Europa. Abbiamo impianti che vendono in media un milione e mezzo di litri l’anno mentre in Europa ne vendono tre milioni. Non abbiamo le attività «non oil», cioè le offerte commerciali diverse dal carburante, che il resto d’Europa ha e che consentono di ridurre il costo della distribuzione. Non si sono potuti razionalizzare i servizi di rifornimento dei carburanti né sviluppare l’offerta all’automobilista di prodotti alimentari, di abbigliamento, di souvenir, compact, giornali, libri, giocattoli, cosmetici. Nel costo del rifornimento registriamo un gap notevole nei confronti dei nostri vicini d’Europa. Abbiamo poi altre situazioni strutturali che vengono ad aggravare i costi.
D. In cosa consistono?
R. Le raffinerie sono in gran parte situate nelle isole, lontane dai punti di rifornimento: una scelta fatta in passato per creare occupazione; questo per noi significa, però, spendere molto più degli altri per il trasporto del carburante. Tutto questo genera un divario stabile sul quale c’è poco da fare. Se poi guardiamo al futuro della rete, ci scontriamo con una serie di difficoltà burocratiche, con vincoli che è necessario rimuovere. Bisogna dare atto ai ministri precedenti di aver cercato di varare norme destinate ad agevolare le soluzioni, ma poi nell’applicazione pratica si sono incontrate localmente tante difficoltà per cui si è riusciti a fare poco. Unico risultato ottenuto è stata la chiusura di alcune migliaia di impianti, decisa volontariamente dalle società per ridurre i costi e razionalizzare quanto meno la distribuzione dal punto di vista numerico. Ora il nuovo ministro sembra determinato, come abbiamo detto, a rilanciare il problema.
D. I distributori di carburante sono di proprietà di privati o delle società petrolifere? Gli ostacoli alla chiusura, per ridurne il numero, sono posti dalle compagnie o dai privati?
R. La rete italiana è costituita per il 70 per cento da impianti di società petrolifere e per il 30 per cento da impianti di privati, legati ad esse con convenzioni in base alle quali le compagnie provvedono a rifornirli in esclusiva ed espongono su di essi la propria insegna. Le società hanno compiuto il proprio sforzo negli anni passati per eliminarne molti, con un accordo che fu approvato dalla Commissione Antitrust. Dai distributori indipendenti, ossia privati, ne è stato chiuso solo qualche centinaio, un numero molto inferiore alla previsione. Ma non è tanto questo che ha fatto da zavorra al mercato italiano, ancora appesantito da troppi fattori. La difficoltà non consiste soltanto nel chiudere alcuni impianti, operazione che comunque è stata fatta, quanto, come detto, nell’attuare iniziative dirette alla loro ristrutturazione e all’innovazione.
D. A quanto ammonta il costo del servizio e la percentuale di guadagno per il gestore?
R. Il gestore italiano percepisce unitariamente qualcosa in più del gestore europeo, ma non guadagna più di quest’ultimo, che può contare su vendite assai più elevate di carburante e sui proventi da altre voci. Questa è la differenza e questo è il problema da affrontare: occorre elevare l’efficienza sviluppando altre attività nei punti vendita di carburanti, modificando le regole sul commercio, applicando le misure che dal punto di vista legislativo sono state varate, ma che nella pratica non vengono osservate. La normativa è in vigore, però in fase di applicazione perde la forza. È insomma difficile cambiare la situazione a causa delle resistenze in atto. Si sosteneva tanto che bisognava liberalizzare il commercio; ora che questo è avvenuto, ben poco è cambiato.
D. Questa situazione riguarda solo il vostro settore?
R. Non riguarda solo i carburanti, è un problema della distribuzione in generale in un Paese con più di 100 mila leggi in gran parte rimaste lettera morta, e nel quale l’applicazione dipende da ogni piccola autorità locale. Un Paese che vive più di divieti che di autorizzazioni. Ma non è certo questa la causa principale del costo del carburante; quello della distribuzione è un problema che ci portiamo dietro da sempre, che non ha però nulla a che vedere con i ripetuti aumenti dei prezzi dei carburanti registrati negli ultimi anni in seguito all’andamento del mercato internazionale. Impennate che traggono origine da due cause. Anzitutto il prezzo del greggio è aumentato perché sono cresciuti notevolmente i consumi mondiali e si è quasi raggiunto il limite della capacità di produzione. Non potendo aumentare l’offerta, la disponibilità di greggio rischia, se non di scarseggiare, di essere in stretto equilibrio con la domanda. Il secondo motivo riguarda la raffinazione. Il prezzo dei prodotti è cresciuto perché anche il sistema di raffinazione è vicino alla saturazione.
D. Qual’è precisamente la situazione in tale settore?
R. Sono necessarie nuove raffinerie, attrezzate in particolare per lavorare i greggi pesanti, che costituiscono gran parte della capacità produttiva di riserva. In Europa, ma anche in America, per trent’anni non solo non sono state create nuove raffinerie, ma ne sono state chiuse molte per motivi ambientali e soprattutto per la scarsa redditività. Adesso il boom dei consumi mette in risalto la carenza di capacità di raffinazione, che contribuisce ad elevare i prezzi. Per molti anni i bilanci delle società di raffinazione hanno chiuso in forte perdita, mentre soltanto ultimamente stanno dando risultati positivi. E subito si grida allo scandalo perché i petrolieri guadagnano. Quando un’industria così fondamentale realizza utili, significa che può finalmente disporre delle risorse necessarie per migliorare i dispositivi di raffinazione, ai quali si richiedono prodotti di crescente qualità ambientale, interventi sempre più stringenti nel campo della sicurezza e diretti all’abbattimento delle emissioni. Inoltre è positiva la formazione di profitti da reinvestire per aumentare la capacità produttiva nel mondo, anche se si incontrano enormi difficoltà per costruire nuovi impianti, soprattutto per il rifiuto opposto dalle popolazioni che vivono nel circondario.
D. I giacimenti noti possono far fronte all’aumento della richiesta?
R. Il greggio c’è, ma bisogna creare le strutture necessarie per ottenerlo, perforare, estrarlo, trasportarlo. Anche i Paesi produttori hanno investito poco a causa del lungo periodo di bassi prezzi: mediamente pari, dal 1985 al 2000, a 18 dollari al barile. Non era conveniente investire nella ricerca di greggio in posti più impervi, nelle perforazioni a maggiore profondità, nella costruzione di lunghi oleodotti per trasportarlo. Neppure i Paesi arabi, dove la produzione è assai meno costosa, hanno cercato di aumentare la capacità produttiva, preferendo investire in altri settori dal momento che la domanda era inferiore all’offerta. Poi il boom dei consumi ha colto tutto il sistema di sorpresa.
D. Adesso occorrerà cercare nuovi giacimenti oppure si sa dove si può trovare il petrolio?
R. I Paesi produttori possono estrarlo al costo di qualche dollaro al barile. Ma hanno sempre preferito limitarsi a quanto necessario per rispondere alla richiesta. C’è stata poca lungimiranza imprenditoriale, ma è anche vero che ha sorpreso tutti l’impennata dei consumi registratasi in India, in Cina e negli Stati Uniti, le cui economie sono in una fase di sviluppo mentre quella europea è in fase di stagnazione. Grazie a tale situazione l’India e la Cina sono in grado di far fronte all’alto prezzo del greggio, che non ferma né rallenta il loro sviluppo economico; pagano e vanno avanti. È l’Europa a soffrirne.
D. Quale può essere la soluzione?
R. Ricominciare ad investire nella produzione. L’Arabia Saudita lo sta già facendo, tutti sarebbero disposti a farlo, ma il problema maggiore è costituito dalle raffinerie. Dove impiantarle? Non si sa, sia in America che in Europa. Probabilmente nei Paesi emergenti, con la conseguenza di dover affrontare un maggior costo per il trasporto dei prodotti nei Paesi occidentali. La Cina dispone di alcuni giacimenti e di una limitata capacità produttiva. In passato esportava mentre ora, con il boom dei consumi, è diventata importatrice netta. Cina e India continueranno a crescere. Qualcuno sostiene che si fermeranno, ma io ritengo che quando lo sviluppo è cominciato, può attraversare al massimo un periodo di rallentamento; diminuisce la velocità di crescita ma indietro non torna. Chi cresce poco o quasi niente è l’Africa. Ha molte risorse, materie prime, ma se non si creano una struttura e un’organizzazione adeguate, non si ottengono risultati.
D. L’idrogeno potrà costituire l’alternativa al petrolio?
R. L’idrogeno non è una fonte energetica. È un carburante derivato dalla sua separazione dall’acqua o da altre fonti energetiche, utile per evitare l’inquinamento nelle città; ma per produrlo occorre energia. Inoltre l’idrogeno sembra ancora molto lontano dal superare i numerosi problemi per renderne economiche la produzione e la distribuzione su larga scala. Non è escluso, comunque, che verso il 2020 possa cominciare a decollare. L’energia prodotta, invece, da impianti solari o eolici è limitata tuttora nella quantità, malgrado i progressi tecnologici. Certamente con il prezzo del greggio ad oltre 60 dollari al barile, può diventare conveniente installare pannelli solari sui tetti, ma tutto è relativo.
D. Che cosa pensa della situazione economica italiana? È così pesante come si descrive?
R. Cerchiamo di essere un po’ ottimisti. Anche se essa non è molto tranquillizzante, speriamo di uscirne bene. Se compiamo ogni sforzo supereremo le difficoltà, come abbiamo fatto tante volte. Non dobbiamo prendercela solo con l’Europa. Bisogna compiere tanti ammodernamenti. Per evitare trasferimenti di fabbriche dalla Germania in altri Paesi, l’Opel ha concordato con i propri dipendenti e i sindacati il blocco delle retribuzioni per quattro anni, garantendo di non trasferire la produzione in Paesi dove il costo del lavoro è più basso. Siamo capaci di una decisione simile? Per il recente sciopero delle bisarche la Fiat, che sta cercando di riprendersi, ha perso una consistente quota di mercato. Per il settore dei carburanti il rimedio principale è rendere più efficiente e più economico il sistema distributivo. Il sistema di raffinazione italiano è all’avanguardia in Europa, produce quanto necessario, circa 85 milioni di tonnellate l’anno. Un tempo eravamo i raffinatori d’Europa, adesso esportiamo solo una parte minoritaria del prodotto, ma importiamo altri prodotti. Non corriamo comunque il rischio di un deficit di capacità.
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