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ANTONIO AURICCHIO: TRADIZIONE, INNOVAZIONE, SOPRATTUTTO QUALITÀ

Antonio Auricchio formaggio

Ufficialmente nata in provincia di Napoli nel 1877, la Gennaro Auricchio risale in realtà più indietro nel tempo, al 1862 in base a documenti rinvenuti di recente in vecchi archivi di San Giuseppe Vesuviano. «Il nonno di mio padre, Gennaro, inventò una ricetta del caglio che diede un sapore particolare al formaggio da noi prodotto; esercitava un mestiere semplice, il tarallaro ossia il venditore di taralli, un tipo di pane secco che si sposa bene con il formaggio, che all’epoca non si comprava ma si faceva in casa. Solo mio padre, che si chiama Gennaro anche lui e oggi ha 91 anni, conosce la ricetta di suo nonno, alla quale tuttora ci atteniamo; per me è come una magia».
Chi parla è Antonio Auricchio, amministratore della società. «Io mi occupo di produzione, di investimenti, di acquisto del latte che incide per il 70-75 per cento nelle spese ed è determinante; ancora adesso, quando vedo questo liquido diventare solido, mi sembra di assistere a un miracolo». Racconta che la passione per questa produzione gli è stata trasmessa da due persone: il padre, che da bambino lo conduceva nei caseifici dove, tra vapori e fumo di legna, le bianche figure dei «casari» che impastavano a mano la pasta gli sembravano fantasmi; e il nonno materno Domenico, professore universitario e commercialista, innamorato del Parmigiano Reggiano prodotto da una piccola azienda di famiglia; questo nonno lo conduceva nelle cascine e gli mostrava le mucche e i vitelli.
All’università il giovane Antonio avrebbe voluto studiare medicina, ma poi si laureò in Giurisprudenza e ora è contento di occuparsi di un’azienda che fabbrica un prodotto di qualità: «Vedere la gente che gusta una nostra creazione è una grandissima soddisfazione. È merito della qualità. Per ottenerla, oggi il sistema è cambiato; un tempo a Cremona, una delle province più famose per la produzione del latte, una mucca eccezionale produceva anche 20 litri di latte al giorno, oggi arriva a produrne anche 60, la cui igienicità è garantita da rigorosi controlli eseguiti sia dagli allevatori che da nostri esperti, che effettuano rigorosi controlli presso le stalle verificando l’intero ciclo produttivo a partire dall’alimentazione delle vacche. I produttori delle Province di Cremona, Brescia e della Pianura padana in generale sono imprenditori; è anacronistico paragonarli a contadini che mungono le vacche. Nelle nostre zone esistono grandissime stalle ma anche i piccoli sono imprenditori. Abbiamo tutti lo stesso interesse a salvaguardare, anzi ad aumentare sempre la qualità.
Antonio Auricchio non si stanca di ricordare ai propri fornitori e dipendenti che gli occhi dei consumatori si posano su ogni fetta di formaggio, per cui esige la massima serietà: «Siamo puntuali nei pagamenti, ma pretendo in tutti i modi la precisione e l’onestà, e comunque cerchiamo di privilegiare il rapporto umano con tutti: ho riscoperto l’importanza di andare a visitare le stalle, magari fare colazione con un produttore di latte, ascoltare le sue richieste, cercare di risolvere i problemi»,
Viene posta maggiore attenzione anche al benessere dei dipendenti, gli ambienti di lavoro sono migliorati, le maestranze lavorano con passione e soddisfazioni consapevoli di contribuire in modo significativo al mantenimento della ricetta tradizionale che prevede ancora la realizzazione a mano di ogni singola forma del nostro provolone. L’azienda, che lavora 4 mila quintali al giorno di latte vaccino e circa mille di ovino, è tra le prime 10 aziende lattiero-casearie italiane e ha 5 stabilimenti: a Pieve San Giacomo presso Cremona, tecnologicamente tra i più avanzati; a Somma Vesuviana, per la produzione del provolone e del Grana Padano; a Scandiano, presso Reggio Emilia, per le caciotte di pecora e miste: a Macomer, vicino Nuoro, acquisito dalla Nestlé, per il Pecorino Romano; a Solignano, presso Parma, specializzato nel Parmigiano Reggiano.
Il 15 per cento del fatturato viene realizzato all’estero; negli Stati Uniti, oltre al provolone importato dall’Italia, l’azienda commercializza l’Auricchio Americano, prodotto in loco rispondendo alle esigenze dei consumatori statunitensi. Antonio Auricchio si reca spesso a controllare gli stabilimenti americani. Il provolone destinato ai Paesi europei viene tutto prodotto in Italia, e il maggiore importatore è la Germania, ma è consistente il consumo anche in Spagna, in Inghilterra e in Russia.
La ricetta è tuttora un segreto; inventata da Gennaro Auricchio, nonno di suo padre, rimane gelosamente custodita. «La differenza con i prodotti di altre aziende è netta. Noi cerchiamo di fare il provolone nel modo migliore possibile, di ottenere sempre il meglio, il che non è facile; occorre avere ottimo latte e un caglio eccezionale, essere precisi, stare attenti a tutto, controllare», spiega Antonio. Presieduta da suo padre Gennaro, l’azienda è gestita oltreché da lui e dai fratelli Giandomenico e Alberto. Il primo, noto anche per le varie cariche ricoperte nella Confindustria e nella Federalimentare, si occupa di personale, di amministrazione e finanza; Alberto è responsabile commerciale per l’Italia e l’estero e del marketing. I macchinari impiegati sono molto moderni, «anche se la macchina principale è la mano e l’esperienza dei casari», precisa Antonio.
«Abbiamo realizzato spot pubblicitari, talvolta anche con bellissime donne che hanno avuto un notevole successo perché erano molto simpatici, ma io preferirei mostrare le mani dei nostri casari impegnati nel duro lavoro di assicurare l’unicità del provolone Auricchio. Profondiamo il massimo impegno nel nostro lavoro, indispensabile in un momento difficile come quello attuale che vede il consumatore particolarmente attento nella spesa e al quale vogliamo garantire la massima qualità nel rispetto delle più riconosciute produzioni alimentari made in Italy. Dobbiamo difendere i grandi prodotti Italiani che tutto il mondo ci invidia. Se l’avessero fatto tutti in passato, i prodotti italiani subirebbero meno l’attuale forte concorrenza».
Negli stabilimenti Auricchio il ciclo lavorativo è continuo: appena il latte arriva dalle stalle viene subito lavorato. Vengono trasformati giornalmente circa 500 mila litri di latte. Rispetto a un tempo, oggi le abitudini alimentari sono cambiate e Antonio Auricchio, in linea e anzi precorrendo le richieste, intende rivolgersi a un mercato giovane lanciando una moda «sfiziosa» di consumare il formaggio: ad esempio con l’aperitivo, con il panino, con la pizza ecc. Il formaggio prodotto è lo stesso, ma viene proposto in nuove versioni dall’elevato contenuto di servizio: affettato, cubettato, impanato.
«Alle forme tradizionali si aggiungono nuove pezzature che talvolta, come nel caso del Provolettone, sono la riproduzione di tipi già prodotti in passato come si può vedere in storiche fotografie. La forma della campana ci fu suggerita, invece, da un nostro importatore Usa. Quando modellava il ‘mandarino’, che è un nostro prodotto classico di 30 chili a forma di palla, un casaro bravissimo scolpiva con le mani, sulla sua superficie, una mucca e una donna che la mungeva. Fu lui ad avere l’idea di realizzare su un ‘mandarino’ anche il volto dell’allora presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower, che fu poi dipinto da una pittrice cremonese; regalammo quella campana al presidente Eisenhower che la mostrò anche in televisione».
Oggi gli stabilimenti Auricchio producono solo due campane al giorno, e su ordinazione una rarità come i «salami» da 300 chili l’uno. Innovazioni a parte, ogni regione italiana ha determinate preferenze: tutte apprezzano l’Auricchio, ma in Campania va molto il «salame», a Bari la «palla», in Puglia è una tradizione il prodotto tondo ecc. La scelta dipende dalla cultura di ciascuna regione. Comunque, per andare incontro alle esigenze pratiche dei consumatori, queste forme vengono prodotte in tre misure.
«La nostra attività ha dei capisaldi fissi e uno di essi è costituito dalla qualità, che deve essere comunque ottima; nel suo ambito cerchiamo di fare qualcosa di più appetibile per le nuove generazioni e di più adatto ai continui cambiamenti che si registrano nelle abitudini alimentari. Tuttavia non possiamo cambiare l’idea che abbiamo della qualità, e che rappresenta per noi una condizione, una roccaforte che non intendiamo demolire», sostiene Antonio. E aggiunge: «La qualità vince nel tempo, questa è la mia certezza. Conserveremo sempre la tradizione, la qualità e il culto dei sapori». Ma visto che negli Stati Uniti, pur abituati ai prodotti tradizionali, si cominciano ad apprezzare sapori diversi, che fare? «Considerandomi sempre custode della tradizione e degli antichi sapori, dal momento che il fast food non è necessariamente sinonimo di bad food, ossia di cattiva alimentazione, penso di realizzare prodotti da consumare velocemente, ma eccellenti». Ovviamente prodotti italiani e di qualità.
Che cosa rappresenta oggi per l’azienda il «patriarca» Gennaro? «Per me è una guida, una stella cometa, un punto di arrivo. Dal punto di vista del lavoro ritengo di assomigliargli molto, nel senso che non mi occupo di rapporti commerciali, finanziari, bancari, ma del latte, della produzione, ossia le stesse attività che svolgeva lui. Non l’ho mai considerato un rivale; una volta, appena laureato, avendo dei problemi, continuavo a chiamarlo, ma lui fu bravissimo nel dirmi ‘Sono affari tuoi’, e non mi rispose più al telefono; avevo commesso un errore: da quel giorno sono stato molto più attento a non farne».
Antonio Auricchio ha quattro passioni: viaggiare, fotografare, aiutare le missioni nel Terzo Mondo, sostenere il volontariato. «Sono stato sempre desideroso di vedere un mondo diverso dal mio, di capire le sue lingue, di entrare nelle sue case o nelle sue capanne, e fino ad adesso mi è andata bene perché talvolta mi sono spinto su itinerari anche pericolosi». Con le foto scattate nelle varie occasioni ha realizzato dei cataloghi che ha anche venduto, per devolverne i proventi alle suore Missionarie della Carità di Madre Teresa di Calcutta. Ha avuto occasione di conoscere Madre Teresa, e questo l’ha spinto ancora di più a sostenere la sua opera.
Racconta che quattro anni fa in India, con appena 7 dollari, potè offrire un pranzo a base di riso e di uova, su un piattino fatto di foglie, a 70 persone; oltre che in India, ha visitato missioni in Bangladesh, in Africa, in varie zone del Terzo Mondo, definizione questa che cerca di evitare. A Cremona presiede la Fondazione Lino Maestroni Onlus, il cui scopo istituzionale è la ricerca nell’ambito delle cure palliative. L’intento è quello di studiare nuove ed efficaci cure per alleviare il dolore nelle malattie oncologiche, nell’Alzheimer, nella demenza senile ecc. La fondazione è diretta emanazione dell’Accd-Associazione cremonese per la cura del dolore, di cui Antonio è vice presidente, che a Cremona gestisce un hospice, organizza l’operato dei volontari a domicilio ed eroga borse di studio per giovani che hanno subito gravi lesioni; una di queste è stata concessa ad un ragazzo diventato paraplegico a causa di un tuffo in piscina che in seguito si è laureato in medicina. La Fondazione, dedicata a Lino Maestroni, un agricoltore che alla sua morte ha donato tutto il proprio patrimonio alla ricerca, e l’associazione Accd si finanziano in gran parte con le offerte derivanti dalle famiglie colpite dal dolore della malattia ma anche da tutta la cittadinanza.
La Fondazione ha ricevuto un cospicuo contributo anche dalla Regione Lombardia, a dimostrazione della serietà e dell’importanza dei suoi scopi. Auricchio è molto contento dei risultati ottenuti in questa attività assistenziale; ed è molto grato ai volontari che prestano gratuitamente la propria opera per i malati. «La fortuna di certe operazioni altruistiche si deve ai volontari, i personaggi più belli e puliti che io abbia mai visto. C’è gente che presta la propria opera gratis per sette o otto ore al giorno, con la bontà del cuore e senza distinzioni di alcun genere: vi si possono trovare insegnanti, vigili, persone semplici, professionisti, impiegati ecc. Tutti accumunati dal medesimo altruistico slancio».
Visto che ha questa passione, Auricchio non ha mai pensato di dedicarsi a tale attività? «Non vi ho mai pensato o, meglio, non ho mai avuto il coraggio di abbandonare la mia azienda e di rimanere là. Però quando torno da quei viaggi e da quelle esperienze così intense, mi domando come faccio a stare ancora qui. Forse è una situazione comoda, perché sono nato più fortunato di altri. A Calcutta tuttavia ho fatto una piccola esperienza: nella ‘camera della morte di Madre Teresa’ mi hanno fatto assistere i malati e somministrare loro medicinali. È stata un’esperienza breve ma molto intensa che mi ha toccato profondamente».

Tags: industria alimentare agroalimentare alimentazione food alimenti export anno 2005

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