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BRUNO BRANCIFORTE: LA MARINA MILITARE ITALIANA AL CENTRO DEI MARI

ammiraglio Bruno Branciforte, Marina Militare

Nella sua intera vita ha trascorso ben 18 anni a bordo di una nave, in alto mare. L’ammiraglio Bruno Branciforte, dallo scorso 4 febbraio capo di Stato Maggiore della Marina Militare, ha però i piedi per terra mentre parla dei problemi che lo strumento navale italiano è costretto ad affrontare a causa della scarsità delle risorse ad esso destinate. Suddividendo tra la popolazione il costo complessivo della Marina, l’onere per ogni cittadino non supera i 15 centesimi al giorno; una somma di cui l’ammiraglio Branciforte è determinato a ottimizzare l’impiego aumentando l’automazione a bordo delle navi e ricercando economie attraverso la razionalizzazione dell’organizzazione, delle infrastrutture e del personale. Laureato in scienze marittime e navali, già direttore del Sismi - il servizio segreto militare - e dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna, ha diretto il centro operativo intelligence e il settore della pianificazione e delle operazioni in seno allo Stato Maggiore della Marina. Oggi prende atto del mutato contesto politico internazionale, che richiede un addestramento adeguato anche per missioni umanitarie, di tutela dell’ambiente marino, in genere non conflittuali, e considera il ruolo della Marina da un’ottica moderna, delineando un coinvolgimento sempre maggiore della Forza Armata anche nel contesto sociale e civile nazionale.
Domanda. Cosa rappresenta oggi la Marina Militare?
Risposta. Per definire la Marina bisogna guardare a ciò che è accaduto negli ultimi venti anni e all’enorme cambiamento che ha caratterizzato il quadro strategico internazionale a partire dalla disgregazione del patto di Varsavia nel 1991, che ha reso la sicurezza internazionale una delle principali priorità della Nato. È da allora che i principali Paesi europei hanno cominciato a partecipare ad operazioni nelle aree di crisi e di supporto alla pace, come quelle nel Golfo Persico, in Iraq, in Somalia, a Timor Est, Bosnia, Albania, Kosovo. Dopo l’attentato alle torri gemelle del 2001 sono venute alla ribalta le operazioni contro il terrorismo internazionale in Afghanistan e successivamente le operazioni di contrasto della pirateria. Vi è poi la necessità di controllare i flussi migratori via mare e proteggere le attività economiche in ambiente marittimo, fra queste anche la pesca.
D. In che modo il cambiamento del quadro strategico internazionale ha inciso sulle marine militari?
R. Esso ha condotto ad una profonda evoluzione concettuale, dottrinale e d’impiego: si è passati dalla pianificazione di operazioni belliche mirate al contrasto in alto mare delle flotte avversarie per la difesa del Paese, allo sviluppo di operazioni di sorveglianza, interdizione e proiezione marittima di vario tipo, quali quelle per la sicurezza delle linee di traffico, il contrasto della pirateria e del terrorismo, il controllo dei flussi migratori, la proiezione di capacità oltremare per finalità umanitarie ed interventi in caso di calamità. Parallelamente l’evoluzione della normativa nel settore del diritto internazionale, soprattutto per l’esercizio dei diritti nazionali in alto mare, ha portato alla ribalta un’esigenza fondamentale: quella della disponibilità di una capacità di sorveglianza e controllo dell’ambiente marittimo che deve andare dalle acque territoriali fino all’alto mare. Nel nostro caso specifico quest’area si estende in tutto il Mediterraneo e il Mar Nero, fino a comprendere il Mar Rosso e le acque occidentali dell’Oceano Indiano, configurando il concetto geopolitico di «Mediterraneo allargato».
D. Che ha fatto la Marina italiana per adeguarsi ai tempi?
R. A mio parere ha saputo ben interpretare l’evoluzione del quadro strategico, modificando la struttura del proprio strumento militare attraverso un programma di ammodernamento. Il Paese ha oggi a disposizione una capacità d’intervento dal mare di circa 1.200 uomini, la brigata San Marco della Marina Militare, elemento centrale della capacità nazionale interforze di proiezione dal mare, dislocabile in qualsiasi parte del mondo, per un ampio spettro di missioni - da quelle umanitarie ad interventi militari ad alta intensità - con una prontezza di reazione inferiore alle 48 ore grazie ad una capacità aeronavale centrata sulla portaerei Cavour, sulle altre unità con capacità anfibia, tra cui il Garibaldi e le tre navi della classe Santi, sulle componenti aeree imbarcate e sulla forza da sbarco. Il Paese ha una capacità di sorveglianza marittima per il monitoraggio e la prevenzione di tutte le minacce che vengono originate dal terrorismo internazionale, dalla pirateria, dall’immigrazione clandestina e dalle organizzazioni criminali; una capacità derivata dalla disponibilità di una rete radar costiera di navi, aerei, elicotteri, ma anche dalla disponibilità di un know-how di tecnologia per l’integrazione di tutti i dati provenienti non solo dalla Marina, ma anche dalle molteplici agenzie nazionali, quali la Guardia Costiera, le Capitanerie di Porto, la Guardia di Finanza, i Carabinieri, le cui informazioni vanno a completare quelle dell’intelligence, delle altre forze della Nato, dei sistemi di altri Paesi disposti a collaborare. Con la Marina l’Italia ha capacità di intervento e di contrasto delle minacce di vario tipo, garantita dalla presenza di unità navali e aeree oltreché dai sistemi imbarcati per le esplorazioni del fondo marino, per la bonifica da inquinamento in caso di disastri ecologici, per i rilievi idro-oceanografici, per il soccorso in mare e il supporto umanitario.
D. Che tempi ha il programma di ammodernamento dello strumento navale?
R. Esso è cominciato alcuni anni fa, si sta sviluppando e durerà almeno fino al 2020. Sono molte le capacità raggiunte dalla nostra Marina grazie a questo importante programma, ma le risorse economiche a disposizione sono molto limitate: alla Difesa in Italia è destinato solo lo 0,9 per cento del prodotto interno lordo, stanziamento tra i più bassi in Europa soprattutto se confrontato con quelli disponibili nel Regno Unito, Germania, Francia, Spagna, Turchia. Di queste risorse, solo il 17 per cento viene destinato alla Marina.
D. Le risorse destinate alla Marina sono almeno sufficienti ad assicurare un livello standard di preparazione?
R. Quanto ci è attribuito non è in grado di garantire che il personale riesca a mantenere lo standard addestrativo previsto, per esempio, per quanto attiene alla navigazione. Per essere addestrato, un equipaggio deve infatti effettuare 120 giorni in mare all’anno secondo gli standard previsti dalla NATO; oggi ogni nave della Marina, per problemi di risorse, non ne fa più di 40, ad eccezione di quelle unità dislocate in aree operative.
D. In che modo è possibile ovviare ai problemi relativi alla scarsità di fondi?
R. Si prevede, entro il 2013, una riduzione del personale della Difesa da 190 mila a 180 mila unità, e una parte di questi 10 mila potranno anche riguardare lo strumento navale, di bordo e di terra. Per recuperare risorse finanziarie, la Forza Armata ha avviato un piano di ristrutturazione che tende essenzialmente a razionalizzare l’intero settore infrastrutturale e, se possibile, a diminuire l’organico del personale valorizzando la tecnologia. Cercheremo nel prossimo futuro di diminuire le spese relative a tutte le infrastrutture di terra, e di ridurre con la tecnologia il numero del personale. I piani di ammodernamento della flotta prevedono, oltre a un numero adeguato di unità navali, anche equipaggi di massima più snelli in relazione alla maggiore automazione; se pochi anni fa la Marina contava su 4 cacciatorpediniere e 16 fregate con 5 mila uomini imbarcati, al completamento del programma di ammodernamento nel 2018 dovremo avere non meno di 2-3 cacciatorpediniere e 10 fregate, con circa 2 mila uomini imbarcati. Il numero delle unità navali d’altura di cui ho parlato rappresenta il minimo accettabile, oltre il quale la Marina non avrebbe capacità operativa né credibilità per garantire la sicurezza nazionale sul fronte marittimo e la difesa marittima del territorio, a prescindere dalla volontà politica di essere presenti sulla scena internazionale.
D. Quali sono le operazioni in corso?
R. Una nave si trova al largo delle coste della Somalia ed è inserita in un dispositivo multinazionale per il controllo dell’area marittima lungo le coste della Somalia e nel Golfo di Aden, a protezione dei traffici mercantili in quell’area oggi severamente minacciati dal fenomeno della pirateria. Un’altra unità si trova al largo delle coste del Libano per contrastare il trasporto illegale di armi, operando sotto bandiera delle Nazioni Unite nell’ambito della stabilizzazione della regione mediorientale. Una fregata opera alle dipendenze della Nato nel Mediterraneo e, sempre per la Nato, un cacciamine opera nelle aree del Mediterraneo e del Mar Nero per operazioni di addestramento; un’unità, invece, è in pattugliamento nello Stretto di Sicilia in ruolo di sorveglianza dei flussi migratori e vigilanza sulle attività di pesca. Oltre a queste unità in attività operativa, un’aliquota delle nostre forze - navali, aeree e anfibie - si addestrano periodicamente presso le basi navali, in mare e nei poligoni.
D. Quali sono gli obiettivi?
R. Il primo è rappresentato dalla necessità di garantire la sicurezza marittima nell’area del «Mediterraneo allargato», salvaguardando gli interessi vitali del Paese e sviluppando un’intensa attività di cooperazione con le altre Marine e le agenzie, nazionali e internazionali, che operano sul mare e per il mare. È stata creata, presso il comando in capo della Squadra Navale, nella sede romana di Santa Rosa, una centrale di sorveglianza marittima presso la quale confluiranno tutte le informazioni utili in possesso delle varie forze. Sul fronte internazionale stiamo sviluppando una cooperazione diretta ad ottenere, dai Paesi che si affacciano sulle medesime aree, le informazioni sul traffico marittimo in movimento. Il progetto è cominciato circa 12 anni fa; i suoi sviluppi saranno trattati ulteriormente nell’ambito del tradizionale Simposio che, dal 1996, viene organizzato dalla Marina a Venezia, con cadenza biennale. Nel 2010, all’ottava edizione, parteciperanno più di 40 delegazioni, africane, sudamericane, asiatiche ed oltre 25 capi di Stato Maggiore di Marine europee per esaminare tutte le possibilità di cooperazione esistenti ed avviare quelle iniziative tese a dare maggiore sicurezza alla navigazione e conferire stabilità alle aree di crisi. Ritengo che sia essenziale che i Paesi dai quali traggono origine le attuali minacce debbano essere aiutati a sviluppare le stesse capacità che le nostre Marine utilizzano per controllare la situazione marittima, soprattutto in quelle pericolose acque. È il caso della Somalia, nota per la pirateria e i sequestri in mare. Per far questo siamo disponibili ad assicurare tutto il supporto necessario in termini di addestramento, know-how e tecnologie.
D. Qual è la situazione migratoria?
R. I flussi migratori nell’ultimo anno si sono sensibilmente ridotti, in particolare quello proveniente dalle coste libiche, attraverso l’opera di raccordo sviluppata dal ministero dell’Interno e dalla presenza delle forze in mare, sia quelle di Polizia sia quelle della Marina Militare. Al momento la situazione è sotto controllo, ma è necessario un monitoraggio continuo. Il fenomeno dell’immigrazione clandestina nasce essenzialmente da crisi locali che hanno alla base problemi di carattere politico, etnico e religioso; perciò è indispensabile promuovere, in tali Paesi, uno sviluppo economico che offra alle popolazioni concrete prospettive future che possano anche prevenire la diffusione del terrorismo e di altre forme di estremismo.
D. Le acque italiane sono sicure?
R. In questo momento la sicurezza in mare è ad un discreto livello: contro la pirateria sono state sviluppate procedure antisequestro che gli equipaggi delle marine mercantili sono in grado di mettere in atto. Non tutte le navi possiedono le caratteristiche nautiche che consentano loro di evitare gli abbordi in mare da parte dei pirati; esse si avvalgono della protezione fornita dalle formazioni multinazionali dislocate in varie aeree. Abbiamo sviluppato, insieme alla confederazione degli armatori Confitarma, uno studio per l’impiego di personale militare del reggimento San Marco che, in caso di esigenze peculiari, potrebbe essere imbarcato a bordo delle navi mercantili durante l’attraversamento delle aree pericolose. Questo studio è ora all’esame del ministero della Difesa per una sua attuazione qualora la situazione locale dovesse richiederlo. Per le altre minacce ancora non abbiamo tutti i mezzi per una completa e continua sorveglianza dell’ambiente marittimo. Mi riferisco alla necessità di sorvegliare i fondali, anche ad alte profondità, per prevenire la discarica di rifiuti pericolosi e la sicurezza di infrastrutture vitali per il Paese, come oleodotti, gasdotti e cavi sottomarini. La Marina sta lavorando intensamente su questo, come dimostra il progetto per la realizzazione di una nave polifunzionale, con capacità di soccorso sommergibili, appoggio subacquei e incursori ed intervento sul fondo a profondità fino a 2.000 metri.
D. In che modo la Marina coopera con gli altri Stati?
R. La Marina è lo strumento per eccellenza nel supporto delle relazioni diplomatiche: è il ruolo storico della Marine di tutto il mondo, quello che, per intenderci, Theodore Roosevelt teorizzò nella naval diplomacy. Anche per questo, abbiamo sviluppato una flotta in grado di condurre diversi tipi di missione che, oltre a far fronte a quelle che sono le esigenze di un eventuale conflitto in mare, sia in grado di portare aiuti umanitari. L’abbiamo fatto ad Haiti, a Timor Est come anche in Turchia, dove unità anfibie sono intervenute, in diversi momenti, in occasione di terremoti ed eventi calamitosi. La cooperazione internazionale è poi molto intensa sia a livello bilaterale sia multilaterale. Ci confrontiamo periodicamente con numerose Marine di Paesi amici per migliorare la capacità di interoperare e per supportare l’industria nazionale nell’export di mezzi e prodotti nel settore della Difesa. Siamo anche molto attivi nello scambio di informazioni per la sicurezza dei traffici marittimi; nel 2006 abbiamo avviato un sistema di condivisione dei dati sui movimenti delle navi mercantili in una vasta area che comprende il Mediterraneo, il Mar Nero ed alcune aree dell’Oceano Indiano e dell’Atlantico. Oggi questo sistema, denominato V-RMTC (virtual regional maritime traffic centre), collega le centrali operative di 23 Marine operanti in Mediterraneo. Al prossimo simposio di Venezia accoglieremo l’ingresso ufficiale di un nuovo partner, l’Ucraina, ed inoltre firmeremo un accordo di cooperazione con le Marine di Brasile, Singapore e probabilmente anche India, per la federazione del V-RMTC con analoghi sistemi regionali. Prenderà così vita quella che abbiamo denominato trans-regional maritime network (T-RMN). Un impegno a tutto campo, sostenuto grazie al lavoro e all’entusiasmo del nostro personale e al sostegno dei nostri colleghi stranieri.
D. E cosa può dire della cooperazione sul piano nazionale?
R. Oggi seguiamo un metodo cosiddetto «interagenzia» perché la sicurezza ed in particolare quella marittima costituisce un settore nel quale rientrano le competenze di diverse agenzie e realtà istituzionali. Tanto per dare un esempio, i mezzi della Marina rientrano in diversi piani di intervento della Protezione Civile, come l’evacuazione delle isole Eolie. Altre navi sono in grado di intervenire in caso di disastri ecologici, con 6 pattugliatori, ognuno dei quali può recuperare dal mare 500 tonnellate di gasolio al giorno: due di queste navi erano alle foci del Po in occasione dello sversamento di petrolio nel fiume Lambro, avvenuto lo scorso febbraio. Siamo in grado di compiere esplorazioni del fondo marino e fare prelievi dal mare per l’analisi delle acque, attività utili al Ministero dell’Ambiente anche per verificare eventuali presenze di elementi tossici su relitti affondati. Abbiamo uomini e mezzi che sono intervenuti per localizzare navi e pescherecci affondati. La cronaca è piena di questi esempi: la Marina ha una duplice capacità, ossia può intervenire in ambiti conflittuali ma anche civili. La realizzazione del dispositivo interministeriale integrato di sorveglianza marittima (DIISM) è il miglior esempio del ruolo centrale che la Marina detiene nella sicurezza marittima, come è naturale che sia. Si tratta di un dispositivo deciso dalla presidenza del Consiglio dei Ministri che ha assegnato alla Marina la responsabilità del tavolo tecnico per la sua realizzazione attraverso la creazione di una centrale di sorveglianza che raccoglierà i dati presso il comando in capo della Squadra Navale, costituendo un hub dal quale le informazioni potranno essere trasferite a tutte le altre agenzie nazionali e internazionali, che continueranno ad operare in autonomia, ognuna secondo le proprie competenze ed attribuzioni.
D. Quale rilievo ha la presenza delle donne in Marina?
R. Il personale femminile contribuisce alle attività della Forza Armata al pari degli uomini. La richiesta delle donne di entrare in Marina è diminuita negli ultimi anni, attestandosi su un livello inferiore a quello che aveva caratterizzato l’onda iniziale di domande. Per l’arrivo delle donne negli alti gradi bisognerà attendere ancora qualche anno. Esse sono presenti a bordo delle navi e svolgono qualsiasi tipo di attività, esclusi i sommergibili ed i reparti di forze speciali.
D. Qual è la durata di vita di una nave?
R. Per assicurare la presenza continuativa di una nave in una determinata area marittima è necessario disporne di almeno 4: una in zona di operazioni, una in approntamento per andare a sostituirla, una in «ricondizionamento» al rientro dalla missione ed una nel periodico ciclo di manutenzioni più approfondite. Stessa cosa vale per assicurare il contributo della Marina ai dispositivi multinazionali cui l’Italia aderisce, come i gruppi navali e contromisure mine permanenti della Nato e i gruppi navali operanti sotto bandiera delle forze navali europee (EUROMARFOR) e sotto egida delle Nazioni Unite. In tre mesi di attività operativa, una nave effettua in media 2 mila ore di moto, un tasso d’impiego che può consentire il raggiungimento dei 30 anni di vita, periodo assunto, presso le Marine del mondo, come standard di durata che ottimizza l’ammortamento dei mezzi in relazione alla capacità di investimento e allo sviluppo tecnologico.
D. Quante unità ha la Marina?
R. 24 navi di prima linea, 18 di seconda linea e 6 sommergibili. A queste unità navali vanno aggiunti i cacciamine, le navi ausiliarie, le navi scuola e quelle per compiti speciali. La prima linea è composta dalle unità maggiori, tra cui la portaerei Cavour, le 4 navi con capacità anfibie tra cui il Garibaldi, le 3 navi logistiche e la componente di cacciatorpediniere e fregate, vera spina dorsale della flotta. Queste ultime unità, caratterizzate da spinta multifunzionalità ed elevatissimi tassi di impiego, hanno visto recentemente l’ingresso in linea di sole due nuove navi, i cacciatorpediniere Andrea Doria e Caio Duilio, con prevalente funzione antiaerea, che presto, nel corso del 2011, saranno dislocate a Taranto. Per le fregate, è in corso di realizzazione il programma FREMM, per la costruzione di dieci fregate multimissione, con la prima che sarà varata entro gli inizi del 2011, la seconda in avanzato stato di realizzazione, la terza appena impostata e le ultime quattro da finanziare. Queste 10 nuove navi ci permetteranno di sostituire gradualmente le dodici fregate delle classi Maestrale e Soldati, oggi in servizio, e di colmare il vuoto lasciato negli ultimi dieci anni dalla dismissione delle quattro fregate della classe Lupo, oggi in servizio nella Marina peruviana, e delle due fregate della classe Alpino l’ultima delle quali, il Carabiniere, è stata posta in disarmo a fine 2008. Per quanto riguarda il Cavour, dopo la missione umanitaria ad Haiti, sta completando a La Spezia alcuni lavori prima di essere trasferita a Taranto nel 2011 per un periodo di addestramento che lo porterà ad operare con gli aerei della base di Grottaglie, oggi operanti dal Garibaldi. Un importante programma di sviluppo è anche in atto per la realizzazione di tre unità anfibie e due unità logistiche che sostituiscano, negli anni a venire, le analoghe unità oggi in servizio, molte delle quali prossime ai 40 anni di vita, un’età quasi al limite assoluto di vita di una nave.
D. Dove finiscono le navi dismesse?
R. Vengono cedute al miglior offerente da un organismo che si occupa della loro vendita, ma non c’è un ritorno reale. Ultimamente alcune di esse sono state vendute dopo un programma di refitting, curato dalla nostra industria cantieristica, alle Marine di altri Paesi che le trovano utili alle loro missioni. Mi fa piacere ricordare il caso della cisterna Basento, ceduta lo scorso anno alla Marina dell’Ecuador ed oggi impiegata, con il nome di Atahualpa, nel rifornimento idrico delle isole Galapagos.
D. Come giudica il livello qualitativo delle nostre navi?
R. Siamo a un buon livello; non siamo invece soddisfatti sotto il profilo della quantità, penalizzata sempre per un problema di risorse finanziarie. Il problema è economico; ogni Paese deve poter dedicare allo strumento militare un quantitativo di risorse adeguate alla missione e quindi alla dimensione che ad esso si vuol dare. I nostri sforzi mirano oggi a trovare risorse interne, compiendo una grande opera di autocritica e svolgendo un’assidua ricerca delle soluzioni che ci consentano di sopravvivere fornendo comunque un prodotto di qualità.
D. Come può definire la sua esperienza in Marina?
R. La Marina mi ha fatto lavorare prevalentemente nel settore operativo; credo che questo tipo d’impiego sviluppi capacità di analisi e capacità decisionali. La mia esperienza nel settore dell’intelligence mi ha anche consentito di trovare un impiego al di fuori della Forza Armata, in un periodo di grandi riforme che giudico molto positivo e che mi ha arricchito sul piano professionale ed umano. Penso che nel nostro lavoro serva prudenza ed iniziativa, non bisogna mai stare fermi ma essere sempre orientati in avanti. Per fortuna, nell’ambito della nostra Forza Armata, abbiamo guardato al futuro, oltre l’orizzonte, come nella cultura di noi marinai, «in avanti e in anticipo», come nella tradizione delle nostre forze navali. Quest’attitudine mentale ci ha permesso di essere sempre un passo avanti rispetto agli eventi, in grado di precorrere i tempi, cosicché i cambiamenti non ci hanno mai colto di sorpresa e siamo sempre stati in grado di far fronte a quello che in un certo momento il Paese ci chiedeva.
D. Come impiega le portaerei l’Italia?
R. Da quando disponiamo del Garibaldi, cioè dalla seconda metà degli anni ‘80, abbiamo svolto intense attività di cooperazione con americani, francesi e inglesi, per far sì che i nostri piloti si addestrassero ad atterrare e a decollare dalle portaerei di altre Marine. Le portaerei non sono come gli aeroporti; si muovono ed hanno strutture sopraelevate rispetto al ponte di volo, diverse da nave a nave, che rendono le operazioni di decollo ed appontaggio particolarmente rischiose, soprattutto di notte. Per questo è richiesto ai piloti, ed anche agli operatori di bordo, un addestramento specifico, molto sofisticato. Dal momento in cui una Marina si dota di una portaerei, uno dei principali obiettivi da conseguire è proprio la capacità dei propri piloti di appontare su altre navi. La disponibilità di una portaerei costituisce un fattore moltiplicatore delle capacità di un Paese, non solo sul piano militare ma anche civile. Una portaerei è infatti l’unico mezzo militare in grado di portare, con tempestività e grande autonomia logistica, un potenziale di intervento di fronte alle coste di un altro Paese, in prossimità di un’area di crisi o di una zona in cui si sia verificato un disastro ambientale. La portaerei è nel contempo un aeroporto galleggiante, un ospedale mobile, un centro di comando e controllo, una base di supporto logistico. Si discute dell’esigenza del Paese di avere una nostra portaerei: c’è chi dice che l’Italia è già una grande portaerei in mezzo al Mediterraneo rifacendosi a delle asserzioni di 60 anni fa, ma tale constatazione è anacronistica. Allora si pensava a difendere il Paese da attacchi esterni, oggi l’attività delle Marine si svolge in alto mare, anche lontano dal territorio nazionale. Bisogna anche considerare che la nostra portaerei è un quarto di una comune portaerei americana, e la metà di una portaerei della Gran Bretagna. L’aviazione della Marina italiana è costituita solo da 18 aerei. Dal 1991 ad oggi il Garibaldi ha partecipato alle operazioni in Somalia, alle operazioni di embargo in Adriatico, a quelle aeree nella ex-Yugoslavia ed Afghanistan, alle operazioni in Libano, portando a termine missioni molto differenti, dall’embargo all’evacuazione di connazionali, al supporto ad operazioni aeree e terrestri. Soprattutto, la disponibilità di una portaerei ci ha permesso di arrivare tempestivamente, prima di qualunque altra forza, nelle aree di crisi, con tutta la versatilità strategica e la flessibilità tattica che un mezzo di questo genere può consentire. Il Cavour, quest’anno, ad Haiti, ha fornito un ulteriore eloquente esempio delle potenzialità di una portaerei. Sull’onda del successo di quella missione, per il bene della comunità di Haiti colpita dal terremoto, ci fa piacere guardare ad un futuro di stabilità e pace, nel quale i mari giocheranno un ruolo di crescente importanza per lo sviluppo dell’umanità.

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