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LUIGI D’ELIA: COME TENERE IN BUONA SALUTE ANCHE GLI OSPEDALI

«Ho sempre trascorso le vacanze nella Calabria in cui sono nato, ma da qualche tempo preferisco andare in Bretagna, dove il sole è meno violento, il clima è più fresco e il rischio di incontrare le persone con cui si lavora durante tutto l’anno è ridotto». Dalla foga con cui Luigi D’Elia, direttore generale dell’azienda ospedaliera romana San Giovanni-Addolorata, racconta la propria attività professionale consistente nella gestione ormai ultra trentennale della sanità, appare evidente come per lui il lavoro sia l’occasione di travasare competenze e intuizioni in programmi al servizio della collettività.
«Calabrese del nord», una laurea in Giurisprudenza a Napoli nel 1966, specializzato in diritto sanitario all’università di Bologna e in general management sanitario alla Bocconi, D’Elia entrò nel settore della sanità giovanissimo attraverso un concorso pubblico. Segretario generale del CTO, Centro traumatologico ortopedico di Roma, nel 1972, mantenne la carica fino al 1978 per poi ricoprire una serie di incarichi in campo regionale e nazionale, partecipando all’evoluzione normativa e amministrativa del sistema sanitario di cui è divenuto, successivamente, uno dei principali protagonisti.
Inoltre D’Elia ha sempre partecipato attivamente alla vita associativa professionale ricoprendo, dal 1983 al 1990, la carica di vicepresidente della Cida, Confederazione italiana dei dirigenti di azienda; infine nei giorni scorsi è stato nominato vicepresidente vicario della Fiaso, la Federazione italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere che riunisce 300 strutture pubbliche, oltre una trentina di Istituti a carattere scientifico pubblici e privati, 22 policlinici universitari. Unico italiano, come consigliere di amministrazione da 15 anni fa parte dell’Associazione europea dei direttori generali di ospedale, con sede a Bruxelles.
Amministratore straordinario nel 1991 della usl Roma 10 comprendente gli ospedali Forlanini, San Camillo e Spallanzani, dal 1994 al 2000 è stato direttore generale del complesso ospedaliero San Giovanni-Addolorata, che è tornato a dirigere nel 2005; ai compiti di manager affianca l’insegnamento universitario ed è autore di numerose pubblicazioni in materia di organizzazione sanitaria, e fondatore e direttore delle riviste professionali «Rassegna di diritto sanitario» e «Management ed eonomia sanitaria». «Guai se un manager non sapesse organizzare la propria giornata. Nel tempo libero scrivo articoli, insegno, organizzo congressi, partecipo all’attività associativa dei direttori generali; credo che occorra una crescita non solo culturale ma anche istituzionale e un continuo scambio di conoscenze per condurre oggi le aziende ospedaliere», spiega.
Domanda. La sua carriera nella sanità è cominciata all’epoca dei «baroni della medicina». Come ha potuto accedere alla gestione sanitaria?
Risposta. Mi ritengo un antesignano, una memoria storica della gestione sanitaria, che è cosa diversa dalla medicina. Nella sanità occorre distinguere due figure: quelle di carattere scientifico, i professionisti della medicina; e quelle addette all’organizzazione dei servizi sanitari. Questa seconda parte è affidata, di norma, a una figura diversa dal medico, con competenze prevalentemente giuridico-economiche. In questo ambito mi collocai prevenendo quanto poi avvenne con la creazione, nel 1978, del servizio sanitario nazionale. Anche i medici che si dedicano agli aspetti organizzativi oggi devono avere una formazione di carattere giuridico ed economico. È un processo sviluppatosi dal 1978 nell’università Bocconi di Milano con la creazione del centro studi Cergas, punto di riferimento di quelli creati successivamente. Io e Gerolamo Sirchia, destinato poi a diventare ministro della Sanità nel secondo Governo Berlusconi, eravamo gli unici due esterni al Cergas-Bocconi nel ventennale della sua costituzione. A differenza di altri colleghi, la mia formazione professionale nel campo della sanità manageriale cominciò in un’epoca che definirei pionieristica e si è sviluppata accumulando competenze sugli aspetti economici della gestione. Ma oggi le nomine dei direttori generali non sempre sono basate su professionalità ben definite.
D. Come può definirsi, oltre che un manager?
R. Mi ritengo un giurista d’impresa di carriera, perché la mia attività è cominciata dopo aver vinto un concorso pubblico. Nel 1972, in seguito a una selezione, fui nominato segretario generale dell’ente regionale ospedaliero CTO di Roma. Ero molto giovane e all’epoca quel centro era un esempio di modernità e di efficienza in un panorama ancora molto ingessato; con la mia nomina ha vissuto una vita autonoma come ente ospedaliero. Precedentemente era espressione dell’Inail che, prima della riforma sanitaria, aveva costituito in Italia una rete per tutte le patologie traumatiche, una formula che aveva dato grandi risultati nella traumatologia. Con una legge del 1970 le strutture degli enti previdenziali - quelle dell’Inps per le patologie polmonari e i CTO per le traumatologie -, diventarono enti autonomi. Nella traumatologia il CTO si avvaleva di nomi altisonanti e non era facile mantenerlo a livelli qualitativi tali da consentire a molti di accedere a cure prima riservate a pochi, ma ha rappresentato una sfida esaltante. Un’opportunità straordinaria di inserirsi in un settore che presto avrebbe avuto un’evoluzione tanto rapida quanto radicale.
D. Quale incarico ricorda in maniera particolare?
R. Tra i molti incarichi che ho ricoperto negli anni 70 mi piace ricordare la programmazione sanitaria di cui sono stato un fautore e antesignano quando, con l’allora presidente della Regione Lazio Giulio Santarelli, alla luce delle teorie di programmazione economica di Giorgio Ruffolo, fui chiamato a far parte di un comitato che mise a punto un quadro di riferimento sullo stato e sullo sviluppo che avrebbero avuto i temi organizzativi sulla base dei dati epidemiologici. Fummo i primi in Italia, nel Lazio, quando le regioni a statuto ordinario erano ancora in fase organizzativa; l’esperienza mi fu molto utile quando entrai nel Consiglio sanitario nazionale, organismo di programmazione per tutto il Paese.
D. Qual è il rapporto tra le attività di programmazione di quegli anni e la fase operativa quando, nel 1991, fu nominato amministratore straordinario della usl Roma 10?
R. La legge del 1990 aveva sostituito la figura dell’amministratore unico ai Comitati di gestione creati dalla riforma sanitaria. Con la fine della prima fase che, per efficienza ed economicità, non aveva dato risultati soddisfacenti, si avviò la formula di azienda che trovò un assetto definitivo nel 1994. La usl Roma 10 gestiva contemporaneamente la sanità locale e i grandi ospedali, San Camillo, Forlanini e Spallanzani, con un bilancio che all’epoca superava i mille miliardi di lire. Inoltre con scarse risorse per gli investimenti, malgrado i bilanci così cospicui, c’era l’esigenza, almeno per il Lazio, di rinnovare attrezzature tecnologiche ormai obsolete. La scienza medica negli anni 90, fu ampiamente assistita dalla tecnologia che consentì alla medicina di compiere passi enormi. Il CTO di Roma fu il primo in Italia, nel 1973-1974, ad acquistare su mia proposta la Tac, nata dall’intuizione di un ingegnere della casa discografica Emi che aveva surclassato gli specialisti del settore radiologico. Al San Camillo mi trovai nella necessità di rinnovare le attrezzature tecnologiche di un complesso di 4 mila posti-letto che non possedeva nemmeno un apparecchio per la risonanza magnetica. Sotto la mia gestione fu anche ristrutturato, con l’acquisto di macchine cuore-polmone, il centro di cardiologia, attualmente guidato dal professor Francesco Musumeci, dotato di numerosi posti-letto per la terapia intensiva. Un centro di prim’ordine, realizzato grazie a una donazione di una banca. Nello stesso periodo realizzammo, per l’emergenza, la centrale di ascolto, il 118, istituita con una legge regionale che ancora una volta aveva anticipato la legge nazionale. In tempi rapidi ristrutturammo una palazzina del complesso ospedaliero, dotandola di tutte le tecnologie allora disponibili. Dopo l’inaugurazione di quella struttura, nel 1994 mi fu affidata la gestione del complesso San Giovanni-Addolorata.
D. Come mai, essendo un giurista, è così interessato alle tecnologie?
R. Mi dedico alla loro applicazione programmando strutture destinate a fornire ai cittadini servizi efficienti. Ma non perdo di vista la necessità di cure qualitativamente valide mantenendo vivo il rapporto umano. Le strutture pubbliche debbono funzionare e offrire servizi di cui i cittadini devono andare fieri. Sono orgoglioso della ristrutturazione di quelle che io chiamavo le «ville inglesi» dell’ospedale Spallanzani, un complesso costituito da tante piccole unità realizzato nel 1900, di ottimo gusto; al reparto del professor Beppe Visco di Infettivologia destinammo una di quelle ville, circondandola di un prato verde all’inglese per umanizzare il rapporto con i malati, e accanto realizzammo poi il nuovo Spallanzani, inaugurandolo nel giugno del 1994.
D. Perché nel 1994 lasciò tutto per dirigere una struttura, il San Giovanni, all’epoca in grave degrado?
R. Con la nuova legge la figura dell’amministratore unico fu sostituita da quella del direttore generale, con una diversa articolazione delle competenze. Accanto alle usl, che si occupavano degli assistiti delle zone di loro competenza, furono istituite aziende autonome di gestione dei complessi ospedalieri. Gli ospedali romani San Camillo e Forlanini divennero aziende autonome, il San Giovanni fu scorporato dalla usl cui apparteneva e io fui incaricato di gestirlo quale azienda ospedaliera, insieme all’ospedale dell’Addolorata, un tempo geriatrico e oggi destinato a divenire un centro oncologico. Finché esistette l’ente di gestione Ospedali Riuniti di Roma in cui erano accorpate tutte le strutture ospedaliere romane, cioè fino al 1978, il San Giovanni ebbe una grande fama in molti campi, dall’oculistica alla ginecologia, alla chirurgia e alla medicina interna; quando la Regione Lazio lo soppresse, cominciò una fase di notevole degrado; durante la gestione da parte della usl il San Giovanni divenne quasi un cronicario. Il trasferimento da una realtà in cui ero riuscito a fare molto fu brusco e mi ritrovai grandemente demotivato. La sala Mazzoni, in un edificio con affreschi del 1300, oggi adibita ad hall dell’ospedale, ospitava ancora nel 1994 un reparto di medicina interna di 60 posti-letto, perché l’assistenza doveva essere comunque assicurata. Ancora peggiore la situazione della sala Santa Maria, meglio conosciuta come corsia delle donne e oggi utilizzata prevalentemente come sala-congressi; in essa trovai ubicati i reparti Aids, Psichiatria, i magazzini, la farmacia. Il Pronto soccorso era più o meno una sala-visite pessimamente attrezzata e organizzata.
D. Cosa fece in quella situazione?
R. Dopo il primo shock mi rimboccai le maniche e, grazie alla dedizione del personale, riuscimmo a fare molto più di quanto le sole strutture consentissero. Si trattava di scegliere se curare seriamente e rilanciare il San Giovanni o mantenere lo stato trovato. Insieme al mondo medico del San Giovanni individuammo negli interventi di emergenza il compito dell’ospedale e, ammodernando le strutture e rendendole più umane, realizzammo il Dea, dipartimento di emergenza, anticipando la legge che poi obbligò tutti gli ospedali a costituirlo. Mettendo a frutto la mia esperienza nella realizzazione della centrale del 118, creammo una struttura dotata di tutte le discipline: oltre 4 mila metri quadrati destinati a sala-visite delle varie discipline e a laboratorio, senza bisogno di sballottolare i pazienti da una parte all’altra.
D. Di che si trattava precisamente?
R. Di un ospedale nell’ospedale, che riesce a formulare una prima diagnosi in maniera tempestiva, per poi avviare le terapie successive con un modello completamente informatizzato che ha sostituito la tradizionale cartella clinica. Successivamente prestigiosi ospedali privati, come il policlinico Agostino Gemelli, seguirono lo stesso modello organizzativo. Il San Giovanni riuscì a realizzare 100 posti-letto di terapia intensiva e sub-intensiva per le varie discipline, compresa la terapia cardiologica e neurologica. Inoltre assicurò in tal modo l’assistenza sub-intensiva post-operatoria per poter assicurare un pieno e tempestivo recupero. Accanto a queste strutture per l’emergenza, divenute centri di eccellenza, creammo anche la prima banca degli occhi, che ebbe un successo iniziale e che ora, dopo un periodo di flessione, intendiamo rilanciare, con il contributo scientifico della Fondazione Bietti.
D. Che cosa è avvenuto dopo?
R. Nel 2000, alla scadenza, il mio mandato non fu rinnovato e per un breve periodo fui nominato commissario straordinario. Lo scorso anno sono stato nuovamente nominato dalla giunta regionale nell’azienda in cui avevo molto operato e dove dopo 5 anni molto è rimasto ancora incompiuto. Il prossimo giugno inaugureremo 19 sale operatorie i cui lavori di ristrutturazione, in base a un vecchio progetto del 1996-1997 ancora valido, erano iniziati sotto la mia gestione.
D. È possibile contemperare le esigenze delle aziende, legate all’economia, con quelle dell’etica?
R. Sono convinto che sia possibile, perché economicità significa ridurre i costi, eliminare gli sprechi, non ridurre i servizi. Sono i comportamenti, non le strutture, ad umanizzare i rapporti, e non esiste contrapposizione tra la gestione aziendale della sanità e trattamento dei rapporti umani. Basta progettare modelli organizzativi delle attività in grado di unire i valori etici con i fabbisogni aziendali. Il tema della responsabilità sociale nelle strutture sanitarie è stato oggetto di un recente dibattito che si è svolto nella corsia delle donne del San Giovanni.
D. Quali rapporti ha un manager della sanità pubblica con i politici?
R. Compito del manager è quello di realizzare gli obiettivi, compito dei politici è quello di definire le politiche sanitarie. Il manager non decide autonomamente quali e quanti reparti istituire; egli deve realizzare quanto previsto, in base a dati obiettivi e scientifici, dal piano sanitario regionale per soddisfare la domanda. Il manager ha un’ampia autonomia su come raggiungere lo scopo, non sulla sua definizione. Per il San Giovanni il compito è stato individuato nell’emergenza e le risorse seguono la definizione dell’obiettivo.
D. Questo compito dipende anche dal fatto che è il primo ospedale pubblico per chi giunge a Roma dal sud?
R. Le specializzazioni presenti ad alti livelli - vascolare, neurochirurgia, urologia, ematologia, cardiologia per citarne alcune -, determinano un alto richiamo per i pazienti del sud della regione e non solo. I flussi dei pazienti hanno la loro importanza. Sul piano regionale, per l’emergenza occorre tener conto delle esigenze e costruire una rete di strutture in grado di sopperire ai diversi livelli delle necessità sanitarie della popolazione. Al San Giovanni dovrebbero affluire, attesa la presenza di «trauma center», i pazienti con il «codice rosso o giallo», non chi ha l’influenza come accade ancora. Vi sono le risorse per praticare le terapie ai massimi livelli. Occorre che il cittadino e il medico di famiglia sappiano dove indirizzarsi per una più appropriata assistenza e non, come succede, all’ospedale più vicino.
D. In quale modo ciò può avvenire?
R. È competenza regionale definire i flussi per l’emergenza e in questo senso si sta operando. Anche per i flussi ambulatoriali occorrerebbe fare chiarezza in un sistema di rete. Al San Giovanni abbiamo realizzato una cittadella di ambulatori, a vantaggio dei pazienti che possono sottoporsi a visite e accertamenti in un unico centro. Grazie alla selezione l’ospedale è in grado di fornire il miglior servizio, in efficienza, economicità e umanizzazione, a vantaggio della collettività. Il cittadino ambulatoriale segue un flusso diverso da quello ospedaliero, evitando di gravare di costi inutili la struttura e ritardando la diagnosi per i ricoverati. L’ospedale San Giovanni cerca di dare buona salute dopo essersi dato un’organizzazione in buona salute.

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