GIULIO ROMANO: SICUREZZA DELLE PERSONE E DELLA MAGISTRATURA
![Giulio Romano, magistrato del Tribunale di sorveglianza di Roma Giulio Romano, magistrato del Tribunale di sorveglianza di Roma](/images/magistrato_giulio_romano.jpg)
«A me preme mettere in evidenza come, al fondo delle indagini avventate, degli arresti precipitosi, dei metodi di arbitrio e di violenza troppo spesso usati da parte degli organi della Polizia giudiziaria nei riguardi degli inquisiti, vi sia una supervalutazione del loro operato, un disprezzo nei confronti della personalità e dignità del cittadino che nasce in molti elementi della polizia e perché non avvertono simpatia dalla pubblica opinione e perché c’è in essi la sicurezza dell’impunità che deriva dal famigerato articolo 16 di procedura penale, ai sensi del quale non è possibile un’azione giudiziaria contro agenti di polizia giudiziaria per reati commessi in servizio ove non vi sia l’autorizzazione del ministro della Giustizia. E questa autorizzazione mai è concessa! Questo famigerato articolo 16 fu soppresso dal Senato, ma trovò resistenza così forte da parte della Camera che la proposta di soppressione dovette essere accantonata».
Così protestava l’avvocato e deputato socialista Leonetto Amadei, destinato poi a diventare nel 1972 presidente della Corte Costituzionale, rivolgendosi al ministro della Giustizia Antonio Azara nella seduta della Camera del 13 ottobre 1953 in cui si dibatteva lo stato di previsione della spesa del ministero della Giustizia per l’anno 1953-1954. Sono trascorsi oltre 50 anni, la situazione si è rovesciata, la legislazione negli ultimi anni è completamente cambiata in favore non solo degli inquisiti ma soprattutto dei rei confessi e comunque dei condannati con sentenze anche passate in giudicato. Con il risultato che sono sempre più frequenti i casi opposti a quelli lamentati dall’onorevole Amadei: cioè di eccessiva indulgenza, pietismo, magnanimità verso i responsabili di reati anche gravissimi, che vengono messi in libertà o ottengono licenze premio e altri benefici spesso incautamente, senza le dovute garanzie. E che non di rado commettono altri gravi ed efferati reati. Colpa del legislatore, ossia delle forze politiche, o dei magistrati, o della società? In realtà l’opinione pubblica è scossa da simili fatti ed emotivamente attribuisce la responsabilità ai magistrati addetti all’applicazione delle leggi vigenti.
Ma quali sono queste leggi e, soprattutto, come deve e può applicarle il singolo magistrato? Fa il punto sulla situazione e sui relativi problemi, poco conosciuti dall’opinione pubblica, il giudice Giulio Romano, magistrato del Tribunale di sorveglianza di Roma e componente del Consiglio direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati.
Domanda. Molti sono colpiti dal fatto che delitti efferati sono puniti con pene obiettivamente modeste. Che cosa succede?
Risposta. Che dal 1989, nel tentativo di dare una risposta alla cronica lentezza della giustizia penale, lo Stato ha adottato un sistema che prevede la concessione di rilevanti sconti di pena a chi consente una rapida definizione del processo.
D. Ne è almeno valsa la pena?
R. A distanza di quindici anni continuiamo a parlare di enorme lentezza dei processi, assistiamo a casi eclatanti cui la prescrizione dà un colpo di spugna, dobbiamo constatare che il senso di insicurezza della gente è ancora elevato; dunque, se anche all’addetto ai lavori non sfugge che un certo miglioramento nel numero di processi definiti vi è stato, tuttavia il complessivo confronto tra costi e benefici non è positivo: si è adottata l’importante decisione di rompere l’equazione tra la gravità del reato e l’entità della pena in cambio di un risultato che non si è rivelato all’altezza delle aspettative.
D. Ora quali sono le prospettive?
R. Tornare indietro non migliorerebbe la situazione, allora occorre pensare a qualcosa di diverso; a mio parere, dal punto di vista della collettività, piuttosto che dire a un assassino che invece di 21 anni di reclusione cui viene condannato, se ci fa sbrigare ne sconterà solo 14, sarebbe meglio dirgli che, se veramente consente la pronta definizione del caso, potrà espiare una consistente parte dei 21 anni con modalità alternative; questo tra l’altro consentirebbe di farlo tornare in carcere qualora non dimostrasse di meritare la fiducia accordatagli.
D. Ha parlato di misure alternative alla prigione. Ma la gente stenta anche a comprendere perché i magistrati di sorveglianza, invece di lasciare in carcere chi ha sbagliato, concedono - si dice con troppa facilità -, l’affidamento ai servizi sociali e altri benefici. Come risponde?
R. Se cercassi di difendere la categoria cui appartengo non sarei credibile, e poi vorrei si pensasse che anche i giudici hanno familiari tabaccai, gioiellieri, benzinai che vogliono lavorare senza rischiare la vita, o un anziano genitore che vuol ritirare tranquillamente la pensione a fine mese; proverò allora a dare delle indicazioni più oggettive.
D. Quali in particolare?
R. In Italia operano circa diecimila giudici di cui moltissimi si occupano della giustizia penale emettendo un enorme numero di sentenze di condanna; quasi tutte queste sentenze devono passare al vaglio di circa centocinquanta magistrati di sorveglianza. Una tale sperequazione ha effetti negativi anche sulle strutture ausiliarie e, nonostante l’abnegazione dei colleghi, certo non favorisce il buon funzionamento del sistema. Molte sentenze che consentono gli sconti di pena sono per definizione prive di motivazione, con la conseguenza che il magistrato incaricato di decidere se concedere o meno il beneficio, non è posto nella condizione di comprendere bene quanto il fatto sia stato grave, e quindi di regolarsi di conseguenza. I meccanismi che portano alla riduzione della condanna sono stati introdotti senza alcuna armonizzazione con le regole che permettono di accedere ai benefici premiali, e così si è ingenerato un «effetto sommatoria» che, perfettamente conforme alla legge, è del tutto sbilanciato a favore del reo.
D. Quali sono le conseguenze?
R. In questo modo il sistema permette l’accesso ai benefici a persone che hanno uno spessore criminale superiore a quello per fronteggiare il quale sono state concepite le strutture di controllo esterno; così, ad esempio, il personale dei servizi sociali, pensato nel 1975 per assistere modesti trasgressori, si trova a doversi confrontare con pericolosi delinquenti. Le forze dell’ordine, impegnate su tanti fronti e più concentrate sull’investigazione, non sempre riescono a fornire alla magistratura di sorveglianza informazioni adeguate, e questo può portare a provvedimenti formalmente ineccepibili ma sostanzialmente errati che, nel settore che interessa, significa esporre a pericolo le persone.
D. Ma non è comunque il giudice che decide?
R. In realtà il magistrato di sorveglianza si muove all’interno di un sistema che finisce per dare anche al colpevole garanzie molto ampie; forse occorrerebbe riflettere di più sul fatto che, durante il processo, vige il principio della presunzione di innocenza, con la conseguenza che le garanzie devono essere massime, mentre la fase esecutiva è caratterizzata dalla certezza della colpevolezza, e quindi chi deve essere garantito più di tutti è la collettività.
D. Qual è il ruolo degli avvocati?
R. Sono figlio di un avvocato con più di cinquant’anni di professione alle spalle, e così spero si voglia prendere il lato buono di una constatazione che potrà apparire critica, ma che occorre fare: in Italia vi è un numero di avvocati enormemente superiore a quello della Francia. Non vi è praticamente limite al numero di domande che possono essere presentate ai Tribunali di sorveglianza, e un esorbitante carico di lavoro non ha mai giovato alla qualità delle decisioni. Manca una preparazione che permetta ai giovani legali di comprendere che, quando si è di fronte alla magistratura di sorveglianza, si hanno due clienti: uno è il condannato, l’altro, non meno importante, è la collettività. Qualcuno ha detto che i magistrati devono lavorare di più, ma non ha senso chiederci di svuotare il lago se non si riduce la portata dei suoi affluenti. D’altra parte scarcerare chi ha commesso un grave reato comporta dei rischi per la gente, è come disinnescare una mina; nessuno si sogna di dire a un soldato quante mine deve neutralizzare al giorno; spingere i magistrati a correre verso dati statistici sempre più alti fa passare dall’efficienza all’efficientismo e non contribuisce alla bontà delle decisioni e quindi alla sicurezza. Purtroppo, però, il primo parametro per valutare i giudici è ancora la produttività.
D. Non dovrebbe soccorrere l’esperienza del magistrato?
R. A tal proposito va detto che il legislatore, che nel 1975 istituì i magistrati di sorveglianza, aveva ben chiaro che questi, proprio perché in qualche modo investiti del compito di formulare un giudizio prognostico sulla futura condotta del condannato, dovevano essere particolarmente esperti, e perciò aveva previsto che della categoria dovessero far parte giudici di varie anzianità. La disposizione non ha mai trovato attuazione. Con la recente e non condivisibile riforma dell’ordinamento giudiziario la situazione addirittura peggiorerà in quanto il magistrato di sorveglianza, per far carriera, appena maturata una certa esperienza sarà spinto a cambiare ufficio.
D. Quello che dice sarà vero, ma è opinione diffusa che il giudice abbia un’ampia discrezionalità il cui uso non sempre convince. Non è così?
R. La discrezionalità è necessaria perché la varietà dei casi concreti è infinita; se fosse possibile appiattire le vicende umane su pochi modelli predefiniti, potremmo essere sostituiti da un distributore automatico di decisioni. Il problema è quello della individuazione di criteri il più possibili eguali per tutti, che rendano tendenzialmente omogenee le decisioni. Quando in un caso particolare avverto di avere un ampio spazio discrezionale di scelta, mi accorgo di non sapere come si comporterebbero i miei 150 colleghi, penso che decido in nome del Popolo Italiano e provo a chiedermi quale sia la volontà di quest’ultimo. Certo non posso rifarmi alle dichiarazioni di qualcuno o alle opinioni di gruppi, non saprei quanto statisticamente rilevanti, divulgate nei modi più vari. La collettività manifesta la propria volontà attraverso le ragioni ispiratrici delle leggi, approvate dai suoi rappresentanti liberamente eletti. Qui purtroppo il meccanismo va in «tilt» perché il Legislatore passa in breve tempo, e a volte nella stessa legge, dal permissivismo e perdonismo al rigore e all’inflessibilità. Come si orienterebbe lei nei confronti di un ladro quando in un breve lasso di tempo si è per un verso aggravata la pena per il furto in casa, e per un altro varato il cosiddetto «indultino» che ha di fatto scarcerato molti ladri, in concreto immeritevoli di qualsivoglia fiducia?
D. Sta facendo capire che non c’è alcun rimedio?
R. Sicuramente non è un rimedio quello di limitare drasticamente la discrezionalità del giudice. Oggi si tutela la gente mettendo in carcere il delinquente, ma domani la si protegge provando a costruire per il delinquente che prima o poi, scontata la pena, sarà di nuovo in circolazione, dei validi punti di riferimento.
D. Ma questa discrezionalità non è davvero troppa?
R. Potrei rispondere con un paragone calcistico; il giudice è un po’ come l’arbitro, qualunque decisione prenda metà stadio l’applaudirà e metà lo criticherà; può sbagliare a fischiare ma senza di lui e senza che sia libero di decidere non può esservi la partita.
D. Allora quali sono le soluzioni?
R. Non vi sono formule magiche, ma quello della sicurezza dei cittadini non può essere terreno di scontro politico e tra istituzioni; in primo luogo occorre che interventi estemporanei siano sostituiti da una riforma organica, ampiamente condivisa, che possa indicare ai giudici la rotta verso un unico punto cospicuo; in questo, per quel che ho accennato, anche gli avvocati, che sono presenti in parlamento in un significativo numero, devono fare la loro parte.
D. E i magistrati?
R. Noi magistrati giustamente teniamo, per la collettività ancor prima che per noi stessi, all’indipendenza e all’autonomia; tuttavia, poiché capita che situazioni simili siano trattate in modo differente e ciò non giova all’immagine della giustizia, dobbiamo riflettere sulle disfunzioni che non ci permettono di armonizzare il più possibile l’esercizio della nostra discrezionalità: gli sviluppi di una simile riflessione, lungi dal diminuirla, rafforzerebbero l’autonomia e l’indipendenza a cui giustamente tanto teniamo.
D. La riforma dell’ordinamento giudiziario voluta dal ministro Roberto Castelli risolve i problemi della giurisdizione?
R. La riforma non risolve alcuno dei problemi che stanno a cuore alla gente. Se esami e separazione delle carriere sono la soluzione, perché nessuno ha proposto che anche i magistrati dei Tar siano sottoposti ad esami, e che siano separati giudici e pubblici ministeri della Corte dei Conti? Non mi pare che i loro uffici versino in situazioni migliori delle nostre.
Tags: avvocatura Ministero della Giustizia diritto penale polizia sicurezza giustizia magistratura carceri anno 2006