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MARIO EGIDIO SCHINAIA: COME ACCELERARE LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

Mario Egidio Schinaia

Presidente già nel 1981 di una sezione del Consiglio di Stato poi dei Tar di Lombardia, Abruzzo e Lazio, di nuovo presidente di sezione nel Consiglio di Stato quindi nominato, il 30 aprile 2004, presidente aggiunto, fino a diventare, il 30 dicembre scorso, presidente dello stesso nonché del Consiglio Superiore della Giustizia amministrativa, Mario Egidio Schinaia possiede un’esperienza vastissima maturata anche in un’altra serie di incarichi. È stato capo dell’Ufficio legislativo, capo di Gabinetto e consigliere giuridico dei ministri delle Finanze, del Bilancio, delle Regioni. Ha presieduto varie commissioni e comitati: per le intese tra lo Stato e le confessioni religiose non cattoliche, per la revisione della disciplina del contenzioso tributario, per l’operatività degli organi del contenzioso, per l’applicazione delle norme antielusive. È stato presidente prima di una sezione poi della Commissione tributaria centrale, del Comitato tecnico per l’attuazione della riforma tributaria, del Consiglio Superiore delle Finanze. Ha insegnato diritto pubblico nell’università Sapienza di Roma e nella Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione; ha scritto numerosi saggi di diritto amministrativo. Ha ricevuto i premi Giuseppe Chiarelli, Gifuni, Sorrentino e Arpino-Cicerone. In questa intervista Specchio Economico chiede al presidente Schinaia la situazione e le prospettive in Italia della giustizia amministrativa che ha assunto un’importanza rilevante e crescente per lo sviluppo dell’economia e quindi per gli interessi delle famiglie e delle imprese.

Domanda. Quanti sono i ricorsi oggi pendenti al Consiglio di Stato?
Risposta. Ve ne sono moltissimi che giacciono in una sorta di limbo. Costituiscono per noi un cruccio, perché non dovrebbe esistere una giustizia a due velocità. Le domande di giustizia hanno tutte la stessa dignità, non si può discriminare tra esse. Tuttavia, non avendo la possibilità di deciderli tutti, si è ritenuto di privilegiare la definizione dei ricorsi estremamente importanti. Lo stesso legislatore ha stabilito criteri prioritari, per cui si è instaurata una giustizia efficientissima sulle questioni di grande rilievo riguardanti l’interesse pubblico. Sarebbe assurdo, infatti, esaminare secondo l’anzianità di presentazione i ricorsi contro le decisioni della Consob e delle Autorità garanti in generale, o in tema di grandi appalti, materie nelle quali l’interesse pubblico va immediatamente tutelato. In tale campo il Consiglio di Stato assolve il proprio compito in maniera encomiabile.

D. In quanto tempo vengono definiti i ricorsi?
R. Quelli che sollecitano l’emanazione di ordinanze cautelari, ossia la sospensione dell’efficacia dei provvedimenti impugnati, vengono esauriti al massimo in un mese e mezzo; quelli da definirsi nel merito con sentenza, riguardanti le Autorità garanti, sono definiti in un anno e due o tre mesi fra primo e secondo grado, un record anche nei confronti con l’estero. Tuttavia i ricorsi relativi a interessi di minore importanza, quelli individuali relativi al pubblico impiego o del singolo cittadino contro la pubblica amministrazione, formano una giacenza della quale non si conosce neppure l’esatta consistenza.

D. Che ritenete di fare, per essi?
R. Occorre farli uscire da questa situazione con strumenti che si sta tentando di elaborare, ma è molto difficile. Una mia proposta che ha trovato largo accoglimento consiste nell’accertarne in primo luogo il numero. Si ritiene che siano 600 mila, ma non sappiamo se sia vero né conosciamo la loro importanza. Per molti di essi sicuramente le parti non hanno più interesse; per altri occorre esaminare i singoli fascicoli, operazione complessa anche con l’ausilio dell’informatica, e che potrebbe affidarsi a società esterne specializzate. Ma bisognerà avere prima di tutto un panorama preciso di quello che c’è, poi si potrà scegliere la soluzione.

D. E dopo questa verifica?
R. Una volta individuati i ricorsi che le parti non hanno più interesse a coltivare e ristretto lo zoccolo «duro», questo potrebbe affidarsi ad apposite Sezioni-stralcio da istituire soltanto per eliminare l’arretrato fino a una certa data. Quelle istituite in passato presso i Tribunali ordinari non hanno avuto un grande successo; per la giustizia amministrativa andrebbero formate con specifico riferimento alle esigenze del giudice amministrativo; inoltre potrebbero non essere istituite in ogni Tribunale perché l’arretrato è diffuso a pelle di leopardo: in quelli minori la giacenza è minima e non c’è bisogno di creare una struttura estranea.

D. Chi potrebbe farne parte?
R. A mio avviso si potrebbe ricorrere ad elementi esterni come magistrati in pensione, funzionari statali di rango elevato per i ricorsi relativi al pubblico impiego; la garanzia di una corretta definizione dei procedimenti dovrebbe essere fornita dalla presenza, in ogni Sezione-stralcio, di un magistrato effettivo; se si optasse per il giudizio collegiale si correrebbero minori rischi dovuti alla scarsa specializzazione.

D. L’istituto del prelievo, ossia la domanda di fissare l’udienza, non serve a dimostrare la sussistenza di interesse da parte del ricorrente?
R. Dipende dal volume dell’arretrato. In una Sezione del Tar del Lazio che presiedevo prima di passare al Consiglio di Stato, le domande di prelievo venivano accolte secondo l’ordine di presentazione e i relativi ricorsi esaminati nel giro di un anno; in altri Tar non è possibile perché al prelievo ricorrono tutti, per avere una definizione più rapida del processo. Come pure, per ottenere una definizione a breve, si presentano sempre istanze di sospensiva anche se non giustificate; ora il fenomeno va diminuendo perché spesso si decide anche nel merito, e questa procedura è diventata una sanzione per gli habitués della sospensiva, i quali per di più possono essere condannati alle spese qualora non ricorrano i presupposti per l’emanazione di un provvedimento cautelare.

D. Avete personale sufficiente?
R. Abbiamo un personale di segreteria molto valido e corretto con l’utenza, ma sottodimensionato rispetto alla mole di lavoro che è manifestamente sproporzionata; non è in grado neppure di assistere il magistrato nella ricerca dei fascicoli. Ad ogni magistrato dovrebbero essere addette 4 unità di supporto, invece abbiamo un rapporto assolutamente sperequato, pari a 1,8 impiegati per magistrato. Recentemente è stato disposto un ampliamento dell’organico, speriamo che non resti sulla carta perché il Governo da una parte dispone l’aumento, dall’altra con la Finanziaria blocca le assunzioni.

D. Non si possono invitare i ricorrenti a dichiarare se desiderano proseguire o rinunciare?
R. Nessuno proibisce loro di rinunciare, ma come indurli a ciò? Riteniamo preferibile incaricare soggetti esterni che, con l’aiuto dell’informatica, accertino la consistenza e la qualità dell’arretrato. È presumibile che da un riscontro di questo tipo si possa prevedere qualche altra marginalissima esternalizzazione, restando sempre fermo il principio che la presa d’atto dell’eventuale rinuncia della parte deve essere svolta dal magistrato. Ma molti avvocati mirano a tenere in piedi i ricorsi più vecchi ricorrendo a vari espedienti come le richieste di rinvio, che non dovrebbero essere concesse. È invalso un sistema perverso che può trovare alimento alla cosiddetta legge Pinto che sta creando un fenomeno di grandi dimensioni, specialmente con riferimento al giudice ordinario.

D. In che cosa consiste?
R. Per evitare al Governo di incorrere nelle ire del Tribunale dei diritti dell’uomo, tale legge ha previsto la corresponsione al ricorrente di un risarcimento per il tempo trascorso, a prescindere dalla fondatezza del ricorso, creando con ciò il rischio che questo enorme serbatoio di arretrato sia alimentato da tale prospettiva. E non è un timore infondato, perché il fenomeno può esplodere da un momento all’altro e perché non siamo noi a giudicare le richieste conseguenti alla legge Pinto, ma la Corte di Appello; possiamo solo conoscere i decreti che tale Corte emana per cause che ci riguardavano. Inoltre il risarcimento non viene erogato da noi ma dal Ministero dell’Economia su segnalazione della Presidenza del Consiglio. In un tribunale meridionale negli ultimi tre anni le richieste risarcitorie sono aumentate con progressione geometrica: 200 nel primo anno, 400 nel secondo, 900 nel terzo.

D. Come venire fuori da questa situazione?
R. Adottando misure correttive o aumentando l’organico. Ma qualcosa va fatta per evitare che questo circuito perverso comporti spese insostenibili per l’erario senza poi eliminare l’inconveniente, perché la condanna al risarcimento non elimina il ricorso. È una situazione assurda, l’ho sottolineata pubblicamente e ritengo che il Governo sarà sensibile. Mi risulta che anche la Corte dei Conti sia allarmata per le conseguenze, tanto che si prospetta l’urgenza di un convegno aperto a tutte le categorie di giudici.

D. Come evitare che leggi varate per scopi leciti siano usate in maniera distorta come quelle su spoils system o privacy?
R. Questo è sempre avvenuto quando si adottano facilmente misure che non rispondono alla «naturalis ratio»; soprattutto quando si procede a normare qualche materia con il proposito poi di non fare nulla in concreto. Questo fenomeno purtroppo ha sempre contrassegnato l’operato del legislatore, che attribuisce alle leggi virtù taumaturgiche mentre invece spesso queste finiscono per essere un componimento letterario che ha la forma ma non la sostanza e soprattutto la forza della legge.

D. Un tempo, pur in assenza di computer, gli uffici legislativi dei Ministeri predisponevano schemi di legge rigorosi e precisi; a cosa sono dovuti oggi l’approssimazione, gli errori e quindi l’uso di esse per fini diversi, spesso neppure leciti? Forse proprio all’esistenza dei computer?
R. Probabilmente i computer costituiscono un ammasso di dati dei quali manca poi un’osservazione razionale. Il legislatore ha voluto adottare alcuni rimedi finalizzati alla cosiddetta «best regulation», ossia alla migliore regolamentazione, ma bisogna vedere gli effetti; questa comunque costituisce già uno strumento, ma per eliminare l’anomalia dovrebbe acquisirsi prima la consapevolezza degli effetti indiretti che la normazione può produrre.

D. Per alleggerire il lavoro non potrebbe incoraggiarsi il sistema del ricorso gerarchico?
R. Al giudice si dovrebbe ricorrere per pochi ed esemplari casi; ma questo è un vecchio adagio, attualmente si assiste a un eccessivo ricorso ad esso. È un fenomeno che non riguarda solo il nostro Paese, ovunque i giudici non sono in grado di far fronte alla domanda di giustizia. Noi avevamo l’istituto del ricorso gerarchico, che presupponeva un’Amministrazione preparata ad esaminare le doglianze; purtroppo la nostra Amministrazione ha condannato se stessa in quanto, se avesse svolto la funzione che la legge le assegnava, avrebbe potuto autoregolamentarsi e non farsi regolamentare. Tutto questo ha portato al discredito dei ricorsi gerarchici che o non venivano esaminati affatto o venivano esaminati con estrema superficialità. Prevaleva il fine di «non ricevere», e per questo si pensò di potenziare la giustizia amministrativa cancellando quell’istituto e inviando i ricorrenti al giudice amministrativo. Per di più in quel periodo si riteneva l’intervento del giudice il toccasana di ogni situazione, mentre in realtà è macchinoso, lento, richiede tempi e garanzie. In definitiva l’Amministrazione è stata depotenziata, la giustizia amministrativa inflazionata e ciò ha creato il grande arretrato. Oggi è in atto un tentativo, anche in altri Paesi, di tornare a strumenti alternativi; in Italia si potrebbe riesaminare la formula del ricorso gerarchico inserendovi nuove clausole in grado di risolvere il problema.

D. Perché non si incoraggia il ricorso straordinario al Capo dello Stato?
R. In base alle sue origini storiche, potrebbe essere considerato il residuo di un istituto discutibile in quanto rappresentava uno strumento di «giustizia ritenuta», ossia del potere del sovrano, tanto che si chiamava ricorso straordinario al Re, poi al Re e Imperatore, per poi divenire il ricorso straordinario al presidente della Repubblica. Su di esso il Consiglio di Stato era chiamato ad esprimere un parere non solo obbligatorio ma anche vincolante. Alle origini, a partire dal 1881, il Consiglio di Stato forniva al Re i propri pareri sui ricorsi straordinari che di norma accoglieva, e l’Amministrazione eseguiva l’ordine del sovrano. Sin dall’origine il ricorso ebbe un notevole successo, poiché i giudici propendevano a favore dei ricorrenti, tanto che si ritenne opportuno frenarli alquanto. Con l’andare del tempo il ricorso straordinario, che Vittorio Emanuele Orlando riteneva già estinto, ha continuato a funzionare e attualmente rende un servigio perché il Consiglio di Stato, chiamato sempre a formulare un parere obbligatorio e anzi vincolante, l’ha arricchito di contenuti attribuendogli la maggior parte delle garanzie connesse al ricorso giurisdizionale, per evitare che l’amministrazione decida sull’invio o meno dei ricorsi al Capo dello Stato. Un tempo tali ricorsi erano definiti «la giustizia dei poveri» perché potevano essere presentati direttamente dal ricorrente; adesso non lo credo tanto perché, quando si tratta di questioni importanti, sono sempre scritti da avvocati.

D. Gli avvocati sono contrari ad esso perché di fatto elimina un grado di giudizio?
R. Certo, ma non bisogna dimenticare che le parti stesse possono preferirli in alternativa; per alcuni, infatti, è preferibile la definizione in sede straordinaria. Essendo i tempi per la presentazione del ricorso notevolmente più lunghi, gli avvocati talvolta seguono questa strada quando sono scaduti i termini per quello davanti al giudice amministrativo. La scelta è lasciata al ricorrente ma il ricorso al Tar e poi al Consiglio di Stato fornisce maggiori garanzie in quanto è possibile seguire più da vicino il procedimento.

D. Se concorre a ridurre il contenzioso futuro, perché non si stimola il ricorso straordinario?
R. Da più parti, per togliere al Consiglio di Stato questa ulteriore funzione consultiva, si inneggia alla sua abolizione quando invece le statistiche dimostrano che ne vengono definiti in un anno da 5 a 6 mila, numero di poco inferiore a quello dei ricorsi definiti in sede giurisdizionale. L’istituto quindi sta rivestendo nuovi panni e questo aspetto è interessante.

D. La funzione del Consiglio di Stato, che anticamente riguardava essenzialmente la tutela dei diritti del cittadino e prevalentemente del pubblico dipendente, è diventata più importante per l’economia?
R. Non c’è dubbio. Il giudice amministrativo ha cambiato volto perché ha cambiato volto la società, sono emersi nuovi diritti e interessi, il cittadino poi si pone davanti ai pubblici poteri non più come suddito. Nell’economia si è verificato un fatto opposto, si è proceduto alle privatizzazioni di aziende e servizi pubblici per eliminare grandi monopoli legali e aprire il mercato; ma a questo non possono attribuirsi virtù taumaturgiche, non ha mai fatto miracoli, le vicende di questi giorni lo dimostrano.

D. Come rimediare allora?
R. È necessario che il legislatore, nello stesso momento in cui avvia le privatizzazioni o comunque l’eliminazione del monopolio, guidi il processo per rendere possibile una libera concorrenza effettiva; e dal momento che questa produce il massimo vantaggio per il consumatore, è apparso alla ribalta un altro soggetto, appunto il consumatore. Per questo sono nate le autorità di regolamentazione con il compito di porre delle regole al mercato. Ma chi è il giudice nelle vertenze tra il mercato e queste autorità? Non può non essere il giudice amministrativo. Per cui si è verificato un fenomeno paradossale: le attività che prima si esplicavano più o meno liberamente, sia pure in regime di monopolio, attualmente richiedono il controllo costante del giudice amministrativo, che deve verificare l’attività del regolatore.

D. Quanto sono aumentate le competenze dei giudici amministrativi?
R. Pianificazione urbanistica, ambiente, produzione di energia, tutti i grandi interessi che condizionano oggi la vita richiedono necessariamente l’intervento dello Stato, non più nella gestione diretta delle relative attività ma nella loro pianificazione. Si sono sviluppati settori prima poco conosciuti come l’urbanistica, già di per sé complessa ma destinata a diventarlo sempre più dinanzi alla crescita di un interesse primario come quello per l’ambiente; pensiamo alla crescente necessità di tutela delle risorse di acqua. L’interesse pubblico, quindi, riemerge in maniera molto più consistente, pertanto il giudice amministrativo, punto confluenza dei vari interessi, va assumendo un rilievo fondamentale. Questo indica la necessità di un potenziamento delle sue strutture, anche perché spesso il legislatore ha trovato comodo aumentare i casi di giurisdizione esclusiva e trasferire in blocco ad esso le competenze, assegnandole addirittura a un determinato Tribunale, senza preoccuparsi del numero dei giudici.

D. È il caso del Tar del Lazio?
R. Con l’attribuzione a questo della competenza su problemi di carattere nazionale si è creato necessariamente una specie di super-tribunale. Dopo una precedente esperienza nel Consiglio di Stato e un anno di presidenza del Tar della Lombardia, sono stato il presidente del Tar del Lazio che forse ha vissuto più direttamente la sua trasformazione, dal 1991 al 2001, il periodo delle privatizzazioni e delle autorità indipendenti. È stata la mia più lunga e qualificata esperienza professionale.

D. Mancando, in seguito alle privatizzazioni, una presenza pubblica nell’economia, chi tutela l’interesse pubblico nel rapporto con il capitale privato? Quale ruolo può svolgere la giustizia amministrativa?
R. Ovviamente i privati sono interessati a gestire i pubblici servizi, in particolare quelli a rete, finché rendono, ma in quanto pubblici questi servizi devono essere forniti ovunque. Allora con una certa ambiguità si è escogitata la figura del servizio universale. Ma che cosa è se non la permanenza di un interesse pubblico? In parole semplici: il cittadino che abita in una zona svantaggiata, in campagna, in un piccolo villaggio, ha o non ha lo stesso diritto e interesse a poter vivere civilmente, che ha chi risiede a ridosso della rete elettrica o di trasporto? Cosa ne sarebbe della sua vita se non avesse le stesse condizioni?

D. Può fare qualche esempio?
R. Si stanno manifestando effetti singolarissimi, basta osservare la rete ferroviaria nonostante non sia stata ancora privatizzata; quando lo sarà, le conseguenze saranno più gravi. Paradossalmente lo sviluppo ferroviario in Puglia fu dovuto all’Italietta, che realizzò una rete ferroviaria e se non riuscì a rendere omogeneo il Paese, collegò le Alpi alla Sicilia. Nel 1917 nel mio paese, Castellaneta, c’era già la stazione ferroviaria; ora l’hanno posta fuori dell’abitato, senza alcun controllo; secondo i loro progetti deve funzionare senza alcun addetto. Il risultato è duplice: la gente ha perso quella possibilità di comunicazione che prima aveva, e la stazione è ridotta a un letamaio. In tema di deregulation, avviata negli Stati Uniti per primi, fece scalpore il caso del servizio aereo. «Vinca il migliore, abbassiamo i costi», era lo slogan. Ma quali costi sono stati ridotti? Quelli relativi alla sicurezza. Dinanzi a un conseguente, esponenziale aumento degli incidenti aerei adesso si cerca di correre ai ripari. Esistono attività che è giusto privatizzare, perché possono essere svolte da chiunque e per evitare di creare interessi corporativi specie tra i dipendenti pubblici, ma quando si tratta di pubblici servizi occorre andare piano per evitare effetti spiacevoli.

Tags: pubblica amministrazione giustizia giustizia amministrativa Giugno 2007

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