Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

  • Home
  • Interviste
  • ANNA GERVASONI: AIFI, AL VENTURE CAPITAL FINALMENTE INCENTIVI NELL'AGENDA DI CORRADO PASSERA

ANNA GERVASONI: AIFI, AL VENTURE CAPITAL FINALMENTE INCENTIVI NELL'AGENDA DI CORRADO PASSERA

Anna Gervasoni,
direttore generale dell’AIFI: «Gli obiettivi dell’AIFI
sono anzitutto lo sviluppo
e il coordinamento
delle attività delle società
di investimento nel capitale di rischio in Italia ed Europa. Cerchiamo di favorire
la collaborazione fra società del settore, la diffusione
di informazioni, i contatti fra gli associati, il mercato e altri organismi esterni»

Intervista al direttore generale dell’AIFI

Le foto mostrano tutte un sorriso aperto e spontaneo, anche nelle occasioni più ufficiali. Anna Gervasoni, dal 2001 direttore generale dell’AIFI, Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital, è una donna bruna, capace con inusitata leggerezza di toni e di modi di ricoprire ruoli professionali di rilievo in un settore difficile e complesso come quello economico e finanziario italiano. Convinta che la chiave di ogni successo, nella professione come nella vita privata, stia in un impegno costante, e che sia legittimo assecondare le proprie inclinazioni, ha avuto una carriera decisamente intensa. Venti giorni dopo la laurea con lode in Economia nell’Università Bocconi di Milano, nel 1984, tra i primi del suo anno, divenne subito assistente. Contemporaneamente si occupava di «Idea», un’azienda di progettazione e design di automobili all’epoca di proprietà di uno zio. «Poiché volevo fare la commercialista, pur restando nella Bocconi–racconta–, entrai nello studio del professor Sergio Pivato, dove rimasi per un paio di anni, fino a che un docente con il quale mi ero laureata, Jody Vender, il primo in Italia trent’anni fa ad investire sulle idee e a promuovere un nuovo modo di finanziarle con il venture capital, mi chiese se avevo un po’ di tempo per occuparmi dell’AIFI, che stava per cominciare l’attività. L’idea mi piacque molto e decisi di imbarcarmi in quest’avventura con l'allora presidente Marco Vitale con cui possiamo dire avviammo l’Associazione».
Domanda. Un po’ di tempo, che dura però da 26 anni?
Risposta. Un grande impegno piacevolissimo, che mi ha consentito comunque di proseguire la carriera accademica, cui tenevo molto. Quindici anni nella Bocconi, venti più dieci di compresenza nell'Università Carlo Cattaneo di Castellanza nella quale oggi sono professore ordinario di Economia e Gestione delle Imprese e dal 2000 dirigo il master universitario in Merchant Banking. Dal 1995 mi è stata anche affidata la direzione del Centro di Ricerca sui Trasporti e le Infrastrutture dell'Università Cattaneo. All’AIFI e all’Università, che assorbono gran parte del mio tempo, ho aggiunto recentemente quattro incarichi in consigli di amministrazione, due derivanti dalle norme sulle quote rosa e due no.
D. Non sembra aver avuto difficoltà nell’imporsi in un mondo che parla soprattutto al maschile. Ma il dibattito sul contributo delle donne è sempre assai vivace. La commissaria europea Viviane Reading vorrebbe quote rosa in tutta Europa; in Italia, con la legge Golfo-Mosca, sono ormai un obbligo per i consigli di amministrazione delle società quotate. Una recente ricerca del Credit Suisse, condotta su 2.360 società, evidenzierebbe che le donne nei consigli forniscono risultati migliori per le aziende. Qual è il suo parere in proposito?
R. Ritengo che attualmente si attui una selezione positiva da parte delle aziende, nel senso che quelle più attente alla gestione del gruppo, quelle che operano meglio nell'organizzazione aziendale e nella comunicazione si sono già attrezzate. Tra i temi caldi c'è attualmente quello delle donne ai vertici delle aziende visto che c’è stato un dibattito internazionale intenso, non solo italiano ed europeo. Le aziende migliori, che vogliono preoccuparsi di ciò, cercano di avere anche qualche donna negli organi societari perché ritengono che ciò rappresenti un elemento di crescita culturale. Ho parlato di selezione positiva perché le aziende migliori si dotano di donne di buon profilo nei consigli di amministrazione e continuano ad essere migliori. Infatti si può aggiungere un contributo al femminile.
D. Quale differenza c’è tra gli uomini e le donne?
R. Credo che donne e uomini siano intelligenti ugualmente, ma le donne che riescono ad arrivare ai posti di vertice hanno subito una selezione molto severa, si sono impegnate per fare in modo che il loro merito non passasse inosservato. Quelle arrivate sono, dunque, molto brave. Una volta si diceva che una donna per riuscire doveva valere tre volte più di un uomo. Non è più così per fortuna, ma l’impegno è sempre molto alto. Se poi guardiamo al mondo italiano, sono le società quotate a dover cooptare per legge le donne, e spesso si tratta di aziende che riescono meglio di altre per molti motivi. È ovvio che cercano di accaparrarsi le migliori, anche prima delle scadenze previste dalla legge Golfo-Mosca. Anche perché alcune competenze non sono così diffuse. Questo mi è capitato anche nella mia esperienza personale: sono nel consiglio di amministrazione di Banca Generali e nel collegio sindacale di Saipem. Ma ho anche incarichi che prescindono da tale legge. Sono nei consigli di amministrazione del Fondo Italiano di Investimento e della Same Deutz-Fahr, una multinazionale italiana che produce trattori non quotata e non obbligata alle quote.
D. È riuscita anche a conciliare famiglia e lavoro?
R. Non è impossibile se si svolge un lavoro che piace, ma mi sento una privilegiata perché ho sempre potuto permettermi baby sitter e aiuti. Il tema è più complesso per chi percepisce una remunerazione minore e per chi ha un orario di lavoro più rigido. Sono queste le donne da aiutare di più, perché per chi deve timbrare un cartellino è tutto più difficile.
D. Quali sono i compiti dell’AIFI?
R. Lo scorso maggio è cambiato il presidente e, insieme al nuovo, il prof. Innocenzo Cipolletta, abbiamo stilato un programma triennale 2012-2014 nel quale abbiamo riassunto i compiti che svolgiamo cercando di razionalizzare gli impegni futuri nel settore. L’Associazione nacque nel maggio 1986 con lo scopo di sviluppare, coordinare e rappresentare, in sede istituzionale, i soggetti attivi nel settore italiano dell’investimento in capitale di rischio. È un’organizzazione di istituzioni finanziarie che stabilmente e professionalmente compiono investimenti in aziende, sotto forma di capitale di rischio, attraverso l’assunzione, la gestione e lo smobilizzo di partecipazioni prevalentemente in società non quotate, con un attivo sviluppo delle aziende partecipate. Sotto il profilo della struttura associativa, si ritrovano nell’AIFI società finanziarie di partecipazione, società di gestione di fondi chiusi italiani e advisory companies di fondi chiusi internazionali, banche italiane e internazionali dotate di divisioni dedicate al private equity, finanziarie regionali, società pubbliche per la nascita e lo sviluppo di attività imprenditoriali. I nostri principali obiettivi sono lo sviluppo e il coordinamento delle attività delle società di investimento nel capitale di rischio in Italia. Rappresentiamo gli interessi degli associati in Italia e all’estero cercando di favorire la collaborazione fra le società operanti nel campo, la raccolta e la diffusione di informazioni, nonché i contatti fra gli associati, il mercato e altri organismi esterni.
D. Quali sono i vostri rapporti con le Istituzioni?
R. L’Associazione svolge un ruolo attivo nel processo legislativo e istituzionale attraverso un’intensa attività di lobbying con le autorità competenti, al fine di creare un contesto favorevole per le operazioni di investimento nel capitale di rischio, collaborando attivamente con rappresentanti del Parlamento, del Governo e delle altre Istituzioni operanti sul mercato finanziario, elaborando concrete proposte di legge ed esprimendo pareri formali nell’ambito dei vari processi di revisione normativa. Esiste poi un’attività di studio e di divulgazione finalizzata alla diffusione di un’adeguata cultura del capitale di rischio sia nelle società associate che nelle loro partecipate.
D. Come cambia l’attività di lobbying di un’associazione di categoria quando l’interlocutore, come oggi, è un Governo di tecnici?
R. È difficile generalizzare, ma un Governo tecnico, per i nostri temi che sono poco conosciuti ma molto tecnici, consente ad esempio di parlare con il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, senza dover spiegare cos’è il private equity, perché lo conosce molto bene. È più facile quindi sensibilizzare i vertici politici su una materia di nicchia come la nostra, che richiede una base tecnica, perché l’interlocutore la conosce. Avveniva anche in passato, con l’allora ministro Giulio Tremonti. I rapporti dipendono dal singolo Governo ma soprattutto dalla presenza in esso di elementi competenti in argomenti difficili e poco noti. Il ministro Passera ha sposato in modo totale il tema della promozione del venture capital. Questa sintonia facilita la nostra attività. Per altre attività oggetto di confronto istituzionale e di lobbying, non ci sono solo il Governo e il Parlamento, ma anche gli organi di vigilanza. Trascorro più tempo a dialogare con Banca d’Italia e Consob che con i Ministeri. Svolgiamo anche un’attività di supporto all'applicazione di normative di livello comunitario.
D. Vi interessate anche del settore tributario?
R. Sulla fiscalità abbiamo dibattuto per 5 o 6 anni sulla necessità di passare dall’imposta sul reddito maturato a quella sul reddito realizzato dai fondi del private equity. Il problema non era di consenso ma di copertura, e finalmente si è trovata la soluzione anche con l’aiuto di alcuni parlamentari molto attivi, tra cui la senatrice Maria Ida Germontani, anche lei molto competente in materia. Una svolta epocale, combattuta duramente per anni e finalmente vinta. Agevolare fiscalmente i fondi può spingere gli investitori a sostenerli maggiormente. Ma il nostro obiettivo rimane la costituzione di un Fondo di Fondi con il sostegno pubblico che possa assicurare al settore non solo incentivi ma maggiore disponibilità di capitali.
D. In tempi di crisi è possibile assecondare le vostre richieste?
R. I fondi di venture capital hanno bisogno di denari e basterebbe un capitale di 150 milioni di euro per creare dieci fondi piccoli di venture capital raddoppiando in tal modo il mercato in Italia. In tutti i Paesi per lanciare il venture capital si sono creati fondi con capitale pubblico, affiancato da capitali privati. In Italia sono mancati sempre i capitali e forse anche la volontà; ora finalmente il ministro Passera ha inserito questo punto nella propria agenda. Trovata la copertura finanziaria, l’avvio di questa misura è ormai prossimo e questo è per noi un passo avanti. Come sempre, all’inizio occorre una spinta per l’avvio nel mercato.
D. Perché il vostro settore in Italia è più indietro che in altri Paesi?
R. È poco conosciuto e spesso mal conosciuto per mancanza di comunicazione capillare, ma non è l’unico motivo. Abbiamo scarse risorse per attivare gli operatori. In Francia sono state adottate misure efficaci, da noi poche e scarsamente idonee. Ora speriamo che siano prese misure adatte. Siamo ottimisti. Un altro motivo consiste nel fatto che private equity e venture capital sono un frammento di una catena finanziaria che deve poggiare su un contesto di investitori istituzionali attivi e preparati, come fondi pensioni, casse di previdenza, assicurazioni. Un mondo che in Italia è in ritardo rispetto ad altri concorrenti europei e del quale è in via di definizione quello che può o non può fare. Questo ci ostacola molto. È fondamentale attivare nuovi canali di raccolta per il private equity. C’è poi un’altra parte della nostra attività, perché, dopo avere investito nelle imprese, dobbiamo vendere le nostre partecipazioni.
D. Quali problemi incontrate in questo campo?
R. Il mercato immobiliare in Italia è sottodimensionato rispetto ad altri. È stentato, fatichiamo a superare le 300 società quotate. Se avessimo un mercato con 600-700 aziende, avremmo minori difficoltà nel vendere le nostre minoranze attraverso processi di quotazione. Questo è un tema molto legato alla catena finanziaria, al funzionamento dei mercati finanziari che da noi stenta sotto tutti i profili rispetto agli altri concorrenti. Poi c’è un altro tema anche se più difficile, quello del rapporto tra private equity e mondo dell’industria. In Italia mancano tante belle grandi imprese. Molti investimenti di venture capital nel mondo, sono spin off, derivati da grandi aziende o imprese create da manager che realizzano una propria azienda. Poi c’è il caso di imprese di successo, di buon fatturato e visibilità, vendute ad altre più grandi; in Italia di queste ultime non ve ne sono molte, il comparto delle grandi «corporate» è molto ridotto, le multinazionali straniere vi hanno filiali, raramente c’è la casa madre. Un altro tassello da attivare.
D. In quale modo?
R. Al di là del contesto normativo che può aiutarci sotto tanti profili, credo che l’Italia debba diventare ancor più un pezzo di Europa per trovare altrove ciò che non ha. Il mio presidente cerca di renderci sempre più internazionali. Se non si trovano capitali in casa, vanno cercati all’estero, se non si quotano società da noi, si quotino all’estero. Una maggiore integrazione internazionale aiuterebbe gli operatori italiani a lavorare di più.
D. Quale potrebbe essere il contributo dei media?
R. Potrebbero aiutarci molto, anche se è difficile. Non tutti i media sono attenti a determinati temi, per far capire fenomeni economici a un pubblico più vasto occorrerebbero media anche di altri settori. Mi rendo conto che si tratta di temi che possono non interessare un pubblico più vasto. Sarebbe utile mostrare quello che facciamo nelle aziende in cui abbiamo investito. Se avessimo la volontà e la possibilità di far parlare di più le aziende in cui abbiamo investito capitali, probabilmente si conoscerebbe meglio il settore, di cui spesso sono noti solo i casi più eclatanti. L’80 per cento delle aziende che finanziamo registrano un fatturato annuo mediamente di 30 milioni di euro, ma i media non sono interessati a conoscere che succede in esse. Farli scrivere sulle piccole e medie imprese è difficile.
D. A quanto ammontano gli investimenti dei soci dell’AIFI?
R. L’Associazione è molto piccola, con pochi dipendenti ma intenzionati ad essere efficienti e a lavorare in sinergia con altri soggetti. Rappresentiamo 150 operatori, siamo molto collegati con i nostri omologhi esteri, alcuni dei quali molto grandi. I nostri soci hanno in portafoglio complessivamente 1.136 imprese con 400 mila dipendenti e circa 85 miliardi di fatturato; l’83 per cento di esse fattura meno di 50 milioni di euro; l’88 per cento ha meno di 250 dipendenti. La raccolta di capitali è difficile nell’attuale congiuntura, la nostra nel 2011 è calata del 52 per cento rispetto al 2010, ma sono cresciuti del 12 per cento il numero degli investimenti e del 46 per cento l’ammontare. L’anno scorso il totale dei nostri investimenti è stato di 3.583 milioni di euro in 326 operazioni.

Tags: Ottobre 2012

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa