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COSIMO MARIA FERRI: come migliorare le condizioni di vita dei reclusi

Cosimo Maria Ferri, sottosegretario alla Giustizia

di
VICTOR CIUFFA

 

A causa delle drammatiche dimensioni che ha assunto, il sovraffollamento delle carceri esige soluzioni rapide, che impongono profondi mutamenti legislativi. Il problema del carcere e della sua funzione non può essere affrontato con il vecchio armamentario ideologico di ‘discarica sociale’, risalente agli anni 70, né con strumenti ispirati da considerazioni sociologiche. I vecchi pensieri non possono che condurre alle vecchie soluzioni che non hanno portato a nulla ma hanno contribuito ad aggravare il degrado della situazione carceraria». L’afferma il neo-sottosegretario alla Giustizia del Governo Cosimo Maria Ferri che, già magistrato a Carrara, è stato segretario nazionale di Magistratura Indipendente, una delle associazioni dei magistrati, e ha fatto parte del Consiglio Superiore della Magistratura, organo di autogoverno della categoria presieduto dal Capo dello Stato e, in veste di vicepresidente, attualmente, da Michele Vietti. In questa intervista il sottosegretario Ferri illustra i problemi di grande attualità che Governo e Parlamento devono affrontare: il sovraffollamento delle carceri e i frequenti episodi di violenza e maltrattamento delle donne.
Domanda. Quali soluzioni il nuovo Governo potrebbe adottare per far fronte al sovraffollamento delle carceri?
Risposta. Il problema ha molte cause e non può essere affrontato se non ampliando la ricettività degli istituti di pena, elevando gli standard detentivi secondo le raccomandazioni dell’Unione Europea, limitando il flusso in entrata e considerando come extrema ratio il ricorso alla detenzione in un sistema che avrà sempre meno risorse, cioè giudici, cancellieri ecc. La custodia cautelare in carcere deve avere lo scopo di neutralizzare una pericolosità non fronteggiabile in altri modi, ma comunque in condizioni conformi al senso di umanità. Alle misure attualmente in vigore occorre affiancare ulteriori forme di cautela quali la cauzione o misure interdittive. Tutto ciò senza indebolire il deterrente costituito dalla pena, perché lo Stato non può abdicare alla propria funzione di garantire la sicurezza e la tranquillità dei cittadini. In sostanza la pena detentiva deve essere riservata ai casi più gravi, ai delitti di allarme sociale; e deve essere certa ed effettiva.
D. Attraverso quale strada ritiene che si possa giungere a ciò?
R. Sviluppando un massiccio sfoltimento delle fattispecie di rilievo penale tramite un ampio ricorso a pene pecuniarie per reati di natura «bagatellare» come ingiuria e minaccia, e di scarso allarme sociale, come avviene in Germania; e attribuendo agli enti locali sia l’attuazione delle pene sia la destinazione del ricavato. È necessario sviluppare anche lo strumento dell’espulsione: il sovraffollamento è legato soprattutto all’alta percentuale di detenuti stranieri che, non avendo risorse all’esterno, non possono fruire di misure alternative. Non ha senso comminare una pena detentiva a soggetti dei quali difficilmente si può ipotizzare un reinserimento sociale nel territorio nazionale.
D. Andrebbe fatto ricorso più spesso agli arresti domiciliari?
R. Se considerata una soluzione per il sovraffollamento, la detenzione domiciliare è utopistica; presuppone infatti l’assenza di pericolosità e, prima di tutto, la disponibilità di un domicilio effettivo e idoneo. Quanti detenuti stranieri, quanti tossicodipendenti possono contare su una possibilità abitativa esterna? In tale prospettiva, come sanzione alternativa al carcere si dovrebbe estendere l’istituto dell’espulsione e rafforzare il coordinamento tra le Direzioni penitenziarie e gli organi di Pubblica Sicurezza incaricati di eseguire questa misura.
D. Nel senso che sarà necessario anche snellire le procedure?
R. La riduzione della popolazione carceraria può essere attuata anche sburocratizzando con una serie di interventi la fase dell’esecuzione penale e penitenziaria. Per facilitare il ricorso alle misure alternative, contemperando le esigenze di sicurezza dei cittadini con le finalità deflattive, vanno modificate le norme che limitano la possibilità del giudice di ammettere il detenuto a forme di espiazione della pena esterne al carcere. In casi di condanne di limitata entità, ad esempio entro i tre anni di pena, va ampliata la possibilità del giudice monocratico di applicare le misure alternative sia all’esito del procedimento di merito, sia in sede di esecuzione penale.
D. Quindi pene detentive limitate potrebbero essere convertite in alternative anche durante l’espiazione?
R. A tal fine la magistratura di sorveglianza andrebbe liberata da tutti i compiti di natura amministrativa che tuttora l’impegnano, rafforzandone il ruolo di giudice dei diritti in posizione di terzietà nei confronti dei detenuti e dell’Amministrazione penitenziaria, accrescendone l’efficacia nei tempi delle decisioni sulle misure alternative alla detenzione. Occorrerà pertanto rafforzare lo status professionale della magistratura di sorveglianza la cui attività - a differenza della giurisdizione di cognizione che si incentra in primo luogo sulla ricostruzione del fatto -, è caratterizzata principalmente dalla valutazione di quella che sarà la futura condotta del condannato.
D. Quindi occorre riformare anche il ruolo della magistratura di sorveglianza?
R. In un sistema in cui poco più di 150 giudici, su oltre 9 mila in organico, debbono occuparsi dell’esecuzione, in corso o sospesa, del 100 per cento delle infinitamente numerose sentenze penali, oltreché di numerosissime altre competenze, appare auspicabile un miglioramento dell’organizzazione strutturale, ferma nel tempo, della magistratura di sorveglianza. Va messa in grado di far fronte meglio ai propri impegni, che sono esponenzialmente aumentati, anche con il rafforzamento degli organici e la copertura dei posti vacanti dei magistrati e del personale di cancelleria. E il Consiglio Superiore della Magistratura deve promuovere, anche attraverso circolari, la diffusione di «buone prassi» organizzative e asseverare la legittimità di soluzioni già adottate in alcuni Uffici di sorveglianza, ad esempio in materia di rateizzazione della pena pecuniaria o di remissione del debito.
D. E quando si tratta di imputati o condannati tossicodipendenti?
R. Vanno attivate prassi organizzative e processuali dirette al loro aggancio da parte del Ser.T., in modo da favorire l’eventuale applicazione di una misura cautelare domiciliare presso comunità terapeutiche o strutture sanitarie, così realizzando l’esecuzione dell’eventuale pena nelle forme dell’affidamento terapeutico sulla base dell’articolo 94 del decreto presidenziale 309 del 1990.
D. Che cosa propone relativamente alle condizioni detentive e di esecuzione della pena?
R. Quale forma privilegiata di metodo rieducativo e agevolativo dell’accesso alle misure alternative alla detenzione, va sviluppato il volontariato da parte dei detenuti, ad esempio in occasione di calamità naturali o di svolgimento di progetti di tutela ambientale o dei beni culturali. Anche attraverso l’adozione delle necessarie modifiche procedurali, vanno assicurate la pronta ottemperanza delle decisioni della magistratura di sorveglianza da parte dell’Amministrazione penitenziaria, l’adeguatezza degli organici e le condizioni di impiego di quest’ultima, in particolare della Polizia penitenziaria e dell’area educativa.
D. Mobbing, stalking, femminicidio. Si vanno introducendo nel Codice penale fattispecie di reati già in esso previsti, per di più con nomi stranieri. Non bastava un aggravamento delle pene?
R. Lo stalking è definito in psichiatria un «comportamento ostinato e reiterato di persecuzione e molestia nei confronti di un’altra persona». L’articolo 612 bis del Codice penale individua il reato dello stalker o «molestatore assillante» sulla base di due elementi: la ripetitività del comportamento e il fatto di ingenerare un perdurante e grave stato di ansia, di paura nella persona offesa, di timore per l’incolumità propria o per quella di un congiunto, costringendo la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita. Per questo il reato di stalking è stato inserito tra i delitti contro la libertà morale.
D. Trattandosi di un reato odioso e sempre più ricorrente, non andrebbe meglio definito? Esistono delle proposte in proposito?
R. Si può ipotizzare un aumento di pena e prevedere la possibilità di ricorrere alle intercettazioni, che in questo reato sarebbero senz’altro utili. In particolare si potrebbe aumentare la pena-base prevista nel comma 1 dell’articolo 612 bis del Codice penale, portandola a un massimo edittale superiore ai cinque anni, in modo da far rientrare lo stalking nei reati di cui all’articolo 266 comma 1 lettera a) del Codice di procedura penale, per i quali le intercettazioni sono consentite «ratione poenae». Tra l’altro, portare la pena massima ad esempio a 6 anni magari elevando anche il minimo edittale, potrebbe giustificarsi con la legge 172 del 2012 che ha ratificato la Convenzione di Lanzarote con la quale è stata aumentata la pena del reato di maltrattamenti per certi versi affine a quello di stalking.
D. Ci sono anche altre soluzioni?
R. In caso di reato commesso contro il coniuge separato o divorziato, o in danno di persona già legata sentimentalmente allo stalker, si potrebbe aumentare l’incidenza dell’aggravante di cui al comma 2 dello stesso articolo 612 bis del Codice penale, trasformandola in aggravante ad effetto speciale; in tal modo, almeno in questi casi, la pena conseguente diverrebbe computabile per intero per raggiungere la soglia prevista per le intercettazioni. Un’altra ipotesi: inserire il delitto di atti persecutori fra quelli per i quali le intercettazioni sono comunque previste, a prescindere dalla pena.
D. Spesso gli autori di molestie denunciati o condannati tornano a ripetere gli stessi atti. Che fare?
R. Penso che, sempre nell’ottica di un giro di vite, si potrebbero introdurre: il divieto di bilanciamento dell’aggravante di cui all’articolo 612 bis comma 2 del Codice penale, sul modello di altre ipotesi aggravate per le quali il legislatore ha scelto di rendere non bilanciabile l’aggravante; il potere-dovere del giudice di disporre, anche d’ufficio, la custodia cautelare in carcere nel caso di violazione delle misure cautelari non custodiali, riferite ad ipotesi di atti persecutori, quali allontanamento dalla casa familiare e, soprattutto, divieto di avvicinamento, sul modello di quanto già previsto in caso di violazione delle prescrizioni connesse agli arresti domiciliari. A mio parere, questa opzione potrebbe essere efficace, perché sono frequenti i casi di stalker che trasgrediscono alle misure a loro carico; il rischio che commettano nuovi atti persecutori in costanza di misure è spesso sottovalutato.
D. E nell’eventualità che la vittima sia minacciata e indotta dallo stalker a ritirare la denuncia?
R. Accanto alle possibili modifiche alla legge sullo stalking consistenti in aumenti di pena in funzione preventiva, e cioè per consentire le intercettazioni, si pensa anche all’irritrattabilità della querela. Come nei reati sessuali, al fine di evitare ritorsioni da parte dello stalker dirette ad ottenerne la remissione da parte della vittima, si potrebbe stabilire che la querela non è ritrattabile. Occorre, infine, investire di più nella formazione e attuare campagne finalizzate ad incrementare la sensibilità culturale dei cittadini. Affinché il fenomeno non venga sottovalutato è necessaria, in questa ottica, la formazione nelle scuole, nelle imprese ed anche tra le forze di Polizia. Più che intervenire sulla repressione, il problema oggi è svolgere un’attività preventiva efficace e deterrente. Un ruolo determinante nel comprendere la gravità della situazione l’hanno le forze di Polizia.
D. Ritiene opportuno l’impiego, per i responsabili di tali reati, del braccialetto elettronico?
R. Sì, ma solo ai casi di stalking nei quali viene applicata una misura cautelare diversa dal carcere; in caso non solo di arresti domiciliari, ma anche di violazione del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, e dell’obbligo di allontanamento dalla casa familiare. Ad oggi non esistono dati su quante donne siano state aggredite dopo la scadenza di misure cautelari o la decadenza di provvedimenti restrittivi; i dati disponibili riguardano soltanto il numero dei procedimenti penali avviati che sono passati da circa 10 mila nel 2009 ad oltre 15 mila nel 2012, e di quelli definiti, pari a 4.500 circa nel 2009 e a quasi il triplo, cioè 13.100, nel 2012.
D. Quali misure si stanno rivelando più efficaci?
R. Posso dire con sicurezza che maggiore è il ricorso alle misure coercitive - dal divieto di avvicinarsi ai luoghi frequentati dalla vittima fino al carcere -, maggiore è la possibilità che gli atti persecutori non si ripetano in seguito; e, se questo accade, le stesse misure possono essere nuovamente applicate e sensibilmente aggravate, così da liberare la vittima dal proprio persecutore. Posso assicurare che, su questo punto, la sensibilità dei magistrati è molto elevata, così come è costante l’aggiornamento professionale anche attraverso numerosi corsi organizzati sulla materia.
D. È necessario accelerare l’esecuzione dei provvedimenti adottati dal giudice a carico degli stalker?
R. Non credo necessario introdurre misure ad hoc; una volta che il giudice ha disposto la misura coercitiva, di norma questa viene sempre eseguita in tempi rapidissimi, nel giro di pochi giorni se non di poche ore. Eventuali ritardi sono dovuti solo all’elevatissimo numero di procedimenti che i giudici per le indagini preliminari si trovano ad affrontare, in carenza di organico; procedimenti spesso complessi, il cui studio approfondito richiede tempo. Per cercare di arginare questo fenomeno dilagante i ministri della Giustizia Anna Maria Cancellieri, dell’Interno Angelo Alfano e delle Pari Opportunità Josefa Idem stanno valutando l’ipotesi di istituire un gruppo di lavoro per esaminare il fenomeno stesso e per formulare eventuali proposte anche in ambito normativo. 

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