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Corsera Story - Equo compenso, ma anche equo numero di giornalisti

L'opinione del Corrierista

Con grande entusiasmo gli organi sindacali rappresentativi dei giornalisti, compresi quelli istituzionali come gli Ordini, hanno esultato per l’approvazione di una legge nazionale che fissa il cosiddetto «equo compenso» per le prestazioni dei giornalisti cosiddetti freelance, ossia autonomi, e precari, non legati ad aziende editoriali da contratti di lavoro subordinato. Se si conosce quanto alcuni, anche grandi, giornali nazionali pagano le collaborazioni a questa categoria di liberi professionisti c’è da restare esterrefatti, ma al di là di ogni considerazione e di ogni giusta rivendicazione, c’è da meravigliarsi non tanto dell’esultanza diffusasi, quanto della mancanza di ogni visione e riflessione pratica sia sulle conseguenze di questa legge, sia sui veri scopi di chi l’ha fatta approvare. E pensare che rappresentanti sindacali dei giornalisti si sono mobilitati perfino per spingere il Capo dello Stato a promulgare il prima possibile quella legge, una volta approvata dal Parlamento, coinvolgendo la sua eminente figura in una frenesia irriflessiva, dalle conseguenze negative proprio per la categoria che si intendeva difendere, appunto quella dei freelance. Perché nessuno contesta che sia in atto uno sfruttamento iniquo e odioso, ma parimente nessuno può negare l’effetto di tre fattori rilevantissimi, venuti ad aggravare la posizione e le retribuzioni dei giornalisti autonomi. Il primo è costituito dalla crisi economica mondiale che ha ridotto i consumi delle masse, compreso quello della stampa, per cui si vendono meno giornali e periodici, magari a vantaggio di una pletora di tv che, tramite la pubblicità televisiva, traggono cospicui redditi proprio grazie alla presenza di telespettatori. Il secondo fattore è costituito dalla ritirata degli editori dalla trincea della carta stampata, nell’illusorio miraggio e nella vana aspettativa di maggiore diffusione nel web, di consistenti incassi pubblicitari, di riduzione dei costi. Il terzo fattore, forse il più grave, del quale sindacati e istituzioni dei giornalisti fingono di essersi dimenticati ma che non possono averlo dimenticato, consiste nell’entrata in vigore, proprio all’inizio del 2013, di un’altra legge che ha drasticamente ridotto le provvidenze per l’editoria, per cui si assottigliano le entrate delle aziende editoriali e conseguentemente le risorse destinate al pagamento delle prestazioni giornalistiche ai suddetti freelance. Per cui, se i tagli apportati dal Governo Monti, nella generale politica del risparmio, alle provvidenze costituiscono la «padella», la successiva istituzione del cosiddetto equo compenso è venuta a costituire la brace. Più che profondersi in entusiastiche dichiarazioni di lotta e di vittoria, in slogan tipo «Giustizia per tanti giornalisti precari», sindacati e Ordini dovrebbero rinfrescare le proprie nozioni di economia, se mai le hanno studiate. Perché da una parte la riduzione delle «provvidenze» per tanti giornali e periodici, dall’altro l’obbligo per tutti gli editori di corrispondere l’equo compenso, ridurranno ulteriormente la convenienza a svolgere attività editoriale, con il risultato della scomparsa di molte pubblicazioni, di una minore richiesta di prestazioni giornalistiche, di un assottigliamento dei già grami budget destinati non solo alla carta stampata, ma alle stesse iniziative digitali. Sono questi i risultati cui tendevano questi difensori della categoria? Eppure sanno che non mancano agli editori i sistemi sia per ridurre ulteriormente i compensi, sia addirittura per eliminarli: basta ricorrere in maggior misura alle agenzie, attingere a fonti straniere, acquistare notizie da pool e cooperative. Hanno il coltello dalla parte del manico, diverranno più accaniti nella svalutazione del lavoro giornalistico, più insensibili verso la diffusione della cultura, più arroganti verso i deboli. E sono favoriti nell’erogazione di compensi inadeguati dal continuo afflusso sul mercato di nuovi giornalisti, provenienti da università, scuole, organismi, associazioni, partiti, Regioni ecc. Qualche anno fa perfino un’organizzazione di farmacisti istituì un corso di giornalismo. Anziché scomodare il Capo dello Stato, in questi momenti impegnato a difendere ben altri e superiori interessi per i quali gli italiani hanno combattuto una guerra, abbattuto un regime, instaurato una perfetta Costituzione oggi minata da ignoranza, insipienza e affarismo, sindacati e istituzioni dei giornalisti dovrebbero riscoprire, o scoprire, l’esistenza e la validità di un paio di elementari leggi di economia, quella della domanda e dell’offerta e, l’altra, dell’utilità marginale. La cui conoscenza e osservanza garantirebbe più posti di lavoro dipendente e maggiori compensi per i prestatori d’opera indipendenti. Si è inneggiato e si inneggia tuttora al libero mercato, alla libertà economica, ai diritti dei singoli; poi questi stessi principi vengono clamorosamente calpestati con leggi particolari, corporative, destinate a favorire sparute nicchie di lavoratori e di operatori. Lo stesso scopo, del resto, ha ad esempio la nuova legge sulle provvidenze all’editoria, destinate d’ora in poi a foraggiare gli organi di informazione più grandi e finanziariamente più ricchi, e ad eliminare dalla circolazione una miriade di iniziative editoriali che danno lavoro a migliaia di freelance. Ma come si è potuto, nell’ambito della politica economica liberista e di mercato del Governo Monti, varare due leggi così contrastanti, finalizzate l’una ad eliminare o limitare gli aiuti di Stato alle aziende editoriali e quindi ad aumentare la disoccupazione e l’inoccupazione, l’altra a costringerle ad aumentare i costi, a sconvolgere i bilanci, a ritirarsi dal mercato? A questo punto sorge il sospetto di un altro più sottile e subdolo fine, che si riconnette ai vari tentativi compiuti negli anni passati per impedire, ad esempio, ai giudici di ricorrere al più grande, infallibile, miracoloso strumento di indagini giudiziarie, le intercettazioni telefoniche. Compiuto negli ultimi mesi, il tentativo di imbavagliare l’informazione direttamente con il carcere non è riuscito. Potrebbe riuscire invece ora con la «forbice» economica strozza-stampa: da una parte l’erogazione solo ai grandi giornali in attivo delle provvidenze per l’editoria; dall’altra l’obbligo per tutti gli editori di spendere molto di più per i tanti che praticano il giornalismo per hobby, anziché per passione e bisogno. Non sarebbe preferibile che i freelance venissero pagati direttamente dallo Stato?

Victor Ciuffa

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