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CORSERA STORY. CHI LAVORA IN REDAZIONE, GIORNALISTI O CALCIATORI?

In tutta la mia esperienza giornalistica ho acquisiro molte convinzioni, più o meno attinenti al mio lavoro specifico. Tra quelle relative a quest’ultimo, ve ne sono alcune probabilmente utili a chi aspira a diventare giornalista e a chi è ai primi anni di professione. Avendo conosciuto a fondo il Corriere della Sera nel quale ho lavorato per oltre tre decenni e mezzo e dal quale tutti aspirano ad essere prima o poi assunti, espongo la mia prima e più essenziale convinzione che condenso nel detto: «Dal Corriere non si sale mai, si può solo scendere». Il che significa che, per chi fortunatamente è stato assunto da quel giornale, uscirne per andare ad occupare altri posti, a svolgere altri ruoli, in altre aziende pubbliche o private, a ricoprire cariche istituzionali, significa solo scendere di qualche gradino, al minimo di uno, comunque più in basso. Anche se da un punto di vista ufficiale, gerarchico, burocratico, politico, istituzionale, il nuovo impegno può apparire superiore.
Questo vale per tutti, anche per il semplice redattore cui un altro giornale offra, ad esempio, il massimo ruolo, quello di direttore e un raddoppio di stipendio. Ho visto colleghi del Corriere che, desiderosi di fare carriera, sono passati ad altri giornali assumendovi ruoli superiori: di inviato speciale, redattore capo, corrispondente dall’estero, direttore; nel giro di qualche anno hanno perduto questi ruoli e si sono ritrovati fuori anche dal Corriere; alcuni con un’etichetta politica e professionale a loro stessi sgradita.
A cavallo tra gli anni 50 e 60 un «pastonista» politico abbandonò il Corriere per diventare corrispondente da Mosca di un giornale concorrente e assumerne poi la direzione; e perfino ricoprire una significativa carica di Governo. Esaurite quelle esperienze, tentò di rientrare come direttore al Corriere; gli offrirono un incarico amministrativo ma i suoi articoli apparivano molto raramente sul giornale.
Un altro seguì la stessa sorte e vide sparire per sempre dal Corriere la sua pur autorevole firma; un terzo optò per la direzione di un giornale provinciale e concluse la sua carriera salutato da un prefetto anziché da un Capo di Stato o da un Capo di Governo, comunque dimenticato dai lettori di mezza Italia. Analoghe avventure a malinconico fine si sono registrate in anni più recenti. Il figlio di un grande notabile democristiano, assunto dal Corriere grazie alla raccomandazione del padre e divenuto capo della redazione romana, visti anche i rapporti con organizzazioni tanto potenti quanto inaccessibili, era istituzionalmente vocato a dirigere il Corriere. Pensò di placare la propria ambizione facendosi nominare vicedirettore di un settimanale di sinistra, poi vicedirettore e quindi direttore di un giornale comunista, per trovarsi presto disoccupato. Rastrellati alcuni azionisti, editori e capitali, fondò una nuova testata, pure di sinistra, destinata a spegnersi una volta consumata la poca cera raggranellata.
Lo stesso era successo in altri tempi a un altro transfuga del Corriere, andato a dirigere un grande giornale romano grazie all’amicizia personale con un azionista della Montedison; presto disoccupato, convinse alcune banche a finanziare un nuovo giornale che, esauriti i fondi, chiuse segnando la sua totale scomparsa. E che dire di colleghi che pontificavano all’interno del Corriere e, trasmigrati in altri settori, ad esempio nel cinema in veste di autori e sceneggiatori di film, sono scomparsi?
Per tre volte, quando ero al Corriere, mi furono offerte ottime occasioni, avanzamenti di carriera, aumenti di stipendio, ruoli prestigiosi. Avendo collaborato a fine anni 60 con la Rai redigendo l’insuperato Giornale del III, cioè del Terzo Programma, mi fu offerto il ruolo di redattore capo in televisione; un editore di due quotidiani e di un settimanale mi offrì di dirigere l’intero suo gruppo editoriale; un grande editore come Edilio Rusconi mi offrì di diventare il suo numero uno a Roma e di rappresentarlo presso le istituzioni, Governo, Parlamento, partiti. In tutto e i tre casi risposi: «Lavoro da anni al Corriere; come lasciarlo sia pure per prestigiosi e meglio retribuiti incarichi?». Dal Corriere si può solo scendere. Non si può assumere altrove uno status e una dignità equivalenti, perché non esistono.
Fui chiamato al Corriere nell’aprile del 1956; lavoravo da oltre due anni nel Momento Sera, con successo e soddisfazione. Una mattina scesi in tipografia per impaginare la prima edizione. Comunicai ai colleghi la «chiamata» del Corriere. Aggiunsi che non avrei accettato perché l’editore Realino Carboni era soddisfatto del mio lavoro. Ascoltato casualmente il mio proposito, il redattore capo Antonio Sergio si girò dal bancone sul quale stava indicando al proto come disporre titoli e colonne di piombo, mi osservò qualche istante e, freddo ma deciso, mi disse: «Hai detto che non ci vai? Se domani mattina ti trovo qui ti prendo a calci nel sedere. Al Corriere si va, non si discute». Un vero padre di famiglia, cui non interessava privarsi di un valido e appassionato giovane: «Ho visto giornalisti diventare anziani e andare in pensione avendo sperato per tutta la vita di essere assunti al Corriere», aggiunse. Forse era uno di loro.
Constatai la fondatezza del suo insegnamento contando, ad esempio, le innumerevoli volte che un bravo giornalista come Italo Dragosei salì le scale della sede romana del Corriere di Via del Parlamento 9, nella speranza di essere assunto. Non vi riuscì mai, ma ebbe il conforto, negli ultimi istanti della sua vita, di apprendere che, per far entrare il figlio Fabrizio al Corriere, avevo rinunciato a trasferirmi dal Corriere d’Informazione al Corriere della Sera per farlo entrare al mio posto. Fabrizio Dragosei è ancora oggi corrispondente da Mosca del Corriere.
I tempi sono cambiati e pure le abitudini, per cui anche nel più grande giornale italiano già negli ultimi anni in cui vi ho lavorato ho visto giovani miracolosamente entrare e spensieratamente uscire. Ma questo, invece di indebolire, ha rafforzato la mia convinzione che da esso non si può che scendere, mai salire. A meno che, anziché giornalisti, in redazione non vi siano calciatori. I quali sono abituati a passare indifferentemente e facilmente da una squadra all’altra e vedersi ogni volta quadruplicare i compensi. Ma nei giornali e soprattutto nel Corriere della Sera non si deve lavorare con i piedi, semmai con la testa, e inoltre a prescindere dai compensi.


Victor Ciuffa

Tags: Corsera story Victor Ciuffa Corriere della Sera Corrierista giornalisti editori Aprile 2010

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