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CORSERA STORY. Perché oggi «giornale» deve per forza far rima con «triviale»?

L'opinione del corrierista

Mai avrei immaginato di leggere, in un articolo di fondo di una «firma» illustre del Corriere della Sera e addirittura di un suo ex direttore, Piero Ostellino, termini facenti parte del turpiloquio sia pure comune, quotidiano, sociale e addirittura familiare. Precisamente due termini contenenti ciascuno una doppia zeta, derivanti l'uno dall'altro, pesanti, volgari e del tutto estranei, inutili e superflui in un discorso.
E figuriamoci in un articolo, soprattutto di fondo, quindi diverso, distinto e lontano dagli altri scritti di un giornale proprio per il fatto che deve contenere commenti e valutazioni sia pure in riferimento a fatti, ma non deve dare notizie se non quelle strumentali ai suoi ragionamenti. Deve esprimere giudizi su episodi accaduti, su notizie pubblicate, su avvenimenti descritti altrove, in cronache o in servizi giornalistici ed anche fotografici.
La terminologia usata, ovvero il «gergo» dei giornalisti, serve proprio per distinguere i diversi prodotti dell'industria e della cultura giornalistica: «editoriale» ossia articolo di fondo del direttore, fondo, corsivo, elzeviro, notizia, «breve», cui si aggiungono ulteriori specificazioni ubicative come apertura, spalla, taglio centrale, taglio basso, tormentone, piedino ecc.
Termini volgari o peggio triviali e scurrili, anche se appartengono al linguaggio parlato nel quale sono usati come rafforzativi - forse perché contengono una dura doppia consonante - così come i loro derivati, sono usati perché si pensa che conferiscano più vigore al discorso. Anche se tollerati nel gergo parlato quotidiano, in realtà non rafforzano e, comunque, in questa funzione potrebbero essere sostituiti da altri termini meno volgari e triviali.
Nel linguaggio scritto, poi, a mio parere non ottengono tale effetto perché in esso non c'è la veemenza, la sonorità, l'empito e la passione possibili nel parlare; non servono a nulla, e di questo si ha una lampante conferma se si rilegge lo stesso testo togliendoli; si constata, in tal modo, che non aggiungono proprio nulla all'efficacia delle idee, dei concetti, dei giudizi espressi. Lo stesso, del resto, avviene per i punti esclamativi.
Un effetto notevole, però, il loro uso comunque ottiene: quello di involgarire il discorso o lo scritto, di sostituire la trivialità alla concettualità, al pensiero, al giudizio, alla cronaca, al racconto, a danno della ricchezza di idee, di immagini, di descrizioni e racconti.
Prima di diventare direttore del Corriere della Sera, negli anni 70 Piero Ostellino è stato corrispondente dello stesso giornale dalla Cina; ma non ricordo nei suoi articoli termini triviali, eppure la realtà cinese che egli descriveva, i linguaggi che traduceva, non dovevano essere privi di terminologie da suburra. Allora perché questo bravo e illuminato commentatore, uno dei più saggi e dotati di buon senso del Corriere della Sera, si mette ad usare certi termini?
Perché alcuni, o numerosi giornalisti del Corriere e di altri giornali, inquinano in tal modo le loro idee, i loro giudizi? La risposta che potrebbero dare è che il turpiloquio è diventato linguaggio comune, «lessico familiare». Io contesto questa spiegazione. Parolacce e trivialità sono sempre esistite nell'uso quotidiano, a tutti i livelli. Ho ascoltato termini da scaricatori di porto - ma non è detto che questi ultimi le usino - dalle labbra di sofisticatissime principesse, addirittura di Sue Altezze reali. In privato forse si parla così anche a Corte, ma ne dubito.
Comunque a mio giudizio certi sostantivi, aggettivi, verbi, non si devono scrivere sui giornali anche se le redazioni, come tanti altri ambienti, possono assomigliare più a sentine, angiporti, bassifondi, osterie, che ad aule scolastiche, accademie letterarie, salotti culturali. In queste redazioni, per di più, oggi le donne, ultime arrivate, gareggiano nel superare il più scurrile linguaggio usato dai colleghi maschi.
Tutto ciò è diventato un problema: non solo quando si ascolta, ma soprattutto quando si legge, si assiste a un esibizionismo di giornalisti e giornaliste basato sulle doppie zeta e simili piuttosto che sulla cultura, sulla profonda conoscenza della lingua italiana, sulle buone letture, sul sapere accumulato, sull'esatta gestione di dittonghi, verbi e accenti da parte di conduttori e conduttrici tv. Ma quale effetto gli autori ritengono di fare sui lettori e sul pubblico che, anche per colpa loro ma soprattutto per millenarie abitudini, non può non conoscere il turpiloquio?
Se non producono alcun effetto, allora perché li usano gratuitamente e sempre a sproposito? Forse Piero Ostellino ha voluto dimostrare la negatività presso i lettori di tale vezzo proprio perché qualche giorno prima una giornalista del Corriere della Sera, dal nome delicato come un fiore, Giusy, nelle prime righe di un articolo ha fulminato i lettori con un termine non solo volgare, ma del tutto inutile e superfluo.
Ma nessuno rivela a queste disinvolte, rudi, sboccate giornaliste, che solitamente il lettore ha comprato e pagato il giornale per leggere notizie e non sconcezze da bordello? Se ritengono in tal modo di realizzarsi, esistono ambienti e luoghi in cui possono scaricare i loro complessi di portuali. Dico questo con il massimo rispetto per questa categoria che, sono sicuro, è formata da persone molto più sensibili, intelligenti ed equilibrate di certe odierne scatenate e incontrollabili giornaliste.
Qualche giorno dopo queste edificanti performances da me descritte, tra i massimi leader politici, presunti rappresentanti del popolo, sono volati epiteti anch'essi a base di schifezze verbali. Non ripetiamo quello che si usa ripetere solitamente, che «questo è il Paese», perché non è vero. Sono espressioni e fenomeni che danno fastidio. E se anche infastidissero una tacita minoranza, andrebbero evitati, come oggi giustamente si evita tutto ciò che offende altre sonorissime minoranze.

Victor Ciuffa

Tags: Corsera story Victor Ciuffa Corriere della Sera Corrierista Ottobre 2010

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