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CORSERA STORY. Ma a che serve e a chi serve questa dannosa privacy?

L'opinione del corrierista

Ma è proprio necessaria questa privacy? Innanzitutto che cosa è? Tra le ultime parole entrate nell'uso comune, il termine è stato inserito sic et simpliciter anche in atti ufficiali dal Governo e dal Parlamento e viene usato in violazione di una precisa legge dello Stato italiano. Quindi il solo pronunciarla, oltreché scriverla, costituisce un illecito per i rappresentanti dello Stato e della legalità. Certamente è più facile parlare di privacy che di riservatezza, come di welfare anziché di previdenza, ma non è questo certamente il problema principale che soprattutto i giornalisti devono porsi. Comincio con un esempio.
Tempo fa l'Ordine regionale dei giornalisti della Lombardia, che con quello del Lazio è il maggiore d'Italia, mi inviò un messaggio chiedendomi l'autorizzazione, ai sensi della legge sulla privacy, all'invio di notizie. Capito bene? Giornalisti che chiedono ai giornalisti il permesso di inviargli delle notizie. Non so che cosa avrebbero o hanno risposto i miei colleghi: io risposi semplicemente che, in quanto giornalista ma anche come cittadino, rinunciavo alla mia riservatezza non solo nei riguardi del suddetto Ordine, ma del mondo intero, ritenendo del tutto inesistente e improponibile un diritto individuale di questo genere.
In base a fatti concreti e non ad astratti principi, giudico infatti tale legge diretta non certo a difendere sacrosanti diritti dei singoli, semmai a creare occasioni di illegalità e violazione dei veri diritti dei cittadini. È il caso di quanti approfittano di presunte intromissioni nei «fatti loro», che poi non sono mai esclusivamente «loro», per denunciare i «colpevoli» e chiedere ingenti risarcimenti per danni indimostrati e indimostrabili. Il problema non è di forma, ma di sostanza. Perché, contrariamente a quanto ufficialmente sostenuto da chi le ha approvate e da chi deve farle attuare, la legge istitutiva e le sue modifiche vengono usate per tutti altri scopi, addirittura opposti.
Vengono usate, per esempio, per nascondere e comunque per non far conoscere fatti e notizie che invece non solo possono, ma devono assolutamente essere pubblici, quindi pubblicati, resi noti, diffusi, in quanto i componenti di una società hanno non solo l'interesse ma il diritto di conoscerli. Diritto che deriva, naturalmente, dal semplice fatto di vivere in una società. Se si opera in una collettività si ha diritto di conoscere i comportamenti di tutti i suoi componenti, a cominciare da quelli dei politici che, per di più, hanno volontariamente scelto di rappresentare e tutelare la stessa collettività, e per questo lavoro sono adeguatamente retribuiti; neppure se lavorassero gratuitamente avrebbero il diritto di nascondere tutto ciò che li riguarda.
A mio avviso, ma non solo mio, vanno considerati «pubblici» anche molti dati cosiddetti «sensibili» se sono relativi a situazioni, a condizioni e a comportamenti che possono danneggiare gli altri; i quali «altri» hanno il diritto di conoscerli per difendersi. Non può invocare la privacy, per esempio, un individuo affetto da una malattia infettiva, perché potrebbe propagarla all'intera comunità; né chi ruba, rapina, stupra o è comunque pericoloso per il prossimo. Se si nega questo principio e si pospongono i valori e i diritti di un'intera società a quelli di singole e rare persone, si deve sospettare dei fini reali dei legislatori che hanno introdotto e sostengono la legge sulla privacy. Almeno avessero escluso se stessi da questo trattamento; e avessero escluso quanti svolgono funzioni pubbliche, anche non elettive, invece di beneficiare di un trattamento che è più esatto definire un «privilegio ingiustificato».
Nella realtà, anziché tutelare in tale modo, ossia con l'imposizione della privacy, i diritti delle singole persone, coloro che pretenziosamente e ipocritamente difendono la legge consentono la commissione di una serie di abusi e di reati, compiuti nella certezza della protezione offerta da essa e dalle sanzioni penali e civili a carico di chi eventualmente non la rispetta. Tutta la «battaglia» svoltasi nei mesi scorsi e tuttora in atto in Parlamento e tra le forze politiche per introdurre nella legislazione il divieto per la magistratura di compiere intercettazioni telefoniche è nata proprio nel clima e a causa di questa falso concetto di riservatezza.
È inconcepibile riconoscere il diritto alla privacy a persone che hanno scelto di amministrare gli interessi ovvero i denari degli altri; parliamo di politici, di pubblici amministratori e di burocrati, ovvero di tutti coloro che svolgono un servizio pubblico a qualsiasi livello. Un diritto tale può essere riconosciuto a chi è «obbligato» a svolgere funzioni pubbliche; ma oggi neppure più i militari sono obbligati a prestare servizio militare; comunque è un settore nel quale la riservatezza è alla base della sua esistenza. Ma in questi casi si è in presenza non di un diritto, ma di un obbligo, in quanto relativamente ad alcuni argomenti i militari, ma anche alcuni politici, sono obbligati a non rivelare informazioni. Tanto che la legge prevede sanzioni in caso di violazione dell'obbligo.
Ma oggi in tutti i Paesi democratici la categoria dei «forzati del segreto» è molto limitata. In Italia prolifera invece la categoria dei «volontari del segreto», politici, amministratori pubblici, burocrati allenati nello sport di negare sempre tutto, di nascondere al cittadino le loro decisioni, i procedimenti amministrativi, gli atti pubblici per antonomasia, appellandosi artatamente e pretestuosamente alla legge sulla privacy, violando clamorosamente invece quelle sulla trasparenza e sulla tutela dei diritti della società.
E di queste violazioni i pubblici amministratori non rispondono neppure, perché, dinanzi al loro comportamento illegittimo e defatigante, cosa può fare il cittadino? Trascurare le proprie attività e investire le proprie risorse per ricorrere alla giustizia la quale, anche in caso di plateale violazione dei suoi diritti, non può fare nulla perché i politici hanno eretto una barriera difensiva invalicabile? Hanno stabilito infatti che, per far dichiarare un pubblico amministratore colpevole di un atto illegittimo, il danneggiato deve dimostrare che l'abuso sia stato attuato con il dolo, ossia con il dichiarato intento di danneggiarlo. Il trasgressore non l'ammetterà mai, attribuendo l'«errore» ad un campionario di condizioni pretestuose: difficili condizioni ambientali, organico insuffficiente, ignoranza delle norme, leggi confuse, molteplici interpretazioni possibili ecc.

Victor Ciuffa

Tags: Corsera story Victor Ciuffa Corriere della Sera Corrierista Novembre 2010

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