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CORSERA STORY. Il popolo di negri per i watussi dell'informazione

L'opinione del corrierista

Gli esempi oggi possono chiamarsi Francesco Alberoni, Roberto Gervaso, Maurizio Costanzo, in passato Enzo Biagi ed altri. Persone, cioè, che da anni ed anni scrivono su quotidiani e settimanali, che spesso sono sempre gli stessi, anche due o tre articoli al giorno. Giornalisti, scrittori o esperti in qualche materia, evidentemente prediletti dagli editori che li impongono, più che dai direttori che si susseguono al contrario della loro firma, che continua ad apparire imperterrita, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, spesso anche con fotografia, sugli stessi giornali o periodici, e solitamente nella stessa collocazione.
Ammanniscono giudizi, sentenze, consigli, discettano di tutto e su tutto. Talvolta sono professori di università, abituati a impartire lezioni quotidiane o plurisettimanali a studenti che non possono ribellarsi se la loro presenza in aula è obbligatoria; professori prestati ai giornali e, a volte, anche giornalisti prestati all'università, ove sono chiamati ad insegnare non in base a un titolo di studio conseguito o a un concorso pubblico vinto, ma in ossequio a una vera o presunta esperienza e, spesso, grazie all'appartenenza a qualche riservata associazione.
Possibile, finisce però per chiedersi anche il più ingenuo e sprovveduto lettore, che questi watussi dell'informazione siano competenti in tutto, possano scrivere su tutto, intervenire a comando, sciorinare pareri, commenti e addirittura diktat e ordinanze, anche essere ma soprattutto apparire «saputi» in ogni occasione e su qualsiasi argomento? Possibile che non esauriscano mai il loro bagaglio di notizie, conoscenze, esperienze? No, non è possibile. Se scrive tutti i giorni, un giornalista non può non esaurire inevitabilmente nel giro di qualche mese le proprie conoscenze e i propri argomenti.
Se è sottoposto a un lavoro così intenso, si svuota, si esaurisce, e dopo quattro o cinque, al massimo sei mesi, non sa più cosa scrivere di nuovo e di originale, ha dato fondo a tutti gli argomenti, ha un assoluto bisogno di ricaricarsi. Proprio come una batteria elettrica. In che modo può farlo? Uscendo dal proprio limitato, angusto studio o ufficio, dalla ristretta cerchia di persone e di ambienti che solitamente frequenta. Ha bisogno di avere nuovi contatti con la società che, nel frattempo, cambia, si evolve incessantemente, si arricchisce di novità, di esperienze, di sensazioni, di abitudini e di umori.
Solo dopo un'adeguata «ricarica» il vero giornalista è in grado di ricominciare a scrivere, sia se deve raccontare semplicemente la cronaca, sia se deve illustrarla e commentarla, esprimendo nuove idee e inediti concetti. Altrimenti si ripete, è noioso, crede e si illude di essere seguito dai lettori, ma non lo è. Al solo apparire della sua firma, infatti, aumenta il numero dei lettori che voltano pagina, perché non possono e non vogliono più sentirsi ripetere le solite frasi, le storie consuete, i giudizi un tempo magari anche coraggiosi, innovativi e anticonformisti, ma degradati via via in un anticonformismo ultraconformista.
Quali metodi seguono queste «grandi firme» per riuscire ad apparire per anni, o addirittura per decenni, sulle pagine dei giornali, quasi sempre poi gli stessi, anche quando ne cambia la proprietà? I sistemi e i trucchi sono molti. Non basta diventare amici di editori e direttori, perché comunque si ha a che fare anche con i lettori, le cui esigenze, desideri e idee dovrebbero cercare di soddisfare; ricorrono anche ad altri mezzi.
Talvolta scelgono un bersaglio politico, cercando di distinguersi nel criticare un personaggio di primo piano, ad esempio il presidente del Consiglio, sicuri di ottenere l'appoggio e il consenso dei suoi oppositori anche se quanto scrivono non sempre è obiettivo, fondato, razionale. O commentano i fatti di cronaca esprimendo impressioni e sensazioni su notizie anche incomplete e incontrollate, pertanto fuorvianti, con considerazioni ovvie, frequentemente smentite dai successivi eventi, e quindi inutili.
O possono rifugiarsi in biblioteca a scopiazzare vicende già scritte, corredandole di giudizi inesatti o pseudo-originali, che nessuno potrà smentire perché i personaggi rievocati sono scomparsi da secoli o comunque da vari decenni. Possono scegliere un settore, ad esempio lo spettacolo, o un comparto di esso, ad esempio la televisione che offre quotidianamente materia di dibattiti. Possono ricorrere all'artificio della «posta dei lettori», autoscrivendosi lettere o facendosi inviare da parenti, conoscenti ed amici quesiti prestabiliti su argomenti cui possono rispondere sfoggiando una conoscenza e una cultura vastissime e profonde.
Poi c'è un altro sistema usato soprattutto da giornalisti che possono contare su una squadra di collaboratori pagati da altri, ad esempio dal giornale per il quale lavorano e più frequentemente da un'emittente televisiva; in particolare su una redazione addetta ad un settore, a servizi speciali, a rubriche tv. Costoro possono servirsi di vari altri giornalisti o aspiranti tali, per lo più contrattualmente obbligati a fornire prestazioni subordinate, alle dipendenze del «capo».
Il «prodotto» di foltissime équipes in questi casi porta la firma di un solo giornalista, che in tv è anche il conduttore della trasmissione, mentre i nomi dei collaboratori, a volte decine, restano pressoché sconosciuti in quanto vengono tutt'al più vengono fatti scorrere sullo schermo in dimensioni ridotte e a velocità tali da renderli illeggibili. Guai però, nella nostra società evoluta, usare anche involontariamente, sovrappensiero, il termine «negri» per indicare gli africani: si è subito accusati di razzismo, perché vanno assolutamente chiamati «di colore» o al massimo «neri».
Ma impunemente si possono, invece, sfruttare e definire «negri» giornalisti bianchissimi, coltissimi, bravissimi, costretti purtroppo, per bisogno e soprattutto per mancanza di relazioni e di protezioni equivoche e inconfessabili, a lavorare nell'editoria, nel giornalismo e soprattutto nella televisione, per direttori, redattori-capo, conduttori, anchormen, primedonne, faccendieri, pseudo-scrittori, per tante «firme», cioè, che si comportano come «padroncini»: arroganti verso i colleghi cui va il merito di farli apparire, brillanti, intelligenti e prolifici, ma platealmente ossequienti, viscidi, servitori, dinanzi ai politici e in generale ai rappresentanti del potere.

Victor Ciuffa

Tags: Corsera story Victor Ciuffa Corriere della Sera Corrierista giornalisti dicembre 2010

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