Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

CORSERA STORY: GIORNALISMO, MEZZO SECOLO DI PROGRESSI. E DI REGRESSI

L'opinione del Corrierista

Dalla fine dell’800 ad oggi il giornalismo è cambiato moltissimo, ma è soprattutto nella seconda metà del ‘900 che il mutamento è stato continuo, travolgente, tale da trasformare quasi del tutto questa professione. Nel primo decennio del secolo ventunesimo poi, quello attuale, il giornalismo è diventato praticamente irriconoscibile. Ma fortunatamente la carta stampata esiste ancora, e sono convinto che non scomparirà mai: possiedo una biblioteca di oltre 7 mila libri e una collezione di macchine da scrivere meccaniche ed elettroniche, computer, stampanti, lettori, floppy-disk, dischetti, compact disc, pennette, chiavette, backup ed altro, contenenti decine di migliaia di articoli e di intere pagine di giornale, tanti da costituire un piccolo museo degli strumenti di stampa e di archiviazione degli ultimi 50 anni.
Oggetti, questi ultimi, affascinanti ma, rispetto ai libri, totalmente inutilizzabili. Contengono una miniera di saperi e di conoscenze divenute in pochissimi anni più inaccessibili degli antichi testi etruschi e dei Rotoli del Mar Morto che, risalenti perfino a centinaia di anni prima di Cristo, sono stati in gran parte letti e tradotti. Ma il benessere della società odierna consentito da uno sviluppo economico incessante si basa su una legge ferrea, quella del consumo crescente, dell’aumento della produzione, della sostituzione anticipata dei prodotti. Meccanismo che, almeno fino alla prima metà del secolo scorso, non esisteva in tali dimensioni.
Governi, Parlamenti, Stati, impongono sempre più a tutti i cittadini, alle famiglie e alle imprese, anche a quanti sono sprovvisti dei necessari strumenti tecnologici e delle relative conoscenze tecniche, la cosiddetta digitalizzazione di dati, testi e documenti, operazione indicata anche con l’orrendo neologismo di «dematerializzazione». Ma cosa resterà di una mole immensa di documenti «dematerializzati»? E, soprattutto, come questi potranno essere letti ed utilizzati se l’industria, pressata appunto dalle esigenze di produrre sempre di più, dopo appena 5 anni elimina dalla produzione tali congegni, o comunque non ne fornisce più componenti di ricambio essenziali, e addirittura l’assistenza tecnica all’uso degli stessi?
Gli addetti ai lavori si mostrano ottimisti, prevedono che si fabbricherà sempre qualche sistema di conversione dei dati, ma certamente l’accesso ad esso sarà difficile e costoso per la massa, mentre per le Pubbliche Amministrazioni costituirà un ulteriore, pesante onere finanziario a carico della collettività. Mi pongo una domanda inquietante: quanto sapere «dematerializzato» sarà accessibile a tutti fra una trentina di anni?
Questa mia riflessione riguarda in particolare il giornalismo, soggetto anch’esso in questi ultimi decenni, come accennato, più ad uno stravolgimento che a un progresso e a un arricchimento. A volte questo avviene per colpa degli stessi giornalisti. Ricordo che nel 1976, quando la proprietà del Corriere della Sera, costituita allora dalla famiglia Rizzoli, decise di pubblicare le «Pagine romane» ossia la cronaca di Roma, oltre alle resistenze dei sindacati dei poligrafici milanesi, sempre timorosi di una «romanizzazione» del grande giornale lombardo, si manifestarono quelle di alcuni giornalisti della redazione romana, ritenutisi incapaci di affrontare la concorrenza del Messaggero, quotidiano locale nato quasi cent’anni prima e ampiamente diffuso nel Centro-Italia.
Invece di affrontare coraggiosamente il confronto, favoriti per di più dall’operare in una ben più prestigiosa, antica e diffusa testata, quei giornalisti formularono la teoria di una «cronaca alternativa» a quella del Messaggero, basata, anziché sugli avvenimenti e sulla vita reale della società locale, sulla descrizione di vicende, opere e protagonisti dell’arte romana, a partire dal Caravaggio. Io sostenevo che sarebbero bastati 6 mesi per battere le cronache assommate del Messaggero e di Repubblica, quest’ultima nata proprio in quell’anno, e per vendere più copie di loro anche a Roma. La successiva evoluzione delle «Pagine romane» del Corriere della Sera mi ha dato ragione, ma ho dovuto attendere alcuni anni.
Una buona parte della responsabilità della loro tardiva affermazione a Roma va attribuita agli amministratori del Gruppo di quegli anni, digiuni di giornalismo, pavidi, ciecamente al servizio di una proprietà spinta da interessi e attività industriali anziché culturali, e dalla trasfusione in quell’azienda dei metodi in auge nella Rai-Tv, cioè raccomandazioni, clientelismo, nepotismo, intromissioni di partiti e soprattutto totale ossequio e asservimento di alcuni giornalisti alla proprietà, e per questo chiamati a dirigere i giornali del Gruppo e talvolta addirittura cooptati nei suoi consigli di amministrazione e trasformati quindi, se non in nemici, quantomeno in avversari della loro stessa categoria.
Questo determinò in seno al Corriere anche un altro strano fenomeno: il massiccio ricorso da parte di tali direttori a collaboratori esterni, venuti a formare ad un certo punto una vera e propria redazione esterna, con il risultato o addirittura il compito di sostituirsi ed emarginare i redattori interni, relegati a non fare nulla o a crearsi rubrichette, ovvero nicchiette di salvataggio professionale, che ad alcuni «emarginati» permisero addirittura di diventare «specialisti» e «numeri uno» in campo nazionale nella loro materia, ad esempio gastronomia, fotografia, bridge, scacchi. Settori che, affiancandosi a quelli tradizionali della critica cinematografica e televisiva, sottrassero al giornale elementi promettenti nei principali comparti, attraendo comunque altre schiere sia pure marginali di lettori.
Quanto alla proposta da tempo avanzata da esponenti politici ed ora ripresa da Romano Bartoloni, presidente dei cronisti romani, diretta ad abolire l’Ordine dei giornalisti, mi trova favorevole nel senso piuttosto di tornare alle origini, ossia all’esistenza di un Ordine costituito solo dai giornalisti della carta stampata, quindi alla separazione da quelli operanti nelle televisioni e nelle radio, tanto più dagli operatori del web ossia dell’informazione definita on line, ed anche dai fotografi. Oltreché dalle scuole e scuolette di pseudo-giornalismo e dai pseudo-giornalisti. Tutti sono liberi di crearsi una propria associazione, solo così si salverà il vero, autentico giornalismo.

Victor Ciuffa

Tags: Romano Bartoloni Corsera story Victor Ciuffa Corriere della Sera Corrierista giornalisti editori aprile 2012

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa