Corsera Story. Un’ipotesi reale sulla strage di Kindu
L’opinione del Corrierista
È trascorso quasi mezzo secolo dal sacrificio dei 13 aviatori italiani trucidati a Kindu nel Congo, ma su quella tragedia non è stata ancora fatta piena luce. I frettolosi passeggeri che arrivano o partono dall’aeroporto intercontinentale romano di Fiumicino non hanno neppure il tempo di guardare il monumento che li ricorda. La versione ufficiale fornita dalle autorità diplomatiche italiane di Léopoldville, come si chiamava allora la capitale di quel Paese, è lacunosa, basata su approssimativi accertamenti postumi compiuti da inviati dell’ambasciata italiana e delle Nazioni Unite.
La ricostruzione dell’episodio pubblicata in prima pagina dal Corriere della Sera il 17 novembre 1961 con il titolo «Come sono stati trucidati» consiste in un approssimativo assemblaggio di notizie di agenzia, tanto che è firmata C.S., ovvero Corriere della Sera, sigla all’epoca usata per i servizi confezionati in redazione su fatti avvenuti ove mancava un corrispondente o un inviato del giornale. Pochi giorni prima mi trovavo non lontano da Kindu, ed ero stato anch’io catturato dalla soldataglia congolese, ma ero riuscito a salvarmi.
Conoscevo bene i 13 aviatori italiani con i quali mi intrattenevo tutte le sere nei tavoli all’aperto di un bar situato nel Boulevard Albert, la principale strada di Léopoldville. Il 18 settembre 1961 ero stato inviato dai capiredattori del Corriere della Sera Michele Mottola e Gaetano Afeltra nel Congo per seguire i burrascosi avvenimenti della tentata secessione del Katanga, la provincia meridionale con capitale Elizabethville che, ricca di miniere di diamanti di proprietà dell’Unione Minière (ndr: du Haut Katanga - UMHK) e governata dal filo-belga e filo-occidentale Moise Ciombe (ndr: Moïse Kapenda Tshombé), puntava a staccarsi dal resto del Paese il quale invece, ottenuta l’indipendenza dal Belgio, era caduto sotto l’influenza sovietica.
Il giorno prima della mia partenza dall’Italia, nei pressi di Ndola era stato abbattuto l’aereo che da Léopoldville trasportava in questa cittadina del Katanga, per incontrarsi con Ciombe, Dag Hammarskjöld detto «Mister H», segretario generale delle Nazioni Unite le quali si opponevano alla secessione. Pochi mesi prima, il 18 gennaio 1961, Ciombe aveva compiuto un altro gesto simile: invitato ad Elizabethville Patrick Lumumba, primo presidente del Consiglio del Congo indipendente, filosovietico, l’aveva fatto trucidare durante il viaggio in aereo.
Da Léopoldville, ove risiedevo nell’Hotel Memling a pochi metri dal Boulevard Albert, trasmettevo ogni sera al Corriere un articolo contenente il resoconto dei fatti del giorno; poi mi recavo in quel bar dove arrivavano anche i piloti italiani, al termine dei voli effettuati nel corso della giornata con gli aerei militari da trasporto C-119 per rifornire le truppe inviate dall’Onu in diverse località del Paese dopo i disordini seguiti alla concessione dell’indipendenza.
Tra loro era il tenente medico Francesco Paolo Remotti, che nei Castelli Romani aveva una villa poco lontano dalla mia. Una sera il gruppo mi invitò a fare una visita nella zona indigena della città. Feci presente che non era il caso, che già era pericoloso imboccare qualche traversa del centralissimo Boulevard Albert; i bianchi, infatti, rischiavano di essere scambiati per para belgi rimasti nel Congo, e di essere uccisi spietatamente, soprattutto se fiamminghi. Mi risposero che non c’era nulla da temere: aprirono il cofano di una Volkswagen bianca parcheggiata lungo il marciapiede e mi mostrarono un vano pieno di mitra e bombe a mano. A maggior ragione ritenni assolutamente sconsigliabile la visita alla città indigena e non vi andai.
Nei giorni seguenti lasciai la capitale per andare a intervistare, nella Provincia orientale che aveva come capitale Stanleyville ed era governata dal filocomunista Victor Lundula, la vedova di Patrick Lumumba, Pauline, che si era rifugiata con il figlio Roland in una casa ai margini della foresta equatoriale. Per raggiungerla dovetti attraversare a piedi l’Equatore. Al ritorno verso Stanleyville fui fermato da un drappello di soldati che, al comando del generale lumumbista Antoine Gizenga, dalla Provincia orientale attraverso il Kivu si recavano nel Katanga per combattere contro Ciombe. Gizenga era stato nominato vicepresidente del Consiglio dal presidente Adula, ma insofferente delle trattative condotte dall’Onu, stava reclutando truppe per combattere Ciombe. Mentre mi conducevano verso la foresta, i soldati furono bloccati da una guarnigione militare locale e invitati ad accompagnarmi nella vicina caserma.
Fu lì che fortunatamente m’imbattei in un sergente che parlava francese, al quale spiegai che non ero un para belga ma un giornalista italiano e che mi ero recato a intervistare la vedova del loro scomparso leader Lumumba; il sergente dové faticare molto per spiegarlo in swahili, la loro lingua, ai soldati che mi avevano fermato, i quali poi mi tolsero i mitra dai fianchi, mi strinsero la mano e mi regalarono un grande ritratto di Lumumba.
Tornai a Léopoldville e, dopo qualche settimana, in Italia, dove appresi il tragico epilogo della missione compiuta dai 13 aviatori italiani a Kindu. Non riuscii però a trovare, né nella versione fornita dalle autorità diplomatiche italiane e dell’Onu né nei resoconti pubblicati dai giornali, i motivi di quell’efferata esecuzione. Si era solo accertato che, giunti a Kindu con due C-119, i 13 italiani si erano recati alla mensa dell’aeroporto e lì erano stati aggrediti e circondati da soldati congolesi, caricati su un camion e portati nella piazza principale della cittadina, dove erano stati uccisi. Sui loro corpi gli indigeni poi si erano accaniti eseguendo primordiali e feroci riti propiziatori.
La mancanza di testimoni diretti, l’incertezza dei resoconti, l’indeterminatezza delle circostanze rendevano inattendibile la versione ufficiale. La spiegazione non poteva essere che un’altra. Giunti in aeroporto, gli aviatori avevano lasciato sulla pista i due aerei e si erano diretti alla mensa distante 300 metri. Qui erano stati provocati da militari locali al comando del colonnello Pakassa; sentendosi sicuri come quando erano a Léopoldville, avevano reagito ed era scoppiato un violento diverbio. Ma questa volta non c’era la Volkswagen bianca a 5 metri; ingenuamente avevano lasciato le armi sui due C-119 a notevole distanza. Questo non toglie nulla al loro eroismo: persero la vita per portare la pace, oltre alle risorse materiali, a un popolo che, nonostante l’indipendenza, continuava ad essere sfruttato dai poteri economici occidentali.
(Victor Ciuffa)
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