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CORSERA STORY. CONTINUA LA CONFUSIONE. C’ERA VIA VENETO E VIA VENETO

L’opinione del Corrierista

 

Il Corriere della Sera che, durante la sua stagione gloriosa descrivendolo per primo tramite i miei articoli sulla sua edizione pomeridiana “Corriere d’Informazione”, non solo fece conoscere il grande fenomeno di costume della Dolce Vita romano-internazionale ma soprattutto lo creò, continua oggi a confonderlo e a travisarlo affidandone il racconto a chi non lo conosce, a chi non l’ha vissuto, a chi lo descrive riferendo versioni orecchiate, approssimative, spesso interessate. Come ad esempio quelle di certi fotografi di oggi che, pur non avendovi partecipato, continuano a narrarlo come l’epopea delle loro bullesche imprese denominate paparazzate: complessivamente si svolsero sì e no 5 «scazzottate» con i divi dell’epoca, furono fracassate sì e no 5 «fotocamere».

Erano paparazzate nella maggior parte dei casi concordate tacitamente o espressamente tra i protagonisti, ossia tra i fotografi e i divi o i loro addetti stampa: frequentare certi luoghi in certi modi e condizioni significava infatti, ieri come oggi, voler essere fotografati, voler finire sui giornali; era un sistema semplice per farsi pubblicità a costo zero. La mia lunga esperienza nel giornalismo d’attualità mi ha consentito di formulare una lapalissiana ma ferrea «legge del paparazzo»: una foto non sarà mai pubblicata se non esiste; se esiste, subito o a distanza di anni finirà su qualche giornale.

Sono rarissime le foto fortuite; il 99 per cento di quelle pubblicate, soprattutto dei protagonisti dello spettacolo e della politica, sono eseguite con il consenso, espresso o tacito, dei soggetti fotografati; i quali sanno a priori che, se si pongono nelle condizioni di essere fotografati, finiranno immancabilmente sui giornali. Chi non desidera questo si astiene dal frequentare certi posti, dall’assumere certi atteggiamenti, dall’apparire con certe compagnie. Potrei citare infiniti esempi dell’una e dell’altra specie.
L’osservazione che ho fatto su quanti scrivono e parlano oggi della Dolce Vita senza saperne nulla - non parliamo poi dell’ignoranza e della presunzione di chi ne fa oggetto di trasmissioni televisive e di prodotti audiovisivi -, non dovrebbe valere per Alberto Arbasino che, in quella stagione, in Via Veneto talvolta pure apparve: lo testimonia anche Ennio Flaiano, autore con Federico Fellini del soggetto e della sceneggiatura del film La dolce vita.

Nel diario di una notte del marzo 1960 - la pellicola era in proiezione nei cinematografi di prima visione dal 4 febbraio -, riferendo un dialogo svoltosi tra due amici in Via Veneto sul significato che, con il passare degli anni, assumono i film, Flaiano fa dire a uno dei due, che poi era egli stesso: «Il cinema sazia la fame del momento. Il guaio è che pretende di ritrarre la realtà. Il film migliore mi commuove per un anno, tre, dieci, poi scopre i suoi limiti, rivela la sua natura, le necessità emozionali che l’hanno prodotto... Il tempo rende goffa, e incomprensibile addirittura, quella realtà che il film ha creduto di fissare per sempre... Quella realtà che il regista crede di ritrarre non serve più, è finita, non ha più clienti». Il suo interlocutore pone fine al dialogo esclamando: «Vedo là De Feo, Ercole Patti, Arbasino e Carlo Levi. Raggiungiamoli».

Era vero quello che scriveva Flaiano? Il destino, o l’amnesia, ha voluto che proprio Arbasino, dopo quasi mezzo secolo, si incaricasse di smentirlo. L’ha fatto in un’intervista rilasciata a Gianni Borgna, ex assessore alla Cultura della passata Giunta di centrosinistra del Comune di Roma, inserita nel dvd dell’Istituto Luce «Vita culturale a Roma dal ‘44 al ‘68», e ampiamente e acriticamente ripresa, a firma di Paolo Conti, domenica 21 dicembre scorso dal Corriere della Sera con il sensazionale titolo a tre quarti di pagina «E Arbasino stronca La dolce vita».
Il quale Arbasino nel dvd afferma che «Flaiano conosceva meglio di tutti l’ambiente intellettuale di Roma». Per cui si domanda: «Ma da dove sono venuti quegli intellettuali che ne La dolce vita dicono quelle stupidaggini?». Cita in particolare, definendolo «ridicolo», il personaggio di Steiner che, interpretato da Alain Cuny, si suicida dopo aver ucciso i due figli.

A parte il fatto che la cronaca nera e giudiziaria del dopoguerra, snobisticamente ignorata dagli intellettuali alla Arbasino, contava nella realtà personaggi ben più tragici dell’immaginario Steiner - ad esempio il maestro Arnaldo Graziosi o la contessa Pia Bellentani -, Fellini e Flaiano non vollero rappresentare un intellettuale romano e lo dimostrano due fatti: il cognome straniero usato, Steiner; l’allegoria, da questi impersonata, di una progressiva perdita di valori morali e di identità cui andava incontro non un intellettuale romano ma l’intera società italiana in quegli anni di «miracolo economico» impetuoso che avrebbe snaturato il carattere dell’intera popolazione italiana e che solo l’intelligenza e la cultura di due veri «intellettuali», Fellini e Flaiano, potevano prevedere.

Un travisamento quindi, quello dell’Istituto Luce amplificato dal Corriere della Sera, di quel grande fenomeno di costume che interessò tutta la popolazione italiana, e non solo i 25 nomi citati nell’intervista, tra l’altro anche a sproposito, con omissioni, errate ubicazioni, qualifiche improprie ecc. Perché Vincenzo Cardarelli non frequentò mai il Cafè de Paris; l’ex re Faruk d’Egitto non era certo un «intellettuale» e non frequentava il Caffè Rosati; i Graziadei, i d’Avack, il giornalista Giovannino Russo ed altri non furono mai visti nei night, negli ambienti e negli itinerari della vera dolce vita; lo scrittore Corrado Alvaro era addirittura morto da tre anni, l’11 giugno 1956, e l’ultimo a chiedergli un articolo per il Corriere della Sera che egli scrisse benché malato, e ad andare a ritirarlo nella sua abitazione di Vicolo del Bottino, in Piazza di Spagna, fui io, pochi giorni prima della scomparsa.

E non è vero che Fellini desiderava coinvolgere nel film come generici e comparse, quello sparuto gruppetto di intellettuali che si incontravano nel deserto e squallido Caffè Rosati, i quali avrebbero rifiutato l’invito. Perché i frequentatori di Via Veneto furono tutti debitamente rappresentati nel film, in programmate percentuali: personaggi eccentrici, 15 per cento; passanti occasionali, 25 per cento; personalità famose o celebrità, 10 per cento; borghesi curiosi, 20; turisti stranieri, 15; motorizzati, 10; camerieri, autisti, guardiamacchine, vigili, 5 per cento. «Il tempo rende goffa quella realtà che il film ha creduto di fissare per sempre», scrisse Flaiano. E ancor più quegli intellettuali che, per riciclarsi, la negano.

V. C.

 

Tags: Corsera story Victor Ciuffa Corriere della Sera Corrierista Dolce Vita via Veneto Egitto Gennaio 2009

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