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CORSERA STORY. PENSIONI: IL CORAGGIO DI SCEGLIERE LA VERITÀ

L’opinione del Corrierista

«Come si può chiedere a un giovane di trasferire quasi la metà del proprio salario a chi va in pensione a 57 anni, dopo 35 anni di lavoro, sapendo che lui stesso percepirà una pensione - in rapporto all’ultimo salario - del 20-30 per cento inferiore a quella di chi oggi beneficia dei suoi contributi?». Questo interrogativo, che poi non è un interrogativo ma un’affermazione fatta con estrema sicurezza e apparente conoscenza della materia, era contenuto il 27 febbraio scorso addirittura in un articolo di fondo del Corriere della Sera intitolato «Il coraggio di scegliere».

Mai mi era capitato, in vari decenni di lettura del grande giornale milanese, di trovarvi condensate in appena 12 righe e mezza tante inesattezze. Sembra che uno voglia criticare per forza il Corriere della Sera, sembra che voglia andare a cercare sempre il pelo nell’uovo o, meglio, il capello nella giungla; purtroppo non è così, è vero anzi il contrario: spesso vi si trova una giungla in un capello. E poiché non è giusto che una testata tanto gloriosa sia così inutilmente penalizzata - perché come mi accorgo io di tali inesattezze, le notano moltissimi altri lettori -, non posso non richiamare l’attenzione dei responsabili su certe imprecisioni, se vogliamo definirle così e credere che siano compiute in buona fede.

Entrando nel merito di quella frase vorremmo porre noi qualche interrogativo al suo autore. Il primo: ma è proprio vero che un lavoratore che va in pensione oggi a 57 anni, alla fine del mese riceve dall’Inps gli stessi soldi che questo Istituto incassa da un giovane appena o da poco assunto? È vero che l’Inps «trasferisce» a titolo di pensione al «lavoratore anziano» quanto riceve dal «lavoratore giovane» (tramite il suo datore di lavoro, obbligato per legge a trattenergli una parte della retribuzione e a versarla all’ente)? Precisamente una somma che, come ha scritto l’articolista, corrisponde a circa la metà di quanto il giovane ha guadagnato? È proprio vero che il 57enne pensionato «beneficia» del lavoro, della fatica e del sacrificio del giovane? O che, senza eufemismi, si appropria, usurpa, scippa, ruba i risparmi di quest’ultimo?

Se la risposta a tali quesiti fosse positiva, l’autorevole opinionista del Corriere della Sera dovrebbe, però, spiegare anche dove sono andate le somme versate all’Inps, per ben 35 anni, da quest’ormai «anziano lavoratore». Forse sono servite per pagare le pensioni di quelli che l’avevano preceduto, che erano più anziani di lui? E i contributi versati a suo tempo da questi ultimi? Sono andati a quelli ancora più vecchi? Risalendo lungo una ipotetica scala, giunti al vertice di essa si porrebbe però la domanda: dove sono andati a finire allora, a chi sono stati dati, chi si è appropriato dei primi contributi previdenziali versati, per oltre una trentina di anni, in quel primo periodo in cui l’Inps o comunque il sistema previdenziale obbligatorio vigente all’epoca non doveva corrispondere la pensione ancora a nessuno, non avendola ancora maturata nessuno?

Sarebbe una bella inchiesta per un grande giornale e per i suoi grandi articolisti; ma perfettamente inutile, anche se si riscoprissero erogazioni disposte dai Governi a favore di categorie disagiate ma non accollate mediante le tasse all’intera collettività; o gestioni disinvolte, prodighe, fallimentari, dei contributi versati allo Stato dai lavoratori per la previdenza obbligatoria, certamente necessaria alla luce del principio anche cristiano della solidarietà sociale. Sarebbe un’inchiesta inutile, perché è errato il presupposto dal quale parte l’opinionista del Corriere.

La verità è un’altra: i soldi che percepisce il pensionato sono esattamente i suoi, quelli che lui stesso è stato obbligato a versare allo Stato, ovvero all’Inps, durante i 35 anni di lavoro ipotizzati. Non un euro di più né uno di meno. Se li avesse percepiti mese per mese, quei soldi gli avrebbero consentito di fare tante altre cose: ad esempio versare un anticipo per l’acquisto di una casa e pagarne via via il mutuo; oltre ai canoni di affitto incassati o non pagati, si sarebbe ritrovato dopo 35 anni un capitale rivalutato che gli avrebbe consentito per il resto della vita di avere un reddito, invece della così tanto vituperata pensione.

È vero che pochi fortunati pensionati, arrivando a cent’anni, percepiscono pensioni per un importo complessivo forse superiore a quanto hanno versato; ma altri muoiono magari appena andati in pensione, senza lasciare vedove ed eredi, per cui quanto hanno accumulato va a beneficio degli altri. E occorrerebbe calcolare anche gli interessi percepiti dall’Inps sulle somme via via incassate in 35 anni, e che comincerà a restituire, mese per mese, ben 35 anni dopo.

Ma perché un giornale serio come il Corriere della Sera consente di propinare ai lettori macroscopiche inesattezze? Il motivo è questo: il tentativo compiuto con ogni mezzo di imporre al Governo e al Parlamento di varare la riforma previdenziale, di smantellare l’attuale sistema pensionistico, di costringere milioni di lavoratori a crearsi un’assicurazione privata, eufemisticamente chiamata complementare, gestita ovviamente da gruppi finanziari privati, compagnie di assicurazione o altre strutture. Il sistema ritenuto più efficace per ottenere ciò consiste nello spaventare i futuri pensionati, quindi proprio i giovani. Come? Diffondendo le peggiori previsioni, descrivendo il disastro che avverrà, a loro detta, fra trent’anni, aizzando i figli e i nipoti contro i padri e i nonni, propalando dati indimostrati e indimostrabili.

Tangentopoli è servita non a moralizzare la classe politica come il Paese ha creduto; ma a delegittimare i politici per consentire a pochi gruppi economico-finanziari di appropriarsi del patrimonio dello Stato - aziende, beni immobili, servizi, funzioni ecc. -, all’insegna dei principi di libertà, liberalismo, liberismo, liberalizzazione, libera concorrenza ecc. Nel settore previdenziale l’operazione scattò subito, come negli altri; la prima riforma diretta a penalizzare le pensioni fu fatta subito non dal Governo Berlusconi del 1994-1995 ma dal successivo Governo Dini, paradossalmente appoggiato dalla sinistra.

Da allora l’attacco al sistema pensionistico è continuato incessantemente. Nel quinquennio 2001-2006 il Governo di centrodestra non ha ceduto, e forse anche per questo è stato attaccato quasi tutti i giorni da chi aveva interesse. E poiché neppure l’attuale Governo Prodi riesce a riformare, ovvero a «tagliare» le pensioni a causa dei residui partiti di sinistra che le difendono strenuamente, si assiste e si assisterà sempre più a macchinose operazioni politiche per estrometterli dalla maggioranza.
(V.C.)

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