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CORSERA STORY. GIORNALISTA, ANZI SCRITTORE: GIAN GASPARE NAPOLITANO

L’opinione del Corrierista

Padre dell’esistenzialismo nel mondo fu il filosofo danese Søren Aabye Kierkegaard, spentosi l’11 novembre 1855; ma solo grazie alla successiva elaborazione di Karl Jaspers, Martin Heidegger e Jean Paul Sartre, un secolo dopo quella filosofia produsse in Francia, nell’immediato dopoguerra, un movimento filosofico nel quale presto l’elemento letterario e bohémien prese il sopravvento. In Italia il fenomeno, come tutti quelli provenienti dall’Occidente, si sarebbe diffuso solo dopo alcuni anni se, nel febbraio del 1948, Gian Gaspare Napolitano non avesse scritto sul Corriere Lombardo, quotidiano milanese del pomeriggio, una documentatissima corrispondenza dal titolo «La Venere esistenzialista, Juliette Greco».

Fu così che l’esistenzialismo attecchì velocemente anche in Italia, ulteriormente trasformato in fenomeno di costume ad uso di minoranze artistiche e di velleitarie scapigliature che a Roma allignavano in bar e trattoriole di Via Margutta, Via del Babuino, Piazza del Popolo. Il cuore romano dell’esistenzialismo fu il Baretto di Via del Babuino 120, frequentato da strampalati personaggi legati, più o meno realmente, all’inquietante caso giudiziario della misteriosa morte a Torvajanica della giovane Wilma Montesi; tra essi il pittore Duilio Francimei e l’aspirante attrice Adriana Concetta Bisaccia, amica di Anna Maria Moneta Caglio detta il «Cigno nero» o «La figlia del secolo» perché, con le sue audaci rivelazioni, aveva fatto esplodere il caso.

Molti giovani artisti che si muovevano in quel teatrino erano destinati a diventare famosi: Omiccioli, Turcato, Monachesi, Mafai, Vespignani, Rotella, Scirocchi, Stradella ecc. Dall’esistenzialismo annidato tra Piazza di Spagna e Piazza del Popolo, alla Dolce Vita di Via Veneto, il passo fu breve. Motivo: la presenza in questa strada e nelle adiacenti di grandi alberghi, compagnie aeree, agenzie di viaggio; e soprattutto l’afflusso dei grandi nomi del cinema americano, impegnati a interpretare in Italia film a costi ridotti rispetto a Hollywood.

Proprio negli anni 50, quelli dell’esistenzialismo alla vaccinara di artisti squattrinati e della dolce vita alla Kansas City dei cinematografari romani, incontravo quasi ogni notte Gian Gaspare Napolitano, più grande di me di un quarto di secolo, dotato di un’esperienza insuperabile ma ugualmente sempre impegnato ad osservare e descrivere personaggi e ambienti, ossia la società. Le sue descrizioni erano eccezionali: era difficile trovare un dettaglio che avesse omesso di scrivere.

Mobilitava la figlia Giovanna alla ricerca di notizie, alla scoperta di quello che accadeva a Roma; la inviava alla Stazione Termini a spedire «fuori sacco» i suoi articoli a Milano. Per ricordarlo nel centenario della nascita Giovanna sta organizzando una serie di iniziative: libri, conferenze, articoli, anche la dedica di una targa per i suoi reportages che fecero scoprire la foresta amazzonica; e ha donato tutti i suoi scritti alla Biblioteca Baldini.
Ma come cominciò a fare il giornalista Gian Gaspare Napolitano? Figlia di un affermato medico, la sua futura moglie era amica della moglie del gerarca fascista Ermanno Amicucci, direttore della Gazzetta del Popolo; tramite questi la ragazza ottenne che il fidanzato, desideroso di fare il giornalista, venisse imbarcato su una nave da carico sulla quale, ad appena 19 anni, compì il giro del mondo inviando reportages che lo fecero assumere al Popolo di Roma e lo resero famoso già a 21 anni.

Dopo l’occupazione tedesca, nel 1944 Napolitano si arruolò in un reggimento scozzese e scrisse il libro «Guerra con gli Scozzesi». Quindi entrò al Corriere della Sera. Nel 1956 passò al «Giorno» appena fondato da Gaetano Baldacci, e dopo qualche anno tornò al Corriere della Sera. Collaborò anche all’Illustrazione Italiana e al Mondo. Scrisse sceneggiature di film, riduzioni di racconti per il cinema, testi, documentari e altro.
Era spiritoso, allegro. Racconta Giovanna che la mattina, quando lei andava a scuola, lui dormiva, mentre il pomeriggio spariva e lei poteva rivederlo solo la mattina successiva. Lavorava di notte. Quando era piccola, la conduceva spesso a passeggiare in Via Veneto; amava quel luogo e scrisse un divertente articolo intitolato «La spiaggia di Via Veneto». Quando Giovanna si sposò, le fece preparare il pranzo di matrimonio da Victor e Blanche Tombolini, i gestori del Cafè de Paris.

I suoi amici erano Roberto Rossellini, Franco Mannino, Ennio Flaiano, Vitaliano Brancati, Giovanni Spadolini; ma aveva più amici stranieri che italiani: americani, francesi, spagnoli. Recentemente, in occasione della ristampa del libro «Una donna si allontana» di un altro grande del Corriere scomparso, Virgilio Lilli - lo stesso che commemorò Gian Gaspare in Campidoglio a un anno dalla scomparsa -, ho scritto sulla rivista Specchio Economico che il Corriere della Sera dovrebbe ripubblicare alcuni articoli dei suoi più grandi giornalisti: Cesco Tomaselli, Vittorio G. Rossi, Dino Buzzati, Eugenio Montale, Corrado Alvaro, Orio Vergani, Indro Montanelli, Egisto Corradi, Domenico Bartoli, Gaetano Afeltra, Enzo Grazzini, Giovanni Mosca, Max David, Silvio Negro e, appunto, Gian Gaspare Napolitano. Articoli che nobilitavano quelle Terze Pagine. Ma visto il livello al quale è sceso il giornalismo italiano, è una speranza vana: ora pagine e pagine di melense cronache televisive, di incultura e di ignoranza trasmesse ai lettori. Al massimo si cita Indro Montanelli solo perché la sua scomparsa è ancora recente.

In questi ultimi anni alcuni intellettuali hanno creato il mito di Rosati, lo scomparso caffè di Via Veneto. L’occasione è stata la pubblicazione, nel 1986, del libro di Eugenio Scalfari «La sera andavamo in Via Veneto». In realtà, se c’era un luogo triste, freddo, squallido, in una Via Veneto piena di vita, di gente e di colori, era proprio il Caffè Rosati. Vi si incontravano Ennio Flaiano, Ercole Patti, Sandro De Feo, Vincenzino Talarico, ma la Via Veneto intellettuale era costituita semmai dal Caffè Strega, regno di Vincenzo Cardarelli, e da Doney, frequentato da cinematografari che si autodefinivano «intellettuali» e che con tale snobistica frequentazione volevano distinguersi dal grande popolo del Cafè de Paris. Colto, intellettuale, fine, Gian Gaspare Napolitano frequentava Rosati ma, a differenza dei suoi habitués, era sempre presente anche negli altri locali. Perché non si rintanava, non fuggiva la gente, anzi la cercava, l’osservava, la studiava, e poi magistralmente la descriveva nei propri articoli.

Victor Ciuffa

Tags: Corsera story Victor Ciuffa Corriere della Sera Corrierista Spadolini giornalisti Montanelli Dolce Vita via Veneto Giugno 2007 Gaetano Afeltra caso Montesi

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