CORSERA STORY. IL GIORNALE CAMBIAVA LINEA POLITICA? CAMBIAVA ANCHE IL DIRETTORE
L’opinione del Corrierista
Quando, il 25 luglio 1943, cadde il fascismo nella drammatica seduta del Gran Consiglio che, esaudendo il desiderio del popolo provato da oltre tre anni di guerra, votò la sfiducia a Benito Mussolini sull’ordine del giorno di Dino Grandi, il direttore del Corriere della Sera Aldo Borelli non era in redazione, in Via Solferino 28 a Milano, e neppure nei pressi. Si trovava a Roma. Appresa la notizia, affittò un’automobile e partì immediatamente per Milano. Giunto a Firenze, si fermò per telefonare al giornale annunciando che sarebbe giunto nel pomeriggio del 26 luglio.
La redazione fu colta dallo sgomento: era ritenuto un galantuomo, aveva difeso l’indipendenza del Corriere negli anni duri del regime cercando, per quanto possibile, di opporsi agli ordini del Minculpop, il Ministero fascista della Cultura popolare; ma i suoi redattori erano ormai convinti che occorresse un altro direttore. Quando egli giunse e li riunì per impostare il giornale del 27 luglio, dopo qualche minuto di imbarazzato silenzio generale un redattore, Bruno Fallaci, si fece coraggio e disse, addolorato ma secco: «Direttore, lei il giornale non lo fa più».
Secondo episodio. Quando, dopo il Governo Tambroni e i drammatici fatti del luglio 1960, il quadripartito centrista Dc-Psdi-Pli-Pri divenne centrosinistra con l’apertura della maggioranza al Psi e l’uscita da essa del Pli, dinanzi al cambiamento di linea politica che il Corriere della Sera, da sempre filogovernativo, stava per assumere, gli editori, i fratelli Aldo, Mario e Vittorio Crespi sostituirono il direttore Mario Missiroli con Alfio Russo.
Era il 1961. E quando nel 1963 si costituì il centrosinistra organico con il passaggio del Psi dall’appoggio esterno alla partecipazione diretta al Governo, Alfio Russo sostituì tutti i redattori politici: Aldo Airoldi, notista, Goliardo Paoloni, Alberto Ceretto e Tommaso Martella, resocontisti rispettivamente di Palazzo Chigi, della Camera e del Senato.
Non basta. Nel 1968, con il rientro nella maggioranza del Pli e la trasformazione del centrosinistra nel pentapartito, aggiornando di nuovo la linea politica del Corriere gli editori sostituirono Alfio Russo con Giovanni Spadolini. Il quale nel 1972, dopo appena quattro anni e prima ancora che gli scadesse il contratto, subì analoga sorte: scomparsi nel frattempo Mario e Vittorio Crespi, Giulia Maria, figlia dell’ormai anziano superstite Aldo, in lotta con i cugini e in alleanza con il leader del movimento studentesco del ‘68 Mario Capanna, licenziò Spadolini in tronco e nominò al suo posto Piero Ottone. Il quale non solo cambiò la linea politica del Corriere, ma la spostò talmente a sinistra da sottrarre lettori non tanto all’Unità, organo del Pci, ma a Lotta Continua, il giornale degli extraparlamentari di sinistra.
Potrei continuare a rievocare vicende analoghe, verificatesi non solo nel Corriere della Sera ma pressoché in tutti i giornali. Anche la sostituzione di direttori anziani di età va spesso collegata non a scadenze contrattuali o a motivi di salute, ma alla linea politica e governativa in quanto espressione delle nuove idee ed esigenze della società. Attenendomi a quanto sta avvenendo in questi anni nell’editoria e nel giornalismo, mi rifaccio agli avvenimenti di cui è stato ed è protagonista il Corriere della Sera.
Di proprietà di un nugolo di azionisti consistenti in banche, assicurazioni, finanziarie, aziende industriali, società immobiliari e commerciali per la quasi totalità del Nord, il Gruppo editoriale RCS cui fa capo il Corriere della Sera è ben diverso da quello di 50 anni fa. Anche i tre fratelli Crespi infatti, avevano interessi e attività in vari settori finanziari e industriali, principalmente nell’industria tessile; e il possesso del Corriere serviva pure per i loro affari. Ma non se ne servivano pesantemente; Gaetano Afeltra mi raccontava che ricevevano solo una volta l’anno l’amministratore del Corriere, quando metaforicamente «gli portava su un piatto d’argento un assegno di 600 milioni di lire»; ossia gli utili del bilancio annuale, che allora ammontavano a quella fantastica somma.
Che bisogno avevano di strumentalizzare il Corriere per i loro interessi, quando poi tutti, e soprattutto i politici, conoscevano bene il potere che avevano, di influire sull’opinione pubblica? E tanto era il loro distacco che, ogni volta che dovevano cambiare il direttore, sempre dopo la scadenza del contratto quinquennale che anzi solitamente prorogavano - a Mario Missiroli, di ben 4 anni -, per evitare di incontrarlo lo facevano d’estate, una volta partiti per le vacanze. Solo quando qualcuno della famiglia - Tonino Leonardi, figlio di Fosca, seconda moglie di Mario Crespi e fratello della stilista Biki - cominciò ad interferire nel Corriere frequentando la redazione romana in Via del Parlamento, dove si concertava la linea politica, cominciarono i contrasti tra cugini e l’inizio del tramonto del grande giornale.
Che fu infatti acquistato per i due terzi da Agnelli e Moratti, quindi per intero da Andrea Rizzoli, quindi di nuovo da Agnelli e Romiti, continuando con il balletto dei direttori ad ogni cambiamento della linea politica. Fino ai nostri giorni, quando sembra che questa prassi debba finire. Perché, se in vista delle elezioni politiche dell’aprile 2006 la proprietà - ossia il gruppo degli azionisti legati da un patto di sindacato e definito il «salotto buono della finanza italiana» - costrinse il direttore Paolo Mieli a pronunciarsi apertamente per il centrosinistra e a invitare gli italiani a votarlo, c’era da attendersi nei mesi successivi, e soprattutto ora, il cambiamento del direttore in coincidenza con il cambiamento della linea politica del Corriere, ossia dei suoi editori, delusi dal centrosinistra e desiderosi di licenziare al più presto quel Governo e quella maggioranza, senza aspettare la naturale scadenza del 2011.
Invece non è successo nulla, per il «salotto buono» va ancora bene il direttore Mieli. Del resto i Ds ovvero gli ex comunisti, rotta l’alleanza con la sinistra, fusisi nel Pd addirittura con gli ex democristiani della Margherita e cambiata linea politica, avrebbero dovuto sostituire il direttore dell’Unità Antonio Padellaro, ma non è avvenuto. È la fine di una prassi, di uno stile o di un atto di discolpa degli editori verso i lettori, compiuto addossando la responsabilità della linea politica al direttore? O è un segnale di arroganza e strafottenza della proprietà che, ritenendosi in grado di pilotare comunque l’opinione pubblica, malgrado gli sfavorevoli risultati elettorali non vuole ammettere di aver sbagliato?
(V. C.)
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