CORSERA STORY. IL CORRIERE? è SICURO CHE LO LEGGANO PURE I GIORNALISTI?
L'opinione del Corrierista
Ma è proprio sicuro che oggi il Corriere della Sera continui a costituire la Bibbia dei giornalisti e degli aspiranti tali? È proprio sicuro che continui ad essere considerato da costoro il «verbum», la parola rivelata, il Vangelo della categoria? Esprimo forti dubbi in proposito perché, a mio giudizio di osservatore recordman del Corsera, non è più così, e neppure di poco: anni luce sembrano ai miei occhi intercorrere dalla stima, dalla considerazione, e non è sbagliato dire dalla reverenza che si nutrivano un tempo per questo giornale per il peso specifico che esso aveva rispetto a tutto il mondo della carta stampata nonché della radio e della televisione.
E non solo e non tanto come attrattiva per moltitudini di giornalisti che vi vedevano un lavoro stabile e definitivo e un’opportunità di carriera personale, ma anche e soprattutto come scuola di giornalismo, come insegnamento di principi non solo grammaticali, sintattici e tecnici propri della professione, ma anche etici, che promanavano dalla sua semplice lettura. Ovviamente non solo per gli addetti ai lavori, i giornalisti, i letterati, gli intellettuali; ma per la massa: non per altro era il primo quotidiano in Italia per il numero di copie vendute. E forse il «sorpasso» numerico da parte di altri giornali è dovuto proprio alla perdita di tali valori e di tali funzioni.
Una conferma di questi miei dubbi mi è stata data nei giorni scorsi dall’uscita di un libro pubblicato, probabilmente per scopi esclusivamente commerciali, su un argomento apparentemente frivolo e di evasione, la Dolce Vita. Per la precisione, più che un libro si tratta di un collage di ritagli di settimanali pubblicati a cavallo degli anni 50 e 60 dello scorso secolo, contenenti articoli e foto su quel fenomeno all’epoca di grande attualità.
Un semplice collage di «fonti» originali non susciterebbe nessuna considerazione per gli autori oltre alla lode per una certosina pazienza nel ricercarle e pubblicarle. Ma l’aspetto rilevante sono i quattro scopi enunciati nello stesso libro: indagare sulle forme e sulle modalità del gossip - all’epoca si chiamavano pettegolezzi, ma oggi non ci si reputa veri giornalisti se non si usano termini stranieri il più delle volte ignorando la lingua italiana -; dimostrare che i giornali dell’epoca ispirarono Federico Fellini nell’ideare il film «La dolce vita» che, a sua volta, ispirò ulteriori interventi giornalistici; creare un primo archivio di materiali giornalistici originali sull’argomento; raccontare dalla viva voce dei protagonisti gli anni d’oro di Cinecittà.
Quattro scopi irraggiungibili se la premessa che guida l’opera - più che «opera», la materiale ricerca e fotocopiatura di articoli dai giornali, mansioni proprie di archivisti di III livello - parte da una scelta precisa: raccontare la cronaca quotidiana attraverso gli articoli non dei quotidiani ma dei settimanali, solitamente costituiti da assemblaggi, riassunti, sviluppi, approfondimenti effettuati partendo comunque dagli articoli dei quotidiani. E spiego perché ritengo che i giornalisti di oggi non leggano o comunque tengano in ben scarsa considerazione il Corriere della Sera; il quale, evidentemente, fa ben poco per tenere alta, come un tempo, tale considerazione.
Devo necessariamente rifarmi alla storia del giornalismo dell’ultimo mezzo secolo, della quale però soprattutto i giovani giornalisti dovrebbero sapere qualcosa: almeno quelli che dovrebbero averla studiata nelle decine di corsi e corsetti di giornalismo frequentati per intraprendere questa professione; non ho bisogno di consultare le materie di studio di tali fabbriche del giornalismo prêt à porter, mi basta vedere quello che sanno i loro allievi.
Ebbene la storia del Corriere di quest’ultimo mezzo secolo non può assolutamente scindersi da quella del Corriere d’Informazione, testata molto più giovane, nata solo nel 1945 rispetto al 1876 della prima e purtroppo liquidata nel 1981 da ottusi amministratori, ma che consentì al Corsera di rinascere, nel dopoguerra, dopo il perentorio ordine di chiusura dovuto all’appoggio dato al regime fascista. Illustri firme del Corriere della Sera del dopoguerra, costrette nel grande giornale nei loro specifici ambiti di competenza, dimostrarono in articoli sul Corriere d’Informazione doti, conoscenze e capacità straordinarie anche in altri campi, impensabili e sorprendenti per i colleghi e per i lettori. Basta citare i casi di Orio Vergani, Dino Buzzati, Virgilio Lilli, Giovanni Mosca e di altri.
Ma c’è anche un altro merito che va al Corriere d’Informazione: quello di essere all’epoca la fonte per tutti gli articoli, i reportages, le copertine, i servizi dei settimanali. Sui quali non veniva pubblicata una riga, su un determinato episodio, se la relativa notizia non era stata pubblicata prima dal Corinform. Figuriamoci poi nel settore della Dolce Vita nel quale questo giornale fu il primo, dopo il Momento Sera di Roma, a pubblicare giornalmente fatti e misfatti cui avevo assistito personalmente o quanto meno avevo scoperto, accertato, descritto e giornalmente trasmesso dalla redazione romana a quella milanese.
Proprio per indurre i settimanali a pubblicare i loro servizi fotografici, nella maggior parte dei casi i fotoreporter o paparazzi offrivano a me, spesso gratis, una foto-civetta relativa all’avvenimento da me descritto, purché fosse pubblicata sul Corinform: i settimanali si sarebbero precipitati ad acquistare l’intero servizio fotografico. Non solo: io personalmente ero consultato da redattori, inviati, articolisti dei settimanali come fonte per i loro reportages e articoli anche di costume. Posso citare i nomi di colleghi viventi o purtroppo scomparsi, tra i quali Oriana Fallaci. Che veniva appositamente a cercarmi in Via Veneto non solo per conoscere singoli episodi di cronaca, ma per comprendere il senso, la misura, la natura e i dettagli del fenomeno di costume, elementi che riportava poi nei suoi reportages sull’Europeo.
Proprio nel libro che mi ha indotto a queste riflessioni c’è una prova di quello che dico, un articolo scritto da Oriana Fallaci sull’Europeo e da me ispirato, su Via Veneto; e come controprova un clamoroso errore, la data di quell’articolo indicata nel 1954: era invece il 1959. Anche nel testo della Fallaci figurano errori: l’ex presidente del Consiglio Mario Scelba non passò alle 2 di una notte in Via Veneto «senza fermarsi», ma si siedé a lungo con la figlia ed altre persone nel Cafè de Paris. E aveva un vestito blu. Così i giornalisti di oggi tramandano, moltiplicano, ingigantiscono gli errori.
(V.C.)
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