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IL LAGO DELLA MENTE, dalla sicilia al mondo

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Eugenio Benedetti per questo libro, «Il lago della mente» (Editrice Nuovi Autori, euro 20), ha già ottenuto il Premio Internazionale Franca Florio, conferito sotto il patrocinio della Regione Siciliana a manager, imprenditori e professionisti siciliani quale riconoscimento per il loro ruolo di ambasciatori della Sicilia. Ha già pubblicato «Storie di un siciliano mezzo russo e un po’ cinese» per la stessa casa editrice, nel 2004. Ne «Il lago della mente» Benedetti conduce il lettore «per mano, come in una fiaba a cartoni animati, tra i colori dei ricordi». Lo conduce partendo da Catania, dai balconi fioriti di putti barocchi del palazzo settecentesco dell’Arcivescovado, da cui si affacciava da bambino, a «rimirare i giuochi di luce e i riflessi del sole sul calmo specchio del porto antistante», quando suo padre, medico di vecchio stampo, andava a far visita all’arcivescovo, monsignor Patanè, «un canuto vegliardo che divideva i suoi giorni fra un letto appartenuto ai Viceré di Spagna e una scrivania araba dell’epoca dei musulmani di Sicilia». È questo lo stile scritturale dell’autore, in modalità «dettaglio» ma con la finezza del romanticismo che estrae dal proprio ricordo e da quel «mal d’Africa» che lo colpì ancor prima che potesse addirittura sognare di porre piede sulle «sospirate sponde d’Africa cui noi siciliani ci sentiamo tanto atavicamente legati». Ma poi, poiché è tempo di guerra, il viaggio c’è davvero. Un viaggio che non è solo introspettivo. Il primo descritto è quello che si compie dal bianco e nero alla tecnologia, così: «Mia nonna detestava ogni forma di progresso, si oppose a lungo alla sostituzione dei lumi a petrolio con la luce elettrica nella nostra villa di San Gregorio, ove non permise mai l’introduzione del telefono; del resto, credo che anche nella nostra casa di Catania ella non abbia mai preso in mano la cornetta di quel diabolico congegno - come lo chiamava - col pretesto di un rischio di scariche elettriche alle orecchie». E, a proposito di viaggio, la nonna, a parte il treno «con la sua locomotiva che vomitava fuoco e fumo», avversava ogni veicolo moderno. «Non si parlava ancora dell’aeroplano, su cui potemmo salire la prima volta nel 1943, ed era un aereo militare, un Savoia Marchetti, messo a disposizione di pochi, per lasciare l’isola, alla vigilia dell’invasione». Accanto alla descrizione di cambiamenti storici ci sono prima le lacrime di Teresa, quando Benedetti nel ‘51 si allontana a bordo di un peschereccio che da Catania arriva in Grecia, con relativa delusione anche per lui: il Partenone soffoca nella confusione e nel disordine della città ed appare meno grande dei ciclopici templi di Agrigento o Segesta. Quindi la tappa a Tripoli (le spezie, le voci del suk, le palme al vento del deserto), eccolo il mal d’Africa, questa volta per davvero. Rientro a Catania e poi l’Afghanistan, a bordo di enormi elicotteri russi, sui quali l’autore scopre le montagne dell’Hindukush; l’Asia, con le difficoltà del made in Italy; l’Angola; la Russia; il Kurdistan e molto altro. A chi avesse mai letto «Le miniere di Re Salomone», romanzo del 1885 di H. Rider Haggard, la scrittura di Benedetti potrebbe riecheggiare, sebbene non sia presente il contenuto avventuroso del primo. Eppure dalla Sicilia non è difficile immaginare un viaggio che sì, è nella storia, ma è nella storia individuale, più prettamente mentale dunque, e raccontata con puntini di sospensione e punti esclamativi. Più avanti, in un momento in cui «il divieto al sesso femminile era a quell’epoca severissimo» a Costantinopoli (Repubblica teocratica di Monte Athos), tanto che non v’era posto nei monasteri per cavalli o capre, «solo le galline sono ammesse per dare le uova ai vecchi, e le gatte per cacciare i topi dalle biblioteche», Benedetti riesce ad ottenere il permesso per recarsi in questi luoghi a mezzo d’un vecchio battello. Inizia anche qui un’odissea burocratica, proprio come quelle dei suoi anni cinesi, unita da aneddoti di vario tipo. Degno di lettura quello del fraticello redivivo: un monaco russo, morto la settimana prima nel convento in cui soggiornava Benedetti, durante le esequie si era risvegliato, essendosi trattato di una catalessi. Il defunto si era risvegliato ed alzato, e aveva chiesto di mangiare qualcosa. Rifocillato e trasportato in ospedale: «A tramonto inoltrato, a cavallo d’un ciuco macilento, vedemmo arrivare il monaco redivivo; sembrava uno zombie, ma teneva in mano un’enorme chiave con cui dischiuse per noi il gran portone del monastero». Per la controcopertina Benedetti sceglie un’immagine di sé, ritratto con la statua di «Medusa» che definisce «feticcio ed amuleto che offro ai miei lettori», e che «vale a sigillo magico di quest’opera, com’è giusto che sia». Medusa è la statua che commissiona ai lontani amici cinesi: «È stato epico scolpire un monolite da due tonnellate e mezza e trasportarlo dall’altro capo del mondo, per montarlo, o per meglio dire conficcarlo, sul faraglione di Sant’Egidio!». ■

Tags: Novembre 2012

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