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Le professioni per l’italia: L’ORIGINE (E IL DESTINO) DEL DEBITO PUBBLICO

Anna Maria Ciuffa e Maurizio De Tilla

Il debito pubblico non nasce da una serie di sfortunate circostanze e di errori di pianificazione, ma da una precisa e per lungo tempo condivisa strategia, orientata, almeno nelle intenzioni, a contenere il conflitto sociale e a rafforzare la posizione di rendita di un apparato bancario e finanziario dall’appetito insaziabile. Sono parole di Francesco Gesualdo nel libro «Le catene del debito», secondo il quale sono state proprio le lobby finanziarie ed economiche ad imporre il ricorso a misure di austerità destinate a impoverire ulteriormente larghi strati della popolazione.
Si vive in un clima di completo assoggettamento ai mercati. Un rimedio possibile sarebbe costituito dall’Eurozona capace di fondersi in un tutt’uno, in modo da compensare le debolezze degli uni con la forza degli altri e di impedire al mercato di lucrare con la logica del «divide et impera». Ma manca un’azione europea di fattiva solidarietà. Di conseguenza ogni nazione è costretta ad autoflagellarsi, mentre l’Europa si è trasformata in un carceriere che controlla a vista i propri partner per assicurarsi che paghino e che mantengano i propri conti all’interno di binari graditi ai mercati.
Bisogna quindi continuare nella politica di austerità? Non crediamo che si debba rispondere necessariamente «sì» alla domanda. Ci preme, in proposito, richiamare la risoluzione numero 18 adottata nel 2004 dalla Commissione per i diritti umani dell’Onu, che così recita: «L’esercizio di diritti fondamentali delle popolazioni residenti nei Paesi indebitati, diritti come quelli all’alimentazione, all’alloggio, a un ambiente salubre, non possono essere subordinati all’applicazione di politiche di austerità e a riforme economiche legate al debito».
Va aggiunto che non è concepibile che uno Stato chiuda le proprie scuole, le università, i Tribunali, in una parola i servizi pubblici, gettando la popolazione nel caos e nell’anarchia, semplicemente per reperire denaro da utilizzare per rimborsare i creditori nazionali e internazionali. Va altresì rilevato che il clientelismo politico, che ha afflitto gli ultimi cinquant’anni della vita del nostro Paese, ha portato dei guasti nella spesa pubblica che non sono facilmente rimediabili: pensioni baby e facilitate, burocrazia gonfiata con l’appartenenza partitica e il familismo, spese folli e sprechi, svendita dei beni pubblici, corruzione dilagante specie a livello locale, favoritismi e scambio di voti e di consensi, inefficienza dei servizi pubblici e scarsi controlli sulle gestioni pubbliche.
Un disastro che ha alcune cause determinanti: la mancanza di una classe dirigente capace ed onesta e la diffusione, specie a livello locale, di una sorta di illegalità complessiva che tocca ogni aspetto della vita pubblica. Quasi la metà degli elettori non vanno più a votare alle elezioni amministrative e il trenta per cento di quelli che votano manifestano il dissenso esprimendosi più per i movimenti che per i partiti tradizionali, i quali per camuffarsi cambiano il nome ma non l’identità.
Questo il quadro negativo del disastro delle finanze pubbliche del Paese, con un deficit che si incrementa e un debito pubblico che ha raggiunto livelli record. Non si può, quindi, condividere il tono soft di Vittorio Grilli il quale sottolinea che «i meccanismi democratici di reclutamento, le difficoltà nel disegnare progressioni di carriere legate a capacità e risultati, alimentano nel settore pubblico una cultura autoreferenziale interessata più ai processi amministrativi che alla soddisfazione dell’utenza». Grilli continua affermando che «esistono duplicazioni e ridondanze che non hanno ragioni di essere». E così va avanti, con altre motivazioni che trascurano del tutto il panorama drammatico e corruttivo di questo Paese.
Va infine segnalato che, nonostante le buone intenzioni, i Governi Monti e Letta non hanno potuto fare nulla per contenere la spesa pubblica, che è invece aumentata. Le spese di funzionamento della pubblica amministrazione si sono incrementate, passando da 7,8 a 10,5 miliardi. A livello territoriale gran parte delle voci di spesa delle Regioni sono cresciute nei primi sei mesi del 2013 del 18,6 per cento. È stato cancellato completamente il dibattito politico su spese lineari o selettive. La tendenza è l’aumento della spesa pubblica.
Libere Professioni per l’Italia ritiene che un possibile contenimento può scaturire solo dalla selezione e dal cambiamento di mentalità e di metodo che riguarda gran parte della dirigenza e del personale della pubblica amministrazione. I tagli dei costi della politica ritardano, e probabilmente non saranno mai attuati.  

Tags: Dicembre 2013

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