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matteo renzi & co. è l’italia, con le nuove speranze e le vecchie difficoltà

Matteo Renzi, nuovo segretario del Partito Democratico

«Caro Ignazio ti scrivo»: si è conclusa il 10 dicembre la raccolta di corrispondenza che i lettori dell’edizione romana del Corriere della Sera hanno indirizzato al nuovo sindaco di Roma Ignazio Marino, il quale probabilmente era più interessato alla visita che Papa Francesco due giorni prima aveva compiuto in Piazza di Spagna per la rituale benedizione alla statua dell’Immacolata Concezione, con una grande raccolta di folla e di fotografi. La cronaca della capitale ha registrato anche, il giorno 9 dicembre scorso, la sorpresa di un Matteo Renzi che, anziché la consueta camicia a collo aperto, indossava una cravatta di colore giallo per incontrare a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio dei ministri Enrico Letta. O quella cravatta sarà l’indicazione di un suo futuro diverso?
A un mese dal compimento dei 39 anni, Renzi non è più soltanto il sindaco di Firenze, ma il segretario del maggiore partito politico italiano, il Partito Democratico. Il giorno prima aveva raccolto il 68 per cento dei voti nelle elezioni primarie, portando ai seggi poco meno di tre milioni di votanti. Molti non erano iscritti al partito, e forse neppure simpatizzanti, ma chiedevano un rinnovamento della classe politica. Appena il 18 per cento di voti erano andati al secondo classificato, Gianni Cuperlo, candidato della corrente D’Alema-Bersani che aveva il governo del partito.
Si apriva una stagione nuova per gli eredi tardivi di quello che fu il Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti, i quali avevano già da tempo abbandonato l’aggettivo «comunista» prima per la denominazione PDS, poi DS, arrivando alla fine  all’attuale PD. Che cosa accadrà con il giovane e volenteroso neo-segretario? «Ridurrò i costi della politica di un miliardo, sostituirò i senatori con un’assemblea di sindaci e presidenti di Regione che lavoreranno gratis», aveva promesso una volta, facendo preoccupare seriamente il leader del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo, che vedeva sfilarsi di mano il ruolo di «uomo nuovo» costruito da Renzi con assoluto tempismo e aderenza alla volontà popolare.
È stata l’ennesima svolta della sinistra italiana. La prima fu la scissione del PSI avvenuta nel 1921 nel Congresso di Livorno, che diede vita al PCI; la seconda, fu la fine del Patto di Unità d’azione o Blocco del Popolo, stretto nell’immediato dopoguerra tra PCI e PSI; una fine accelerata dall’invasione, nel 1956, dell’Ungheria da parte dei carri armati sovietici, a causa della quale il PSI si spaccò in due correnti: gli autonomisti, contrari all’invasione, detti anche nenniani perché guidati da Pietro Nenni, e i «carristi», sostenitori dell’intervento sovietico e dell’ingresso dei carri armati a Budapest, capeggiati da Lelio Basso, il quale diede vita a un altro partito socialista di estrema sinistra, il PSIUP, ovvero Partito socialista di Unità Proletaria.
Ma la trasformazione della sinistra italiana non era conclusa: nel 1960, dopo la crisi di luglio e la formazione dell’insolito Governo DC-MSI capeggiato da Fernando Tambroni, il PSI appoggiò il Governo di pacificazione detto da Aldo Moro «delle convergenze parallele», e guidato da Amintore Fanfani, e nel 1962 entrò addirittura a farne parte con DC, PRI, PSDI.
Un’altra svolta avvenne negli anni 80 in occasione della costituzione, nel 1983 e nel 1987, dei Governi capeggiati dal segretario del Partito socialista Bettino Craxi, evento che acuì il distacco e la rivalità tra socialisti e comunisti, i primi facenti parte della maggioranza pentapartito di centrosinistra e nella quale era entrato anche il PLI, i secondi in minoranza, all’opposizione.
Accelerati anche dagli avvenimenti internazionali, precisamente dalla caduta del Partito comunista sovietico, i tempi però erano maturi per una nuova svolta, che fu annunciata nel novembre del 1989 alla «Bolognina» dall’allora segretario del PCI Achille Occhetto. In seguito alla quale il PCI fu sciolto e ad esso subentrò il PDS, Partito Democratico della Sinistra. Mutava il nome ma rimanevano la falce e il martello nella bandiera rossa, con la sigla PCI in formato ridotto ai piedi di una grande quercia.
La successiva svolta fu la trasformazione, qualche anno dopo, nel febbraio 1998, nell’Ulivo, attuata durante la Segreteria di Walter Veltroni; con essa l’ex PCI-PDS assumeva la denominazione DS, ovvero Democratici della Sinistra. Finché il 14 ottobre 2007 Veltroni e Romano Prodi, che insieme avevano dato vita all’alleanza dell’Ulivo, vararono la denominazione attuale di PD, Partito Democratico.
Oggi il grande partito della sinistra italiana ha un nuovo segretario, appunto Matteo Renzi, che non è stato democristiano come i genitori, sebbene fosse un predestinato perché, quando è uscito politicamente di casa con il proposito di avvicinarsi alle vicende del Comune di Firenze, ha incontrato i «Comitati per Romano Prodi», che hanno rappresentato un’occasione di avvicinamento alla politica locale ma che hanno anche consentito a Renzi di diventare il primo segretario non comunista del maggior partito postcomunista italiano.
Renzi riuscirà a sostituire i senatori con rappresentanti delle Regioni e con sindaci chiamati a Roma una volta alla settimana, senza retribuzione aggiuntiva? Se contribuisse ad accelerare la riforma della legge elettorale, si potrà dire che sarà stato il miglior segretario politico della storia. A suo sfavore è la particolare gravità del momento attuale, con la «Marcia dei forconi» avviata il 9 dicembre scorso in concomitanza con la sua elezione, e che ha attratto dovunque schiere di professionisti della protesta, dai No Tav ai disoccupati cronici, dagli studenti contestatori al mondo femminile abitualmente considerato marginale ma ora numeroso e deciso a farsi valere.
Chi sono i Forconi, chi li guida realmente, con quali obiettivi? Scontri, strade e ferrovie occupate insieme a manifestazioni pacifiche. Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 l’Italia venne bloccata, a partire dalla Sicilia, con slogan contro l’aumento del costo dei carburanti. Erano soprattutto cortei di produttori agricoli dell’isola e di padroncini del settore dei trasporti, colpiti dalla crisi dei consumi e dall’aumento dei prezzi delle materie prime.
Quest’anno le proteste sono riprese, spesso con modalità e argomenti non troppo diversi da quelli degli adepti di Beppe Grillo, proprio mentre il Governo decideva sul rimborso delle accise sulla benzina, oltre all’accantonamento di 330 milioni per pedaggi autostradali e formazione. Due richieste della categoria soddisfatte, ma che hanno ottenuto come risultati nuove proteste: «Vogliamo mandare a casa l’oligarchia che tiene in ostaggio l’Italia, svolgere un referendum sull’euro e limitare a due i mandati per i parlamentari», dice Mariano Ferro, leader del movimento, che adesso sembra un Grillo riveduto e corretto proprio quando Grillo attenua i toni delle proteste affidandole ai più animosi dei suoi giovani inseriti in Parlamento con una manciata di voti personali. «La protesta–ha detto con una punta di preoccupazione–può essere l’inizio di un incendio».
Dalla polemica sul costo dei carburanti in Sicilia si è arrivati alla protesta globale contro il sistema: reclutare nuovi seguaci non è più difficile, creando un insieme composito di individui, gruppi, organizzazioni, con i quali Renzi dovrà misurarsi sapendo soprattutto che non potrà fare affidamento sul sostegno del Governo, né sui partiti, né sui veri centri di potere costituiti da alta burocrazia, capi di Gabinetto, direttori generali, imprenditori, uomini del mondo finanziario i quali possono creare disturbi senza apparire, presentandosi anzi come le prime vittime di questa situazione.
E questo mentre la sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale vigente maschera il vuoto politico reale con un imprevisto ritorno al passato, mentre Enrico Letta, posto al Governo dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano per avere a Palazzo Chigi un abile uomo di pacificazione, deve limitarsi agli annunci quando invece i sindacati cercano di recuperare il loro esorbitante potere. Non è la prima volta che nella storia d’Italia del secondo dopoguerra si verificano momenti difficili. Il Qualunquismo, fondato nel 1944 da Guglielmo Giannini, commediografo napoletano abile fascinatore, che oggi potrebbe definirsi un precursore di Grillo, raccolse folle di seguaci.
«La repubblica o il caos» era, in vista del referendum del 2 giugno 1946, lo slogan di un battagliero Pietro Nenni, al quale veniva contrapposto dai monarchici un temibile «Salto nel buio», e c’era chi paventava l’arrivo di un preoccupante «Vento del Sud». In gran parte si sono dimenticati quegli anni. Le elezioni del 18 aprile 1948 avevano trasformato la geografia del Parlamento, con la DC in maggioranza assoluta nei due rami. Il 14 luglio successivo, alle 11,35, Palmiro Togliatti lasciò Montecitorio uscendo, insieme a Nilde Jotti, dal portone laterale di Via della Missione. Fatti pochi passi, si udirono tre esplosioni. Togliatti fu colpito alla nuca e al torace, vicino al cuore. In aula il grido «Hanno sparato a Togliatti». Mentre l’ambulanza lo portava al Policlinico Umberto I per affidarlo al chirurgo professor Pietro Valdoni, alcuni dipendenti dell’Atac bloccavano le vetture, altri scavavano i sampietrini accumulandoli per costituire difese o per lanciarli contro imprevisti bersagli.
Togliatti respirava a fatica, insanguinato, e ripeteva «Calma calma calma». La proclamazione dello sciopero generale da parte della CGIL, allora unitaria, spingeva verso una scissione ormai prossima. In Parlamento Alcide De Gasperi e Mario Scelba furono accusati da comunisti e socialisti di aver creato con la loro politica il clima in cui era maturato l’attentato, mentre a Torino l’ingegner Vittorio Valletta era tenuto sotto sequestro con trenta dirigenti nella palazzina della dirigenza. Molti incidenti si verificarono nel Paese prima che tornasse la calma, malgrado il fatto che il bisturi di Valdoni e le cure del clinico professor Cesare Frugoni avessero un rapido effetto.
Nel pomeriggio la notizia della vittoria di Gino Bartali nel Tour de France, con un distacco di quasi venti minuti su Louis Bobet e Jean Robic, contribuì a placare l’opinione pubblica. Anche a fatti di cronaca nera vennero dati significati politici con nuove tensioni. Basta ricordare l’affare Montesi del 1953, l’inchiesta sulle deviazioni del Sifar del 1964, la strage di Via Mario Fani con l’assassinio della scorta del leader democristiano Aldo Moro e la sua uccisione dopo 55 giorni di prigionia, nel marzo 1978.
Matteo Renzi avrà il coraggio e le idee chiare a sufficienza per affrontare, nella maniera dovuta, la situazione? Problemi e argomenti non sono nuovi: dall’esigenza di una nuova legge elettorale al ridimensionamento delle retribuzioni di dirigenti e manager, dalla politica corrotta alle decisioni sul deficit pubblico, sulle imprese pubbliche che sopravvivono con alti costi, sulla giustizia lenta, farraginosa e spesso ingiusta con sentenze che arrivano a fine vita degli interessati, sui problemi della scuola, del lavoro.
Governo e partiti saranno adeguati ai problemi? Poco. L’ha dimostrato Enrico Letta, privo di un accordo programmatico ben definito e condiviso. Di Renzi non si può dire granché, se non che ha dimostrato abilità dialettiche, sicurezza di sé, voglia di operare. Non si conoscono la sua meta, i suoi metodi, i risultati che si è prefisso. Inoltre un conto è progettare e un altro è realizzare, un conto è ambire e un altro è riuscire.
Soprattutto se vuole continuare ad essere sindaco di Firenze, se deve, come segretario del PD, modernizzare questo partito, riformare l’organizzazione e il funzionamento dello Stato, rilanciare l’economia, discutere con le istituzioni europee, allearsi con altri gruppi politici nazionali. Però, dinanzi alla putrida palude in cui era finita la classe politica italiana, è l’unico a suscitare la fiducia e le speranze della gente.   

Tags: Gennaio 2014 Renzi

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