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agnelli e marchionne, ieri e oggi. e domani?

di GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

In un’intervista ad Enzo Biagi a RaiUno nel 1988 Gianni Agnelli ricordava come la Fiat avesse raggiunto, sotto la sua guida, tanta potenza e un ruolo di dimensioni mondiali grazie a suo nonno, il fondatore, e a Vittorio Valletta. L’Avvocato sottolineava in quell’intervista le proprie relazioni internazionali: «De Gaulle, un modo di ragionare, un piglio, una maniera di esprimersi che mi colpiva. Mi intimoriva. Kennedy aveva pochi anni più di me, c’era un rapporto personale, il padre rappresentava gli Stati Uniti a Londra e lui aveva studiato alla School of Economics e, come tutti i cattolici irlandesi, non amava gli inglesi, ma l’Europa la conosceva e la capiva. Tito, un uomo coraggioso, con una visione di politica internazionale non comune: si batteva a Cuba prima di morire, tra i non allineati, contro le posizioni di Fidel Castro e di Gheddafi. Di Reagan colpisce il garbo e l’estrema facilità nei rapporti: sia in quelli diretti come, attraverso il grande teleschermo, col grande pubblico».
E Giovanni Agnelli in quell’intervista riconosceva, con orgoglio, che la storia della Fiat è quella della motorizzazione italiana. Ammetteva che nel dopoguerra la Fiat aveva determinato una forte, fortissima emigrazione interna. Diceva: «Se oggi l’Italia è un Paese moderno lo si deve anche alla Fiat. Ci può essere stato un contrasto temporaneo di interessi ma, alla lunga, la crescita della Fiat è stata un vantaggio per l’Italia». Alla domanda di Biagi: «La Fiat ha ricevuto qualcosa dall’Italia?», l’Avvocato rispondeva:  «Molto e molto dal Piemonte. I quadri su cui si è affermata escono da una borghesia piemontese, da una classe che veniva dai Politecnici, dalle Scuole militari: da un piccolo Regno che aveva unito il Paese. Poi c’è stato il contributo delle energie più interne, la vitalità dei lavoratori, la gente che è passata, l’accoglienza del mercato. Sì, la Fiat ha ricevuto molto».
Agnelli era molto legato a Torino, al Piemonte, all’Italia. È stato protagonista di grandi battaglie per modernizzare la Confindustria, di cui è stato presidente. È stato presente nella vita politica italiana come senatore a vita, come lo era stato Vittorio Valletta. Hanno partecipato alla politica attiva anche la sorella Susanna, parlamentare repubblicana e ministro degli Esteri, e il fratello Umberto, senatore DC per una legislatura. Aveva dovuto fronteggiare situazioni molto pericolose come il terrorismo; aveva dovuto ripensare alla strategia della motorizzazione dopo la guerra del Kippur; aveva avuto rapporti non sempre facili con il movimento sindacale. Eppure la Fiat era cresciuta, aveva inglobato la Lancia e l’Alfa Romeo. Era arrivata a produrre due milioni di automobili l’anno raggiungendo una quota di mercato in Italia vicina al 70 per cento.
Altri tempi. L’Italia era in crescita e in forte sviluppo. La globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia erano di là da venire. Non erano state abbattute le barriere economiche nei confronti dei Paesi del Terzo Mondo. Lo scenario oggi è diverso. La caduta del muro di Berlino ha cambiato molto, tutto. I rischi per il futuro non derivano più da una possibile deflagrazione atomica, da una probabile terza guerra mondiale. Il futuro può essere pregiudicato dagli eccessi di un mercato senza regole e da una competizione finanziaria che sovverte le regole della concorrenza e della competitività.
Ora lo scenario economico e sociale nel quale si colloca la Fiat è molto diverso. La lotta è per la sopravvivenza. Il vecchio slogan della Fiat «Terra, mare, cielo» è ormai superato. Il mercato offre spazi sempre più angusti alla penetrazione della fabbrica di automobili italiane. Sergio Marchionne, il nuovo amministratore delegato, è anagraficamente italiano ma culturalmente appartiene al mondo; Gianni Agnelli aveva, ne era convinto, dei vincoli, degli obblighi con l’Italia, Marchionne ha vincoli e obblighi solo con i suoi azionisti, con chi investe nella Fiat.
Dice Marchionne in una recente intervista ad Ezio Mauro, che «per tante ragioni storiche e culturali noi europei siamo condizionati dal passato, l’idea di chiudere un’impresa per far nascere una cosa nuova ci spaventa. In America no: c’è una disponibilità quasi naturale verso il cambiamento, c’è la voglia di ripartire. Se porti un’idea nuova, in Italia trovi subito dieci obiezioni. In America nello stesso tempo trovi dieci soluzioni a possibili problemi. Là quando cambiano le carte si cambia gioco, tutti d’accordo; qui in Italia avrei dovuto mantenere gli investimenti anche quando il mercato è sparito. No, la nostra strategia è uscire dal massmarket dove i clienti sono pochi, i concorrenti sono tanti, i margini sono bassi e il futuro è complicato».
Ecco alcune motivazioni che sono alla base dei comportamenti della Fiat in una situazione mutata nella quale resiste in Italia drammaticamente un modo di ragionare pieno di ideologie, di rancori e vuoto di idee e proposte nuove. La Fiat si è sentita incompresa. È uscita dalla Confindustria, non ha interesse per la politica e per i partiti, fa fatica ad avere un rapporto costruttivo con l’insieme dei sindacati. Occorre una svolta per i suoi interlocutori sociali e politici, abituati a muoversi come se si fosse ancora negli anni 70.
Esaminiamo alcuni dati. Dieci anni fa la Fiat produceva un milione di auto l’anno in Italia; venti anni fa erano due milioni; oggi sono appena 370 mila di un totale di 1 milione e mezzo di veicoli prodotti.     Nel mondo ai vertici della classifica sono Toyota con 9.750.000, General Motors con 9.260.000, Volkswagen con 9.070.000, Renault-Nissan con 8.190.000, Hyundai con 7.101.000, Ford con 5.600.000 e Fiat Chrysler con 4.275.000.
Gli stabilimenti italiani Fiat Chrysler sono a Torino con 5.500 dipendenti, a Grugliasco con 1.500, a Pomigliano con 2.150, a Cassino con 3.940 e a Melfi con 5.500. Molti di questi lavoratori sono ancora in Cassa integrazione guadagni. L’operazione di acquisizione al 100 per cento della Chrysler è senza dubbio un fatto importante, ma la Fiat nuova sarà molto diversa. I prossimi mesi confermeranno il cambiamento. La Chrysler ha salvato i conti della Fiat. Ha agganciato la ripresa in Usa registrando 45 mesi consecutivi di crescita. In Europa le consegne Fiat sono di poco superiori alle 700.000 unità; dall’altra parte dell’Atlantico sono un milione e 800 mila veicoli, il 9 per cento in più dell’anno precedente. Nel dicembre 2013 la Chrysler ha fatto meglio - con un aumento del 9 per cento - sia delle due rivali di Detroit, cioè la General Motors che ha perso il 6 per cento, e della Ford che ha aumentato del 2 per cento; sia del numero due del mercato, la giapponese Toyota, che ha perso anche essa il 2 per cento.
La quotazione principale non sarà più alla borsa di Milano. Una società quotata in Usa ha tassi di interesse e trattamenti, da parte delle banche, molto meno onerosi di quanto accade in Europa. Marchionne è stato chiaro: «Non c’è dubbio che il mercato che ha più flottante è quello americano. Sono pronto ad andarmene persino a Hong Kong per trovare capitali per finanziare lo sforzo di Fiat Chrysler». Per quanto riguarda la sede legale verranno probabilmente seguite le orme della recente fusione CNH.
Marchionne è andato in Olanda perché la locale legge fiscale prevede sconti significativi e consente alle società di dare una particolare disciplina al peso delle azioni nei voti di assemblea. Ad Amsterdam le azioni in mano ai soci storici valgono il doppio. Per la famiglia Agnelli è un robusto scudo antiscalata. Sarà creato un veicolo finanziario, una nuova società, plausibilmente quotata a Wall Street, che accoglierà nel proprio interno Fiat e Chrysler. Il veicolo avrà probabilmente anche una quotazione secondaria a Milano per ragioni politico-simboliche. La nuova Fiat, infine, «avrà un nome nuovo». Rimarrà il marchio, ma difficilmente l’acronimo della società torinese resterà nel nome della holding che controllerà un impero di 4,4 milioni di auto.
Lo storico d’impresa dell’Università Bocconi, esperto della Fiat, Giuseppe Berta, osserva che l’alta gamma dei marchi Alfa Romeo e Maserati sosterrà il rilancio degli stabilimenti Fiat in Italia. La scommessa di Marchionne è quella di cambiare strategia alla Fiat: non più utilitarie ma auto di lusso. «Muoversi verso il lusso è l’unico modo per dare un futuro all’industria italiana», sostengono due analisti come Giuseppe Berta e Roberto Verganti. È difficile. È un passaggio forte ma necessario che richiede il coraggio di allontanarsi dalle proprie radici. L’operazione di acquisizione della Chrysler da parte della Fiat appare inevitabilmente e inesorabilmente una specie di delocalizzazione sui generis della fabbrica torinese fuori dai confini del nostro Paese.
Quali insegnamenti da questa vicenda? Innanzitutto la politica. Troppe responsabilità. Troppe inadempienze. Troppa imperizia. Troppa superficialità. Gli errori del Governo  Berlusconi si sono accentuati con Monti e ora con Letta & Alfano. Ad Agnelli si poteva chiedere cosa poteva fare per l’Italia; a Marchionne interessa invece l’inverso; cosa, cioè, può fare il Governo, omettendo interventi protezionistici, per la Fiat nel mondo della globalizzazione. Il peso fiscale, l’incertezza delle norme, l’inesistenza del credito, le inadempienze delle Amministrazioni pubbliche, le disfunzioni della Giustizia, costituiscono un habitat impossibile per la sopravvivenza di un sistema manifatturiero.
Una volta ci si proponeva di realizzare forme di vantaggio per attirare investimenti dall’estero; oggi non riusciamo ad arrestare la crescente delocalizzazione accelerata delle nostre industrie fuori dall’Italia. La Fiat rappresenta l’ultimo caso clamoroso. In secondo luogo la Fiat non ha rapporti costruttivi e dialettici con la politica. In Usa Sergio Marchionne ha parlato e parla con il presidente Barack Obama; in Italia non perde tempo. Non ha interlocutori capaci di confrontarsi per fornire certezze alle imprese che operano nel mercato. Il Paese è frammentato, anzi è atomizzato in una serie infinita di centri di potere che paralizzano ogni decisione. Non si sa mai chi decide. Il rapporto di un’azienda è continuamente reso precario da un’infernale gioco dell’oca che alla fine riporta sempre al punto di partenza.
Anche le parti sociali devono adeguarsi. La Confindustria non può rassegnarsi, non può e non deve rinunciare a riavere nelle proprie strutture associative la Fiat. È paradossale sottolineare che la Confindustria, nel momento in cui la Fiat ne usciva, faceva entrare la Federazione rappresentativa dei concessionari delle slot machines e degli altri giochi d’azzardo. Uguale riflessione deve fare il sindacato. Deve ritrovare la propria unità. Deve, in alcuni settori, superare una visione ideologica di antagonismo e di contrapposizione a prescindere. Deve esplorare terreni nuovi, com’è avvenuto e avviene in Germania e in America. Lì il sindacato si è posto il problema di contribuire alla crescita e alla competitività delle imprese.
In America l’UAW non ha esitato, per salvare la Chrysler, a concordare una lunga tregua negli scioperi, a consentire forme di flessibilità arrivando ad investire anche i fondi previdenziali. Naturalmente il tutto è avvenuto con la definizione simmetrica di funzioni di monitoraggio e di controllo sulla gestione dell’impresa. Lo stesso è avvenuto e avviene alla Volkswagen. La collaborazione e la partecipazione del sindacato per favorire la competitività dell’impresa nel mercato mondiale ha consentito di aumentare l’occupazione e di valorizzare gli aspetti salariali.
È tempo che anche in Italia si imbocchi con convinzione la strada della partecipazione alla gestione delle imprese, come prevede l’inapplicato articolo 46 della Costituzione, anche usando meglio gli accantonamenti dei fondi della previdenza integrativa. La globalizzazione presuppone e impone il coinvolgimento dei sindacati e dei lavoratori per avere la certezza della valorizzazione dei loro diritti. L’economista ed editorialista economico del Manifesto Guido Viale ha commentato l’accordo Fiat Chrysler scrivendo: «Non ha salvato la Fiat, ha salvato la cassa degli Agnelli». Non mi meraviglio. Marchionne è un manager e fa il proprio mestiere. Mi meraviglio invece di chi - Governo, parti sociali -non fa il proprio, perché non salva la Fiat e non salva il lavoro.     

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