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UN CONTINENTE CHE TUTELA I DIRITTI UMANI O UNA FORTEZZA ASSEDIATA?

di MAURIZIO DE TILLA presidente dell’associazione nazionale avvocati italiani

L'Europa deve lavorare per il consolidamento dell’edificio europeo, ma anche per garantire una tenuta rispetto alle istanze di asilo e di immigrazione che si stanno sempre più incrementando. Gli eventi più recenti costituiscono un grido di allarme che dovrebbe essere ascoltato da una nuova politica europea tesa principalmente a salvare le vite umane e a regolare il fenomeno migratorio. Purtroppo si fa poco e male. L’Europa tentenna fortemente sui problemi dell’immigrazione. L’ecatombe di Lampedusa ha messo in ginocchio lo spirito umanitario europeo.
Nonostante la buona volontà, non siamo riusciti ad evitare la strage di profughi che sta ancora una volta a testimoniare il fatto che sono necessari presidi vicino alle nostre coste che avrebbero evitato o attenuato gli effetti del naufragio del barcone sovraccarico di oltre 500 immigrati. L’ecatombe si è verificata vicino alla costa in una località, qual’è Lampedusa, da tempo meta delle spedizioni di immigrati in cerca di lavoro e spesso di libertà. Ci si chiede se l’evento poteva essere evitato con una politica di controllo e di reale accoglienza rispondente a principi fondamentali di umanità e di solidarietà.
Si è detto, giustamente, che l’Italia e, nel complesso, gli Stati europei devono cambiare rotta e trarre monito da quell’ecatombe. Bisogna finire di criminalizzare l’immigrazione consegnandola nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Bisogna vergognarsi per quel che è successo a Lampedusa. Più di 300 immigrati morti, che si sarebbero potuti salvare con la tempestività dei soccorsi, con comportamenti di pronto intervento e con una legislazione più equa. È in vigore una legge che dichiara reato la clandestinità anche nel caso che non sia stato commesso nessun crimine; legge che addirittura ostacola i soccorsi con la piena negazione dei principi umanitari e dei diritti umani.
Bisogna intervenire modificandola e legiferando compiutamente anche in materia di diritti di asilo. L’Italia ha un rifugiato ogni mille abitanti, mentre in Germania sono 7, in Svezia 9, nei Paesi Bassi 4,7. È, quindi, incivile praticare in queste condizioni i respingimenti in violazione della Convenzione di Ginevra del 1951 e della Costituzione. L’Europa sta annegando nel mare di Lampedusa. È questa una mirabile espressione di Guido Rossi in un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore. La tragedia di Lampedusa ha aperto gravi ferite in tutta Europa che si è mostrata incapace di regolare il fenomeno dell’immigrazione.
Il cosiddetto principio di Dublino stabilisce che a gestire l’ospitalità di emergenze e la richiesta di asilo del migrante è il Paese di primo arrivo. Questa regola, da rivedere, fa sì che l’Italia sia in prima linea. Nella realtà, dopo il transito in questo Paese, gli immigrati si trasferiscono in altri Paesi. Nel 2012 la Germania ha concesso asilo a 22.165 persone, la Francia a 14.325, la Svezia a 15.200 e l’Italia a sole 9.270 persone. Si è opportunamente precisato che, oltre a regole comuni comunitarie e stanziamenti più nutriti per organizzare il controllo delle coste e il soccorso degli immigrati, è necessario che l’Unione Europea affronti il momento drammatico che l’Italia sta vivendo con un impegno particolare, al fine principale di regolare l’afflusso dei rifugiati e compiere un primo screening delle richieste di asilo e di assistenza.
Bisogna anzitutto salvare le vite umane e poi regolare compiutamente la circolazione nel territorio europeo. Con la recente risoluzione del Parlamento di Strasburgo si afferma che la strage di Lampedusa deve rappresentare un punto di svolta e si chiede di porre immediatamente fine a pratiche di detenzione inappropriate e prolungate, oltre che modificare o rivedere eventuali normative che infliggono sanzioni a chi presta assistenza in mare. L’unico modo per evitare un’altra tragedia è adottare un sistema coordinato, basato sulla solidarietà e sulla responsabilità.
In una precisa dichiarazione la vicepresidente del Parlamento europeo Roberta Angelilli ha ribadito la condivisione della responsabilità e della gestione delle emergenze a carico di tutti gli Stati dell’Unione Europa. Intanto si apprende che l’Europa, attraverso Frontex, Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri, ha stanziato 500 milioni di euro per accogliere gli immigrati, che sono stati utilizzati solo in parte con ritardi e sprechi. È la consueta inerzia del Paese o esiste, nel caso specifico, una volontà di boicottaggio?
Tra i problemi che vanno affrontati c’è, inoltre, quello dell’integrazione e dello «ius soli». Negli Stati Uniti e in Francia vige questo istituto: chi nasce nel Paese è cittadino. Lo «ius soli» va distinto dallo «ius sanguinis» attuato in Italia: il diritto ad essere italiano si acquisisce dalla nascita da un genitore in possesso della stessa cittadinanza. In base all’indicata distinzione, alcune madri partoriscono in Usa per far acquisire la cittadinanza americana ai propri figli. Non è vietato, anzi qualcuno preferisce tale soluzione. Ogni scelta è affidata al principio di autodeterminazione che dovrebbe essere generalizzato in tutti i Paesi.
La proposta del ministro per l’integrazione, Cécile Kyenge, ha suscitato molto clamore. Ma va seriamente discussa e forse condivisa, con certe modalità e condizioni. In Italia sono 590 mila i bambini registrati come stranieri all’anagrafe negli ultimi dieci anni. Potranno richiedere la cittadinanza italiana solo quando diventeranno maggiorenni, in presenza di requisiti complicati e difficili da dimostrare. Così il cardinale Angelo Bagnasco: «Garantire la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati in Italia è uno dei diritti umani che certamente deve essere riconosciuto».
Intanto bisogna aprire nel Paese un confronto sulle politiche da adottare per un’efficace integrazione formale e sostanziale di coloro che si sono stabiliti nel nostro territorio, lavorano e sono utili per il Paese. L’Italia, specie nel Sud, vive una grande contraddizione: da un canto costituisce un’occasione di lavoro per milioni di extracomunitari, dall’altro vede un notevole numero di cittadini italiani usufruire di un reddito da welfare sotto diverse causali: indennità di disoccupazione, cassa integrazione guadagni, lavori socialmente utili, pensioni sociali, compiacenti pensioni di invalidità.
Con un’acuta osservazione Giulio Prosperetti nel libro «Nuove politiche per il Welfare State», edizione Giappichelli, rileva che l’aver riportato determinate attività lavorative a prestazioni quasi servili determina la conseguenza che queste siano rifiutate dagli italiani. Si ritorna, in un certo senso, ad una concezione del lavoro disonorevole che è svolto in via quasi esclusiva dagli immigrati. Il lavoro di costoro è spesso irregolare, il che svincola la prestazione lavorativa dallo status di lavoratore. Il lavoro illegale non concorre, infatti, a costruire quel rapporto virtuoso, e necessario, tra realizzazione della persona ed organizzazione sociale.
Giulio Prosperetti denuncia che l’illegalità, nella quale sono costretti a vivere gran parte degli extracomunitari irregolari, consente di usufruire di manodopera a basso costo che non è sindacalizzata ed è disposta a subire ciò che un qualsiasi lavoratore europeo rifiuterebbe. Sul piano più generale va infine osservato che, in un mondo globalizzato nel quale le difficoltà di ciascun individuo, ovunque esso si trovi, contribuiscono a determinare le difficoltà di tutti gli altri, non è più possibile tutelare la democrazia «separatamente»: in un solo Paese, o in alcuni Paesi prescelti come nel caso dell’Unione Europea.
Sono parole di Zygmunt Bauman, nel suo recente libro «Danni collaterali». L’autore aggiunge che il destino della libertà e della democrazia in ciascuna terra si decide e si attua sulla scena globale, e solo lì può essere difeso con realistiche possibilità di successo duraturo. Nessun Paese, per quanto intraprendente, ben risoluto e intransigente, può più permettersi di difendere, con le sole proprie forze, alcuni valori in patria e nello stesso tempo voltare le spalle ai sogni e ai desideri di chi vive al di fuori dei suoi confini. Non è possibile tenere strette le proprie ricchezze e moltiplicarle a scapito dei poveri che vivono al di fuori delle frontiere.
Jacques Attali, in «La voix humaine», ha rilevato che la metà degli scambi commerciali e più della metà degli investimenti arricchiscono solo 22 Paesi, in cui vive il 14 per cento della popolazione mondiale. Mentre i 49 Paesi più poveri, che ospitano l’11 per cento della popolazione mondiale, si sostengono con una percentuale pari allo 0,5 per cento del prodotto complessivo globale, una cifra che corrisponde più o meno al reddito complessivo dei tre uomini più ricchi del pianeta.
Viene, quindi, sempre più in evidenza l’esigenza di estendere la portata degli atti di solidarietà umana, che si incentra sull’altruismo, sul sentimento di reciproca appartenenza e sulla volontà di prendersi cura del benessere del prossimo. Acutamente Zygmunt Bauman osserva che, nella sua fase iniziale, la modernità ha innalzato il livello dell’integrazione tra gli esseri umani al livello delle nazioni. Oggi la modernità dovrà compiere uno sforzo ulteriore: innalzare tale integrazione umana al livello dell’umanità, sino a comprendere l’intera popolazione del pianeta. La povertà e la disuguaglianza, e più in generale i «danni collaterali» del «laissez faire» globale, non possono essere adeguatamente affrontati, a prescindere dal resto del pianeta, in un solo angolo del globo. 

Tags: Marzo 2014 Europa Unione Europea libri Maurizio de Tilla disoccupazione immigrazione

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