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tricolore confuso: cosi' i marchi italiani arricchiscono gli stranieri

Massimiliano Dona, segretario generale dell’unione nazionale consumatori

Acquistare un’auto italiana fino a qualche anno fa voleva dire scegliere una vettura disegnata, prodotta e venduta da persone italiane con un marchio riconosciuto in tutto il mondo e sinonimo di made in Italy. Oggi che la Fiat è diventata Fca, società di diritto olandese, quotata a New York con residenza fiscale in Gran Bretagna, di italiano è rimasto ben poco se non la facile ironia che la scelta del nome può provocare. Da Poltrona Frau a Valentino e poi Loro Piana, Pomellato, Pernigotti, Bertolli e Buitoni: sono solo alcuni dei casi più eclatanti di marchi italiani acquisiti dalle ricche holding straniere, che aumentano i loro fatturati grazie all’appeal dei prodotti italiani seppur non italiani al 100 per cento, ma che si traducono in considerevoli mancati introiti per il sistema Italia.
Il nostro Paese, d’altronde, è amato all’estero non solo per le bellezze artistiche, il clima mite e il mare cristallino, ma anche per l’alta moda, il design e il buon cibo; non sempre, però, i consumatori stranieri sono consapevoli di ciò che acquistano: vestire Fendi per molti ancora oggi vuole dire indossare abiti italiani, anche se la maison è ormai un marchio del gruppo francese Lvmh. Nel settore alimentare non va meglio, anzi è probabilmente quello maggiormente in difficoltà, attaccato su tutti i fronti da imitazioni che lo screditano e acquisizioni internazionali che però, poi, continuano a vantarsi del tricolore.
La verità è che non sempre i prodotti italiani che arrivano sulle tavole degli stranieri appartengono alla nostra tradizione: si tratta di tipici casi di «Italian sounding» in cui, attraverso le etichette, il nome o l’immagine, si rimanda al Belpaese, ma in realtà di italiano c’è solo il «suono». Qualche tempo fa, in un viaggio all’estero, entrando al supermercato restai trasecolato nel vedere un pacco di tortellini svedesi in una confezione con la foto delle tagliatelle bolognesi; per non parlare della misteriosa Caesar Salad che oltre confine spacciano per una prelibatezza nostrana ma che nessun italiano si sognerebbe di portare a tavola, o le fettuccine di Alfredo, piatto americano ben diverso rispetto a quello originale servito nel tipico ristorante romano.
Il paradosso è che il fenomeno non è diffuso solo all’estero dove 2 prodotti su 3 sono contraffatti, ma anche da noi sono sempre più frequenti i sequestri di cibo spacciato per italiano e proveniente da chissà dove, e gli stessi italiani faticano a riconoscere il made in Italy per colpa, in alcuni casi, delle etichette, delle pubblicità ingannevoli, ma anche per una certa disattenzione dei consumatori nel momento in cui fanno la spesa. Nel contempo, campagne mediatiche come quella del «New York Times» in cui si allude a sofisticazioni del nostro olio di oliva sicuramente non aiutano la nostra economia, ma dobbiamo ammettere che evidenziano un problema denunciato più volte da organi di vigilanza, da movimenti dei consumatori e dagli stessi produttori.
Insomma, siamo tutti sostenitori dell’italianità e crediamo nel valore aggiunto dei nostri prodotti, ma non possiamo nasconderci dietro alla chimera del made in Italy come panacea per tutti i mali: dati alla mano, per tornare all’olio, produciamo circa 510 mila tonnellate di olive, ne consumiamo 730 mila; importiamo circa 600 mila tonnellate di olio grezzo ed esportiamo 392 mila tonnellate di olio confezionato. Vien da sé qualche perplessità.
Ciò non significa che ci siano dei rischi per i consumatori, ma parlando di made in Italy è il caso di ricordare che non tutti i prodotti «tipici» sono integralmente italiani, ma soltanto quelli Dop (Denominazione di Origine Protetta). In pratica, quindi, soltanto alcuni formaggi, qualche salume e i vini  sono prodotti con materie prime italiane: tutti gli altri, anche quelli contrassegnati come Igp (Indicazione Geografica Protetta), Stg (Specialità Tradizionale Garantita), De.Co (Denominazione Comunale), possono essere realizzati anche utilizzando materie prime di importazione.
D’altronde, il significato del made in Italy non può essere ridotto alle sole materie prime che, intendiamoci, rappresentano per alcuni prodotti eccellenze indiscutibili: creatività, professionalità operaia, competenza artigiana, sostenibilità e innovazione sono pietre miliari che possono puntellare la nostra pur fragile economia. Valorizzare e preservare questi valori rendendoli ancora di più il vero valore aggiunto del made in Italy potrebbe aiutare per mettere davvero a frutto l’investimento nel nostro capitale umano.   

Tags: Aprile 2014

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