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cambio di passo per la coesione e lo sviluppo

Giorgio Benvenuto

È sempre più impervia la strada per uscire dalla crisi. Facciamo fatica. L’Italia non riesce a realizzare il cambio di passo. L’Europa deve essere diversa. Le soluzioni «uscire dall’euro» o «creazione di due eurozone» sono velleitarie ed incongrue. La realizzazione dell’Europa deve andare avanti. Deve essere raggiunta una maggiore e migliore omogeneizzazione delle politiche sociali, energetiche, fiscali. Le differenze tra i sistemi fiscali, istituzionali, sociali, stanno portando al nomadismo delle imprese alla ricerca delle situazioni più vantaggiose negli Stati dell’Unione; un esempio clamoroso è il caso della Fiat.
Occorre far prevalere la cultura della solidarietà e della coesione. L’Italia deve superare ed archiviare i luoghi comuni che hanno prevalso negli ultimi anni: «Lo vuole l’Europa», «Bisogna battere i pugni sul tavolo», «Occorre più Europa». Vanno create le condizioni dello sviluppo e va definito un progetto affinché l’Unione sia migliorata, sia coesa, sia capace di superare una fase ormai troppo lunga di ristagno e di austerità.
L’Italia non ha vie d’uscita. Non possiamo proporre il ritorno alla lira. Il problema che abbiamo è semmai un altro. Corriamo il rischio, se non mettiamo ordine nei nostri conti pubblici, se non facciamo le riforme, non di uscire ma di essere cacciati dall’Europa. Ecco perché è importante che l’azione del Governo Renzi riesca a realizzare dei risultati. Va apprezzato lo spirito che caratterizza l’azione del Governo nei suoi primi cento giorni.
Il rinnovamento o meglio il ringiovanimento della classe dirigente è positivo; è giusto accelerare i tempi di realizzazione del cambiamento; è fondamentale non mollare la presa per scuotere il Paese, per fargli superare ogni forma di pigrizia, di rassegnazione, di impotenza. Il Paese, insomma, deve essere capace di realizzare convergenze su questioni concrete che diventino condivise. Ci vuole un abbassamento dei toni. È necessario il coinvolgimento di tutti. È decisivo associare i corpi intermedi nella trasformazione e nel rinnovamento. Non abbiamo bisogno di grandi parole per realizzare piccoli progetti. Non dobbiamo dimenticare che non tutto ciò che è nuovo è bello, così come non sempre è bello ciò che è nuovo. L’insofferenza verso il confronto, la delegittimazione del dissenso, la critica aspra alle forze sociali producono solo un effimero e provvisorio consenso. Sono figlie del no, assecondano la protesta, favoriscono il qualunquismo.
Bruno Buozzi, di cui ricorre il 70esimo anniversario del suo assassinio a La Storta, così si esprimeva in situazioni analoghe a quella odierna: «La cultura generale e l’educazione politica del nostro Paese sono così scarse che ci vuole molta audacia a pretendere onestà politica, carattere e coraggio. Le nostre masse seguono anche troppo chi grida più forte. È quindi spiegabile che ci siano uomini anche intelligenti, preoccupati di sembrare poco rivoluzionari e di sembrarlo meno di altri per non correre l’alea di qualche fischio plebeo; che ce ne siano altri disposti a far scempio della verità e delle stesse proprie idealità pur di dare addosso a quelli delle tendenze avversarie; e che ce ne siano altri ancora capaci, per mascherare la propria impotenza e quella delle organizzazioni che rappresentano, di gridare al tradimento verso chi ha fatto coraggiosamente il proprio dovere».
Ci sono delle contraddizioni non giustificabili nella politica del Governo. Non si capisce perché il consenso va ricercato e definito tra tutte le forze politiche per le riforme costituzionali e per la nuova legge elettorale, per poi archiviarlo quando si tratta di realizzare le riforme in campo sociale. Il conflitto muove il progresso. Non è un accidente. Il gioco a delegittimarsi reciprocamente è carico di rischi. Sulle questioni che riguardano il lavoro non si può sostituire il sindacato con l’opinione di un singolo lavoratore o di un intellettuale utilizzando internet come forma di consultazione.
La concertazione non va archiviata. È stata e rimane una modalità fertile di risultati quando è densa di contenuti da negoziare e condividere. Si dice che la musica è cambiata. Per la verità la musica è quella antica che si è espressa per tanti, troppi anni con la demonizzazione del sindacato. Non bisogna avere paura del confronto con un forte e responsabile movimento sindacale. È stata la linea della classe politica post risorgimentale di estrazione liberale.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi farebbe bene a non dimenticare le conclusioni cui giungeva Giovanni Amendola al Congresso dell’Unione Democratica dopo il delitto Matteotti e dopo il 3 gennaio 1925: «Se volete, e come volete il capitalismo–diceva Amendola–, dovete rassegnarvi al sindacato, alla lotta di classe e perciò, mentre è concepibile che il movimento sindacale possa in determinate circostanze arretrare o retrocedere, e perfino possa rassegnarsi temporaneamente alle condizioni meno favorevoli, è semplicemente assurdo il pensare che si possa conservare e rafforzare un’organizzazione capitalistica della società sopprimendo il massimo fenomeno che l’accompagna, e cioè l’organizzazione unitaria e la contrattazione economica dell’interesse del lavoro».
L’opinione di Amendola si riallaccia alla conclusione di Piero Gobetti nell’ultimo fascicolo, quasi testamentario, della Rivoluzione Liberale, l’8 novembre 1925. «La realtà profonda è che la grande industria–scriveva Gobetti–non si può sviluppare senza un contemporaneo sviluppo delle forze del proletariato e della sua capacità di difesa e di conquista».
La mancanza di un rapporto costruttivo tra il Governo e il sindacato non giova né agli uni, né agli altri, né al Parlamento. Viviamo una situazione economico-sociale complessa, in cui è difficile scorgere soluzioni a portata di mano: se il Governo, pur animato dalla volontà del fare, salta i soggetti intermedi o li criminalizza, commette un grave errore. Il sindacato costituisce un ammortizzatore per le tensioni sociali: se lo si spinge su posizioni radicali all’opposizione, all’Esecutivo toccherà trattare con movimenti non organizzati e non «filtrati».
Se i lavoratori stanno male e si cancella il sindacato, non per questo si eliminano i problemi, anzi ci si troverà a fare i conti con lo spontaneismo e il ribellismo. È quello che è avvenuto in occasione della finale di Coppa Italia di calcio a Roma, quando il Governo ha dovuto di fatto trattare in modo vergognoso con «Genny ‘a carogna». Il nostro è un Paese che non fa rivoluzioni, ma solo ribellioni.
Il sindacato, per quanto lo riguarda, deve ritrovare l’unità perché la divisione lo marginalizza, e deve assumere una posizione di confronto. Il sindacato deve rinnovarsi, deve risultare più coinvolgente e meno prono alle nomenclature. Renzi non può avere come unico interlocutore il leader della Fiom Maurizio Landini, che impersona una linea vivacemente antagonista, ma minoritaria. È stato un errore, da parte del Governo, disertare di fatto il congresso della Cgil, limitando la partecipazione a una breve apparizione del ministro del Lavoro. Così si è data e si dà l’impressione di rifiutare il colloquio.
Le opinioni diverse vanno capite, non delegittimate: chi fa il contrario segue un metodo antico, non moderno. Insomma, la spinta di Renzi al rinnovamento deve contemplare anche aperture al sindacato: il premier non può prendere di petto i sindacati come se dovesse trattare con la reincarnazione di Arthur Scargill, il leader dei minatori britannici nel 1984-85. Renzi non è Margaret Thatcher, la Cgil, la Cisl e la Uil non sono paragonabili alle Trade Unions di allora.
Il sindacato deve mostrare più apertura al cambiamento. Spetta ai sindacati assumere posizioni che allarghino, e non restringano, la loro base d’azione. Oggi ci sono meno operai e più lavoratori autonomi, la società è cambiata. Con i Caf e i patronati i sindacati offrono eccellenti servizi, svolgono un importante ruolo di sussidiarietà. Non basta. Devono riaffermare la loro rappresentanza dando spazio al confronto con i lavoratori. Nei momenti difficili il sindacato non può parlare solo ai propri iscritti, deve rivolgersi alla generalità e ricercare l’unità e la coesione. In questa fase c’è più che mai bisogno di solidarietà, non possiamo accettare una società disarticolata. E dobbiamo preoccuparci del lavoratore come di un cittadino.
Si tratta di reinventare nuove solidarietà, di battere gli assistenzialismi, gli sprechi, gli scandali più cospicui quali quelli dell’evasione fiscale. Si tratta di affermare una politica di tutti i redditi, di far compiere un salto di qualità alle relazioni industriali, di non mollare la presa nella lotta alla stagnazione. Si crea confusione fra i lavoratori quando si ammettono i ritardi del sindacato in materia di ristrutturazione della contrattazione e poi non si manifesta una volontà precisa di intervenire con rapidità per dotarsi di nuovi strumenti.
Ma soprattutto si rischia di generare sfiducia fra i lavoratori se non si comprende che il sindacato delle grandi fabbriche, dell’operaio massa, delle grandi concentrazioni urbane, non è più sufficiente per fronteggiare, per spiegare tutta l’esperienza sindacale, di fronte a lavoratori in possesso di professionalità che si spostano da questo o da quel settore produttivo; a giovani che vogliono un lavoro, ma con tempi ed esperienze professionali più varie, non più scandite dalle otto ore di fabbrica; a operai, impiegati e tecnici, coautori di quel localismo economico che tanta parte ha avuto nella tenuta economica del Paese; ad esperienze di cooperazione del tutto nuove e imprenditoriali, specie nell’agricoltura e nel terziario, proprie di un’economia matura e intraprendente, e quindi indifferenti al populismo di vecchi schemi contrattuali.
Serve un’idea di democrazia sindacale fortemente radicata su strutture solide, reattive, dotate di autonomia e di protagonismo. Ma soprattutto unitarie ed uniche. Occorre praticare il riformismo. I sindacati devono portare la loro battaglia di idee e di proposte nei luoghi di lavoro, con grande linearità. Non bisogna cercare spazi in esclusiva, non ci vuole la duplicazione di strutture, non si devono corteggiare le minoranze agguerrite e movimentiste, ma si deve puntare tutto sulla trasparenza del metodo democratico, delle decisioni, sulla valorizzazione di spazi di confronto sorretti dalla tolleranza e dal reciproco rispetto.   

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