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le misure della decapitalizzazione del lavoro nella sanità: il problema del demansionamento

Prof. IVAN CAVICCHI, docente di Sociologia dell’Organizzazione sanitaria di Filosofia della Medicina dell’Università Tor Vergata di Roma

Con il termine «decapitalizzazione» del lavoro intendo riferirmi a tutte quelle misure che nella sanità, per ragioni di contenimento della spesa, in modo diretto o indiretto impoveriscono il capitale lavoro e la professionalità degli operatori. Tali misure partono dal presupposto che, nel quadro della spesa pubblica, il lavoro non sia un valore e quindi un capitale, ma un costo che semplicemente si può comprimere. Si comprende la paradossalità di questa linea politica che, anziché fare del proprio capitale un mezzo di investimento e di sviluppo, ma non solo, anche di cambiamento, lo considera un problema se non addirittura un eccesso. La paradossalità consiste nel fatto che il lavoro nella sanità è il vero capitale della sanità; depauperare questo capitale significa depauperare la sanità.
Questa linea politica dimostra che non si ha nessuna idea credibile di come si possa usare il lavoro per risparmiare, per riqualificare la spesa pubblica, per fare la famosa spending review; che vi è un problema di incapacità a considerare il lavoro come un fattore di cambiamento, e per questo scopo probabilmente il primo fattore da riformare. Le forme più diffuse di decapitalizzazione sono il blocco dei contratti, cioè l’incapacità ad usare il contratto come fattore di qualificazione; il blocco del turn over, ancora l’incapacità ad usare la risorsa lavoro per alzare il livello di qualità dei servizi quale prima condizione per abbassare i costi; il costo zero, cioè il riconoscimento ad alcune professioni di svolgere mansioni non retribuite di altre professioni solo perché costano meno; i rinnovi a costo zero di contratti quindi il precludersi l’uso del contratto di lavoro per cambiare l’organizzazione della sanità; la riduzione e compressione degli standard per la definizione degli organici; ma soprattutto la pratica del «tappabuchi» cioè la definizione di organici carenti che obbligano chi lavora a svolgere il lavoro anche degli altri; il ricorso al precariato e l’accrescimento sempre più di quello che una volta si sarebbe chiamato «l’esercito di riserva», cioè dei disoccupati.
La decapitalizzazione investe tutte le figure professionali perché riguarda una politica di disinvestimento sul lavoro, in particolare riguarda i medici impoveriti da un eccesso di burocratizzazione del lavoro, da turni spesso massacranti, da riduzione delle competenze, dagli infermieri che sono diventati e stanno diventando dei tutto fare, vale a dire dei jolly da impiegare, per le competenze specialistiche più sofisticate, in luogo dei medici e per le competenze burocratiche più ordinarie.

Demansionamento. Il demansionamento non è né un problema circoscritto né un incidente di percorso e meno che mai l’effetto di un’occasionale disorganizzazione. Il demansionamento è l’effetto combinato di professionalità fortemente condizionate nella loro operatività e della decapitalizzazione del lavoro, cioè delle restrizioni imposte al lavoro inteso come il principale capitale della sanità. Non si risolve il problema se non affrontando tanto i problemi delle professioni quanto quelli del lavoro e della sua ricapitalizzazione. Vale la pena di riflettere sul significato di demansionamento. Nel linguaggio corrente questa parola viene usata per indicare  una sottoutilizzazione dell’operatore rispetto alle sue competenze, o un’utilizzazione distorta della sua professionalità, o un suo impiego improprio.

Il famoso «tappa buchi». Non vi sarebbe tappa buchi se non vi fosse un grande senso di responsabilità da parte dell’operatore. Per il bene del malato egli sacrifica i propri diritti. Questo diventa un grande problema se è una consuetudine. Se, al contrario, l’operatore fosse rigidamente interprete del proprio profilo, rifiutando la consuetudine, tutto salterebbe per aria in un minuto. Quindi il demansionamento ha un triplo significato: deontologico perché è snaturamento della professione; sindacale perché è sfruttamento della professione; giuslavoristico perché lede i diritti di chi lavora e di chi non lavora o è precario.

Collegi, ordini e sindacati. Il dibattito nella sanità sul demansionamento vede da una parte gli Ordini e i Collegi, cioè i tutori della deontologia professionale, sostenere che il problema non è di loro pertinenza ma è del sindacato. E il sindacato è quindi l’unico che tenta di farsi carico di questo problema. Ma questa artificiosa divisione dei compiti non è convincente. Si pensi, ad esempio, che nel codice deontologico degli infermieri la ragionevolezza, che fa di un infermiere un tappa buchi, è addirittura normata laddove, a proposito di disfunzioni e disservizi, cioè di buchi, si dice che l’infermiere si adopererà per tapparli.
Nell’articolo 49 si dice che «l’infermiere, nell’interesse primario degli assistiti, compensa le carenze e i disservizi che possono eccezionalmente verificarsi nella struttura in cui opera», precisando che, nei casi in cui il disservizio sia «abituale o ricorrente», l’infermiere non deve «compensare» cioè tappare i buchi, perché se lo facesse pregiudicherebbe «il suo mandato professionale» (più o meno la stessa cosa si dice nel nuovo codice deontologico dei medici attualmente in discussione). Poi nel successivo articolo 50 si dice che «l’infermiere, a tutela della salute della persona, segnala al proprio Collegio professionale le situazioni che possono configurare «l’esercizio abusivo della professione infermieristica». Infine nell’articolo 51 si dice che «l’infermiere segnala al proprio Collegio professionale le situazioni in cui sussistono circostanze o persistono condizioni che limitano la qualità delle cure e dell’assistenza, o il decoro dell’esercizio professionale».

Il combinato disposto di questi tre articoli ci dice che il demansionamento è un abuso della professione e che, come tale, va segnalato al Collegio professionale. Per cui a mio parere il demansionamento è primariamente un problema dei Collegi e degli Ordini perché, prima di essere un problema sindacale, esso è un problema primariamente deontologico. E poi trovo curioso che tanto gli Ordini che i Collegi, che si occupano a vario titolo di mansioni (atti professionali, competenze avanzate e specialistiche ecc.) siano competenti se si parla di rimansionamento, come per l’appunto per le competenze e mansioni avanzate, e incompetente quando si parla di demansionamento. Delle due una: o gli Ordini e i Collegi si occupano di mansioni o non si occupano di mansioni. Se decidono di occuparsi di mansioni, allora non possono lasciare ad altri le rogne del demansionamento.

Demansionamento saltuario o duraturo. Soprattutto i collegi degli infermieri sostengono che non si ha demansionamento se l’impiego improprio degli infermieri è saltuario. Personalmente trovo discutibile che, per definire un problema come il demansionamento che riguarda la divisione del lavoro e i rapporti carenti tra professioni, si usi il parametro del tempo, come dire che non è una fregatura se dura poco, se dura tanto invece è una fregatura; indipendentemente dal tempo la fregatura resta ontologicamente una fregatura, la cui entità certamente cambia se essa è piccola o grande. Il punto vero è che il demansionamento non riguarda la sua durata e la sua persistenza, ma la divisione del lavoro tra operatori e le dotazioni degli organici.
Indipendentemente dalla sua saltuarietà o meno, il demansionamento è sempre in rapporto ad un lavoro che dovrebbe essere svolto da altri e che gli altri non fanno il più delle volte perché gli organici sono carenti. Il problema del demansionamento è piccolo se è saltuario, ma è grande se le carenze organizzative sono una consuetudine. Ma insisto; sempre demansionamento resta. Poi vi è un’altra situazione nella quale il buon senso suggerisce che le mansioni normali siano esercitate in modo flessibile e ragionevole. Ma in questo caso la chiamerei flessibilità nell’esercizio del proprio lavoro; se invece si tratta di provvedere al lavoro degli altri, non si ha più flessibilità ma demansionamento. Faccio un esempio: se a competenze correttamente svolte capita una circostanza che richiede che il medico o l’infermiere o l’organizzazione sanitaria facciano qualcosa che in genere esorbita dalle loro competenze, questo certamente non è demansionamento ma è un uso flessibile delle competenze suggerito dalla contingenza. Ma se non è demansionamento, una volta finita la contingenza tutto torna nella normalità. Quindi in sintesi: il demansionamento riguarda le patologie della divisione del lavoro e delle vecchie forme di cooperazione tra professioni dentro organizzazioni carenti.

Contraddizioni deontologiche. Tutti i codici deontologici in circolazione fanno un grande scialo della parola «responsabilità», ma essa denota che nella sanità stiamo assistendo a un processo di relativo «affievolimento» dell’etica sotto forma di riadattamento dei suoi valori morali ai nuovi imperativi della gestione, del risparmio, del definanziamento. In generale, a proposito di «responsabilità» essa è definita sulla base delle conseguenze degli atti professionali. In questo quadro il demansionamento sarebbe un atto di responsabilità. Ma è evidente che il ragionamento non sta in piedi.
La decapitalizzazione del lavoro sollecita ogni giorno gli operatori a rivedere la loro nozione di «bene», quindi la loro deontologia, imponendo apparati giustificativi pensati sulla base delle «utilità» gestionali. In questa difficile situazione lo scambio «principi-responsabilità» equivale a quello di «bene-utilità». Il demansionamento si trova collocato tra l’uno e l’altro. I codici deontologici cercano di barcamenarsi: da una parte insistono nel richiamarsi ai principi inviolabili che si rifanno alla persona, alla dignità, al bene per il malato, dall’altra tentano, spesso goffamente, di adottare atteggiamenti «realisti», vale a dire di tolleranza nei confronti degli imperativi aziendali, dei disservizi, delle disorganizzazioni e delle carenze di organico.
Il danno principale che ne deriva, a parte la qualità delle cure, è soprattutto alla credibilità della deontologia. Molti principi dichiarati nei codici ormai sono spesso considerati «petizioni di principio». Oggi gli imperativi categorici morali nella sanità sono fortemente condizionati dagli imperativi finanziari. Tipico è quel pensiero di matrice aziendale secondo il quale per l’efficienza è possibile ragionevolmente sacrificare l’equità (la giustizia diventa così un problema secondario), e nella razionalità economica c’è automaticamente l’etica, quindi è sufficiente razionalizzare la sanità per fare umanizzazione. Per chi sostiene questo pensiero, che vi sia una relazione tra risparmi e disuguaglianze conta poco. Le diseguaglianze continuano a crescere, ma il significato morale è che continua a crescere l’ingiustizia quale condizione della decapitalizzazione. Decapitalizzazione, demansionamento, diseguaglianze e ingiustizie sono un tutt’uno. Il primo garante del malato è chi lavora e, quindi, è il lavoro ben organizzato.

I fini e i mezzi. Le etiche deontologiche, che si ispirano ai principi più o meno categorici, enfatizzano il valore dei «fini». Per esse vale l’adagio «I fini giustificano i mezzi». Se il fine è un bene etico (rispettare la dignità del malato, fare il suo bene nel modo migliore, arrecargli il minor danno possibile, scienza e coscienza ecc.), è del tutto ragionevole che, in quanto bene, esso sia anche la propria autogiustificazione. Il fine etico è in pratica una verità che non bisogna dimostrare, ma solo inverare.
Le etiche deontologiche, invece ispirate dai valori della responsabilità, enfatizzano maggiormente la questione dell’impiego dei mezzi. Sono i mezzi che si impiegano a giustificare gli scopi da raggiungere, e il primo mezzo che si impiega è il lavoro. Il lavoro, per spirito di responsabilità, si deve adattare alla decapitalizzazione e quindi si deve accettare obtorto collo il demansionamento. L’economicità che questo rappresenta diventa il vincolo più importante per l’etica.
Nella tendenza a riadattare i principi alle responsabilità, quindi alle conseguenze, e, come effetto, a dare valore più ai mezzi che si impiegano per raggiungere degli scopi che il contrario, emerge con prepotenza il valore del «limite» quasi a discapito del valore «dell’atto». È un cambiamento molto significativo tanto per il medico quanto per l’infermiere, che cambia letteralmente il modo di mettere in pratica pratiche e quindi modi di essere degli operatori. L’atto, fin dall’antichità, era quasi sinonimo di «opera» e quindi di «operare» e, per estensione, di «operatore». Intervenire sull’atto, per subordinarlo al limite significa intervenire sull’opera dell’operatore. Il demansionamento riguarda infatti l’opera di costui. Non è un caso se il sindacalismo medico abbia fatto, della difesa dell’atto medico, il perno della propria rivendicazione. Il demansionamento è null’altro che un impoverimento di un atto professionale.
Va ricordato che l’atto per l’operatore esprime l’essenza della sua professione; lo definisce come agente; è l’operazione che riguarda il malato; l’operazione è la sua capacità di fare; è conoscenza. In questo quadro lo sforzo che compiono le deontologie è soprattutto di mediazione tra i principi e la responsabilità, tra i mezzi e i fini, tra l’atto e il limite. Doveri, principi, obblighi, sanzioni nelle varie deontologie rischiano di apparire retorici, cioè nei codici i principi forti, prescrittivi, imperativi, categorici; si relativizzano, si indeboliscono in enunciazioni per tutto quanto riguarda l’assistenza, la cura. «Crepuscolo del dovere» è un’espressione che vuole sottolineare una tendenza dell’etica deontologica attuale ad essere sempre meno intransigente e sempre più tollerante nei confronti della decapitalizzazione del lavoro. Gli articoli, per esempio, del codice degli infermieri sulla «compensazione» delle carenze e dei disservizi da parte degli operatori (che nella sanità sono la regola) significano che il problema del disservizio passa dall’organizzazione del lavoro all’operatore, che si deve giustificare per non aver «accettato» il disservizio.
Se si pensa al quadro finanziario in cui si trova la sanità pubblica, si può capire che ormai il «disservizio» da anni è una pratica normale (per disservizio si intendono i problemi di funzionalità, di sufficienza, di qualità, quindi tutti quei problemi compresi tra il blocco del turn-over e le politiche di razionamento delle prestazioni). Le domande che sorgono spontanee sono: quali «politiche etiche» rispetto alla decapitalizzazione? Quale rapporto tra deontologia e risorse? Se la risposta è la tolleranza del demansionamento, siamo alle soglie del declino della nozione di dovere.
 
Disservizio e demansionamento. Per prima cosa vorrei riflettere sulla complementarietà tra i due affissi «dis»-servizio e «de»-mansionamento. Nella nostra lingua «dis» vuol dire che qualcosa si allontana da una condizione di normalità, quindi nel nostro caso significa «dis-organizzazione» causata principalmente da organici carenti e da una cattiva organizzazione del lavoro; «de» invece vuol dire perdere la propria natura, la propria identità, cioè perdere le proprie caratteristiche professionali. Un esempio pratico: «dis-armonico» vuol dire allontanato dall’armonia; «de-colorato» vuol dire aver perduro il proprio colore.
Demansionamento e decapitalizzazione del lavoro hanno lo stesso significato in quanto vogliono dire togliere al lavoro delle caratteristiche funzionali, cioè impoverirlo. La catena conseguente è la seguente: alle varie forme di decapitalizzazione del lavoro, corrisponde dis-servizio; a dis-servizio corrisponde de-mansionamento; a de-mansionamento corrisponde de-professionalizzazione. Cioè ad una de-capitalizzazione del lavoro nelle sue varie forme, corrisponde: uno snaturamento deontologico, e uno sfruttamento sindacale.
L’aspetto che mi impressiona di più è la regressività dell’idea di mansione nonostante in tutto il mondo produttivo essa sia stata messa in discussione. Cioè mi colpisce la pervicace resistenza al cambiamento della mentalità tayloristica che nella sanità non vuole passare la mano. Se parliamo di demansionamento è perché esistono delle mansioni, cioè sussiste il taylorismo. La mia impressione è che la mansione di fatto resta ancora il principale indicatore professionale degli operatori, ma solo perché a tutt’oggi non si è riusciti ad elaborare qualcosa di più attuale. A me il demansionamento dice che è arrivato il momento di cambiare strategia cioè di andare oltre il taylorismo. Esso, con l’aria che tira, è destinato a crescere, non a diminuire. Perché la decapitalizzazione del lavoro con le restrizioni finanziarie è destinata a crescere. Il patto per la salute che si dovrà fare entro questi giorni deve garantire 10 miliardi di euro di risparmi.

Come riparare ai danni del demansionamento? Prima di ogni cosa Collegi, Ordini e Sindacati dovrebbero ritrovarsi intorno ad un tavolo comune e discutere insieme cosa fare. Due per lo meno sono le cose da fare. Ordini e Collegi dovrebbero: ripristinare e garantire da subito le condizioni deontologiche necessarie per lo svolgimento corretto della professione e, contemporaneamente, aggiornare il codice deontologico; proteggere concretamente gli operatori dagli abusi professionali e coprirli nelle loro legittime ricusazioni perché gli avvocati costano. Il sindacato dovrebbe: contrattualizzare la deontologia e le organizzazioni del lavoro ad essa necessarie; difendere l’infermiere dallo sfruttamento, cioè dall’uso sottopagato della sua professionalità difendendone il salario.
Secondo me, oggi più che applicare delle norme  che, ad ogni livello per qualsiasi professione, si sono rivelate contraddittorie, si tratta di rimuovere le contraddizioni tra le norme e la realtà. Per cui i codici andrebbero ripensati e in fretta. Ma, oltre alle contraddizioni dei codici, ad appesantire la situazione vi sono quelle legate alle definizioni delle professioni, quindi a come è definito il profilo tanto del medico che dell’infermiere.
Per difendere qualcosa, questo qualcosa deve essere ben definito; se non è ben definito la sua difesa sarà lacunosa. Inoltre, dal momento che medici e infermieri debbono cooperare, al fine della loro integrazione dovrebbero essere chiari almeno i confini delle loro competenze e delle loro autonomie. E questo ancora oggi è causa di conflittualità. A monte del demansionamento vi sono definizioni poco circostanziate della professione infermieristica e di quella medica, entrambe sono definite con «definizioni circoscriventi», non «circoscritte», cioè generiche. Il medico attraverso l’atto, l’infermiere attraverso il profilo, ma atto e profilo sono modalità definitorie equivalenti.
Il persistere del mansionario e il demansionamento sono favoriti dalle definizioni generiche di professioni che proprio per questo sono meno «prescrittive» e più «proscrittive»: prescrittivo vuol dire che tutto ciò che non è esplicitamente consentito è vietato; proscrittivo vuol dire che tutto quanto non è vietato è permesso. La logica con la quale, ad esempio, si è scritto il profilo degli infermieri negli anni 90 è soprattutto proscrittiva, cioè circoscrivente. Ma anche la definizione europea di atto medico è proscrittiva.
Con la logica proscrittiva si pensava di dare all’operatore più possibilità professionali. Per dargli di più, si è pensato di limitare il meno possibile i vincoli descrittivi. Ma la proscrittività, per poter funzionare in positivo, deve avere un contesto espansivo, ma se si ha un contesto decapitalizzante il lavoro, come nel nostro caso, la proscrittività diventa una trappola. Il demansionamento dimostra che la proscrizione è a perdere perché, davanti all’interesse primario del malato, non c’è niente che impedisca a qualsiasi operatore di fare il tappa buchi. Non va dimenticato che il demansionamento, di cui si lamentano soprattutto gli infermieri, è favorito anche da un’asimmetria tra professioni: la figura medica, nell’attuale organizzazione del lavoro, è molto meno flessibile di quella infermieristica, per cui la flessibilità dell’infermiere risulta essere la vera risorsa per ammortizzare la disorganizzazione e la decapitalizzazione.
Non si avrebbe demansionamento se l’operatore non fosse flessibile. In genere, nella disorganizzazione l’operatore «compensa» la mancanza di un altro operatore per contiguità; cioè, quello che sta sopra fa anche quello che dovrebbe fare quello che sta sotto e il contrario, come per le competenze avanzate; ma anche quello che sta sullo stesso livello e che fa quello che non fa il suo collega perché gli organici sono carenti. Il bocco del turn over riduce il numero degli operatori creando effetti di sovraccarico lavorativo. Questa flessibilità compensativa è inevitabilmente causa di sfruttamento.

Il demansionamento nel caso del medico. Detto ciò, il demansionamento è un problema di tutti gli operatori perché la decapitalizzazione del lavoro non fa sconti a nessuno. Nel caso del medico la forma più diffusa di demansionamento è la burocratizzazione del suo lavoro; il blocco del turn over ha effetti di demansionamento anche su di lui, e poi rientrano nel fenomeno del demansionamento tutti gli abusi che si fanno contro la meritocrazia (concorsi truccati, raccomandazioni, carriere fatte a scapito di altri). Proprio per questo meraviglia che ancora non si sia pensato a mettere in piedi un’azione comune di tutte le professioni contro il demansionamento Si tratta, tanto per cambiare, di regolare i rapporti tra confinanti e fare lega per garantire innanzitutto professionalità non distorsive e accordarci su una nuova divisione del lavoro e su una nuova forma di cooperazione interprofessionale.

Decapitalizzazione, dumping, sfruttamento. Il costo zero, cioè far svolgere mansioni in più verso qualifiche contigue, o far lavorare di più gli operatori per carenza di colleghi, vuol dire che  anche se fai di più, il valore del lavoro non cambia, cioè l’impiego della mansione in più o in meno è a costo zero. Per cui il demansionamento è per definizione a costo zero. Questo aspetto, con mia grande meraviglia, è passato praticamente sotto silenzio: l’uso a costo zero della mansione, come nel caso delle competenze avanzate e del demansionamento, o il sovraccarico lavorativo, è una forma di dumping e quindi di decapitalizzazione del lavoro. Il dumping, come si sa, è un concetto che deriva dall’economia, e vuol dire vendere qualcosa ad un prezzo inferiore rispetto a quello di mercato o di produzione.
Il demansionamento e le competenze avanzate a costo zero, sindacalmente parlando, sono come degli sconti imposti al valore del lavoro infermieristico. Quindi contribuiscono a decapitalizzarlo. Un altro modo per intendere la questione è quello di immaginare un salario, relativo ad esempio a 10 mansioni, che continua ad essere pagato nella stessa quantità salariale anche quando le mansioni in più o in meno diventano 13. Cioè demansionamento vuol dire comunque che si lavora di più, non di meno. Il demansionamento o le competenze avanzate a costo zero sono come il mio bagno schiuma sul cui flacone è scritto «+ 150 ml in omaggio». Decapitalizzazione e demansionamento sono sinonimo di sfruttamento, perché l’uso di qualsiasi mansione è sempre a costo zero. Se le competenze avanzate degli infermieri, ad esempio, non sono pagate, saranno gratificanti per chi le compie ma sempre sfruttamento restano. Mentre il sovraccarico non sarà mai gratificante per nessuno.

Una grave malattia da curare. Demansionamento e decapitalizzazione sono una grave malattia da curare. Il problema del demansionamento in sintesi è un effetto finale che si manifesta a valle di grandi contraddizioni che, a monte, riguardano tanto la definizione deontologica e le normative che definiscono le professioni, quanto le politiche di decapitalizzazione del lavoro. Cioè il demansionamento è il risultato finale di una regressione che procede in tre momenti distinti: nel primo l’operatore, a causa dell’interazione tra norme inadeguate e contesti avversi, è dis-identificato (mi scuso per il neologismo ma non mi vengono in mente altre parole), cioè allontanato dalla propria identità professionale; nel secondo è deprofessionalizzato, cioè l’operatore perde alcune delle proprie caratteristiche professionali; nel terzo è demansionato l’operatore che svolge gratuitamente mansioni improprie che dovrebbero svolgere altri.
Non si ha demansionamento se prima non si ha deprofessionalizzazione e dis-identità. Il demansionamento è un sintomo di una grave malattia professionale originata da tanti fattori e che non si risolve con l’aspirina cioè in modo sintomatico. Per curare davvero questa malattia è necessario intervenire su ognuno dei suoi principali agenti patogeni, cioè sulla inadeguatezza delle norme sui contesti organizzativi e sul valore salariale del lavoro. Per risolvere il problema del demansionamento bisogna passare per un ripensamento del lavoro e mettere in discussione la mansione; se superi la mansione, superi il demansionamento.

La disobbedienza civile. Da una parte la decapitalizzazione e dall’altra il demansionamento delle professioni costituiscono una questione che, per essere affrontata, merita una strategia con la «S» maiuscola. Per quello che mi riguarda, dividerei questa strategia in due parti che affronterei però contestualmente: per risolvere i problemi attuali degli operatori della sanità non possiamo aspettare di cambiare il mondo della sanità, cioè è necessario intervenire subito con una sorta di politica almeno del contenimento del danno o, perlomeno, del blocco del fenomeno. Mentre si contiene il danno, si deve progettare un sistema che rinnovi e riformi affinché decapitalizzazione e dimensionamento, quali problemi, siano risolti alla radice. Detto ciò, Ordini, Collegi, Sindacati si devono mettere d’accordo se il demansionamento è un’emergenza delle categorie professionali, come io penso; se è un problema individuale del singolo operatore, come io non penso. E capire di chi sono le responsabilità per individuare delle controparti.
Per contenere il danno per prima cosa metterei da parte le dispute tra Ordini, Collegi e Sindacati per lanciare una campagna unitaria, per disobbedire come professioni; organizzerei la disobbedienza civile, per citare Henry David Thoreau, garantendola con tutti i mezzi finanziari e legali necessari. Nelle Casse di Ordini e Collegi entrano tanti, ma tanti soldi, finanziati dall’imposizione fiscale su professionisti, occupati e disoccupati; ritengo che le spese della disobbedienza debbano essere interamente a carico degli Ordini e dei Collegi.
Si tratta di disobbedire nella legalità, quindi di usare le norme che sono a disposizione, in particolare i codici deontologici, i contratti di lavoro, i diritti sul lavoro e i diritti dei cittadini, dal momento che per quanto teorico il compito dei Collegi e degli Ordini resta la tutela dei cittadini; disobbedire non è solo rifiutarsi di essere complici del disservizio e subire il sopruso, ma è anche creare servizio. La mia proposta è difendere gli organici con degli standard di organizzazione legali, fondati sull’evidenza scientifica, e negoziati con le Regioni, perché ritengo che difendere gli organici significa combattere la decapitalizzazione del lavoro, dare posti di lavoro, combattere la precarietà e quindi ridurre per lo meno il fenomeno del demansionamento.
Le risorse finanziarie per gli organici si trovano impegnandoci tutti in una lotta contro le diseconomie, le corruzioni e gli abusi, quindi contestando la teoria del costo zero e usando gli strumenti contrattuali per combattere le diseconomie. Disobbedire significa che d’ora in avanti gli operatori non si fanno carico né dei problemi delle direzioni infermieristiche, sanitarie e aziendali; non sono gli operatori che, per togliere le castagne dal fuoco dei dirigenti, accettano di farsi sfruttare. Ognuno faccia la propria parte e si prenda la propria responsabilità. È troppo comodo vantare successi gestionali sulla pelle dei lavoratori e dei cittadini.
La disobbedienza civile va organizzata per cui creerei una task force nazionale contro l’emergenza del demansionamento, che intervenga in tutte le situazioni in cui c’è bisogno di sostegno, costituita da Ordini, Collegi e Sindacati, con dentro esperti di organizzazione e giuslavoristi. Questa task force dovrà sostenere gli infermieri nelle loro richieste, segnalazioni, denunce, nei loro ricorsi, in tutte le azioni di legittimità che intenderanno assumere,  preferibilmente in forma aggregata. Invece, per rimuovere alle radici le contraddizioni strategiche, metterei in piedi una convention nazionale per ripensare il lavoro nella sanità nel terzo millennio, sempre fatto da Ordini, Collegi e Sindacati, per definire un progetto forte, nella coevolutività di tutte le professioni e per ricapitalizzare il lavoro, per uscire dal taylorismo e per emancipare l’operatore, chiunque esso sia, dalla mansione una volte per tutte.  

Tags: Giugno 2014 lavoro sanità professioni sanitarie Ivan Cavicchi lavoratori medici

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