Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

obsolescenza programmata: le aziende stabiliscono anche l’usura

Massimiliano Dona, segretario generale dell’unione nazionale consumatori

«Avvocato, ma secondo lei, un telefonino acquistato poco più di due anni fa e pagato oltre seicento euro è da considerarsi ‘obsoleto’?». È la domanda che un consumatore mi ha rivolto qualche giorno fa, lamentandosi che, dopo aver per l’ennesima volta aggiornato il sistema operativo del proprio smarthphone, si è drasticamente ridotta la durata della batteria.
Non so, sinceramente, se la domanda nascondesse un tentativo di autoassoluzione del consumatore, il quale concludeva la propria email scrivendo che, anziché andare perennemente in giro con il caricabatterie, era «costretto» ad acquistare il modello successivo appena posto in commercio. Sta di fatto che non è il solo ad interrogarsi sulla durata dei nuovi. Dai telefonini agli elettrodomestici, dai capi di abbigliamento alle scarpe, la maggior parte degli oggetti che acquistiamo sono realizzati con nuovissimi materiali, più leggeri e sofisticati, ma con durata ben più breve rispetto al passato.
Pensiamo ai primi cellulari in circolazione: i più giovani inorridirebbero davanti al mio primo telefonino, una sorta di mattoncino con i tasti grandi quanto nocciole e un’antenna allungabile brutta e scomoda. Eppure, non solo quel telefonino mi ha accompagnato in varie fasi della mia vita lavorativa e non solo, ma lo ricordo soprattutto perché poteva sopravvivere circa una settimana senza ricaricarlo, requisito che oggi sembra un’utopia. È vero, sicuramente, che a quei tempi il cellulare serviva solo per telefonare e oggi è quasi un’appendice della mano, ma ho più di qualche sospetto che ci sia dell’altro.
È quella che Serge Latouche, filosofo della decrescita felice, ospite l’anno scorso del nostro «Premio Vincenzo Dona», definisce «obsolescenza programmata», riferendosi appunto a quei prodotti «concepiti fin dall’inizio per avere una durata limitata».
Non si tratta di teorie complottiste che vogliono presentare i produttori di beni come affaristi e speculatori, ma esistono studi scientifici secondo i quali molti elettrodomestici e numerosi oggetti di uso quotidiano sarebbero programmati per rompersi rapidamente, ma solo dopo la scadenza del periodo di garanzia. Né si tratta di un fenomeno del tutto nuovo: negli anni Trenta con le prime lampadine ad incandescenza fu costituito un cartello tra i produttori per limitarne la durata a mille ore; negli anni Quaranta, poi, il primo paio di collant era talmente solido che poteva servire come cavo per rimorchiare un’automobile, così gli ingegneri furono incaricati di rendere la fibra più fragile per programmarne la rottura.
Oggi è sempre più difficile trovare l’equilibrio tra la necessità di realizzare prodotti affidabili e il bisogno di stimolare l’acquisto delle nuove versioni; le aziende non ammetteranno mai di creare deliberatamente componenti deboli e facilmente usurabili, ma nel 2003 l’Apple fu costretta a firmare un accordo extragiudiziario salatissimo, dopo una class action di consumatori che denunciavano la scarsissima durata della batteria dell’iPod e il costo astronomico dei ricambi, il tutto in concomitanza con il lancio della nuova versione del prodotto.
Il dibattito sul tema è talmente acceso che in alcuni Paesi come la Francia, proprio in questo periodo, si sta pensando ad una legge che stabilisca multe di 300 mila euro e reclusione fino a due anni per le aziende che si macchiano di questo tipo di reati. In Italia, probabilmente, basterebbe applicare le sanzioni per i reati di truffa e frode in commercio che già esistono, ma soprattutto è necessario un cambio di mentalità che può evitare di trasformare gli oggetti di consumo in bombe ad orologeria pronte a scoppiare al momento opportuno.
D’altra parte l’obsolescenza programmata ha anche una forte componente culturale - si parla di obsolescenza psicologica -, alimentata da tutte quelle aziende alla ricerca continua di nuovi prodotti sempre più evoluti da lanciare nel mercato, spingendo i consumatori a buttar via oggetti perfettamente funzionanti per inseguire la moda del momento. Non è facile rinunciare a comprare il prodotto più trendy, ma in tempi di crisi non possiamo accettare queste furbizie sulle nostre tasche. Dovremmo, soprattutto, aiutare i consumatori a convincersi che ci si sta avvicinando verso nuovi paradigmi nei quali sarà bene superare l’era del consumo in favore di quella dell’accesso e della condivisione.  

Tags: Novembre 2014

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa